di CORRADO BOLOGNA Giulio Camillo, amico di Ariosto e di Tiziano, di Pietro Aretino e di Lorenzo Lotto, era basso di statura, corpulento, geniale e coltissimo, un po’ folle come ogni donchisciotte perso dietro a un suo mondo alternativo, affascinante seduttore e sognatore con un’idea fissa, fra le più belle e anticipatrici dell’età moderna. Girava di corte in corte, da Ferrara alla Francia, per dar corpo al suo grande progetto, che chiamava il Teatro della Memoria, o anche della Sapienza. Era insieme un libro e un anfiteatro: un luogo fisico, costruito con il legno e riempito di quadri e di libri, e uno spazio mentale, il modello astratto di un processo di edificazione interiore, non troppo dissimile da un esercizio spirituale, di quelli che a partire dal 1540, forse ispirandosi anche al Teatro camilliano di cui poté sentir parlare durante il suo soggiorno a Parigi, Ignazio di Loyola cominciò a praticare a Roma. Giulio Paolini, «Recital», dalla serie «L’autore che credeva di esistere», 2012 Invasato da un fuoco sacro Camillo balbettava, si emozionava, non riusciva quasi più a parlar latino mentre accompagnava gli esploratori invitati ad affacciarsi a quel suo universo in un percorso iniziatico fra i più straordinari che l’Occidente abbia conosciuto. Il progetto era di insegnar loro a ricostruire artificialmente lo spirito, imparando a classificare l’intera sapienza umana, tutte le parole, tutte le idee pensabili e a raggiungerne le radici profondissime, cogliendo sul nascere le immagini e apprendendo l’arte di produrne sempre nuove, in un ordinato proliferare dell’immaginazione creatrice. Così, performativamente, insegnava ai suoi ospiti-iniziandi l’arte della memoria e della metamorfosi spirituale. Lo descrive con toni un po’ critici, leggermente maligni, l’oscuro Viglio da Zwichem in una lettera al suo celebre amico Erasmo da Rotterdam, con cui Camillo aveva avuto una polemica sul classicismo. Il Teatro di Camillo, scrive Viglio, è un edificio di legno, suddiviso in sette gradinate «tagliate» su sette livelli corrispondenti a sette pianeti, che identificano quarantanove «luoghi», spazi fisici e insieme mentali costellati di quadri allegorici e di libri su cui occorre concentrarsi (così balbettava Camillo, e riferiva, acidulo, Viglio) per poter compiere la trasformazione della propria anima. Camillo lo definiva «mens fenestrata» e «animus fabrefactus»: e Viglio non capiva che cosa significasse quel sondare le profondità della mente leggendola attraverso «finestre», quel volere «ricostruire l’anima» come se fosse un’opera d’arte, dominando i meccanismi del suo funzionamento e imparando a orientarli e a riplasmarli. Un semplice umanista di cultura molto tradizionale non poteva capire. Camillo non solo coniugava il suo classicismo in una dimensione estetica e poetica già manieristica: era avanti di secoli, pensava come un uomo moderno. Si direbbe un nostro contemporaneo: sembra aver colto con secoli di anticipo – potendo però contare su dispositivi concettuali e materiali ancora inadeguati all’eccezionalità del progetto, che infatti fallì – il senso dell’intreccio complesso fra parole e immagini, memoria e inconscio, autenticità e artificio, tipica del pensiero psicoanalitico, delle neuroscienze, dell’iconologia, dell’informatica e della comunicazione multimediale maturata nel tempo nostro. Lo sentiamo come un inquieto e coraggioso compagno di strada, riconosciamo in lui prospettive e intuizioni modernissime, che infatti hanno conquistato alcuni dei moderni: Aby Warburg, per esempio, che per edificare la biblioteca dei saperi umanistici intitolata Mnemosyne e per elaborare l’Atlante reticolare di immagini «dinamiche» ad essa collegato, pensò proprio al Teatro di Camillo e a quello di Giordano Bruno, che a sua volta ne aveva tratto ispirazione. Negli ultimi decenni una formidabile ripresa delle ricerche intorno all’aggrovigliata questione testuale, ai suoi rapporti con le mnemotecniche medioevali e moderne e con l’arte figurativa del primo Cinquecento, ha consentito di riscoprire il Teatro di Giulio Camillo, facendolo finalmente riemergere dai secoli di oblio in cui lo aveva affondato il disdegno illuministico verso qualsiasi idea che avesse sentore d’irrazionalismo, di magia, di cabala, di spiritualità neoplatonizzante. Con solida cura filologica ci restituisce oggi questa meraviglia della civiltà cinquecentesca, mettendone in luce le innumerevoli relazioni con la rete della cultura manieristico-barocca, ma anche i molti punti di vista di sorprendente attualità, la migliore specialista del tema, Lina Bolzoni, che anni fa, in due bellissimi libri (Il teatro della memoria, Liviana, 1984; La stanza della memoria, Einaudi, 1995), aveva già offerto la più sottile, ricca e originale lettura del Teatro camilliano e del suo ruolo nella formazione della rete di saperi, in quell’età cruciale che unisce e separa Ariosto, Bembo e Tiziano da Tasso, da Athanasius Kircher, da Caravaggio. Lina Bolzoni pubblica ora presso Adelphi la prima, tanto attesa quanto preziosa e da oggi imprescindibile, edizione critica e commentata dell’Idea del theatro Con «L’idea dell’eloquenza», il «De Transmutatione» e altri testi inediti (pp. 325, e 70,00) , che è una sorta di sintesi d’autore di un’intera vita di letture, di progetti complicati e sempre mutevoli, di ricerche matte e disperatissime. Camillo l’avrebbe composta in soli sette giorni poco prima di morire, nel 1544, secondo una testimonianza dai toni un po’ mitografici del suo amico Girolamo Muzio, che gli era accanto alla corte del vicerè di Milano, il Marchese Alfonso d’Avalos, anche lui perdutamente innamorato del progetto camilliano, così come una ventina d’anni prima lo era stato il re di Francia Francesco I. Il testo fu pubblicato postumo, nel 1550, ed ebbe grandissima diffusione anche nella ripresa con altre opere di Giulio Camillo sul finire del Cinquecento. Ora Lina Bolzoni introduce nell’esame dell’iceberg sottostante all’Idea molti materiali manoscritti, alcuni dei quali finora sconosciuti: il Teatro è un universo in espansione, una «galassia di testi» in movimento, dinamica e metamorfica proprio come la macchina spirituale che vi viene descritta, pensata per trasformare l’interiorità in «mente dotata di finestre» e «anima artificialmente ricostruita». L’introduzione, magnifica, vale già da sola come viatico ai temi non solo relativi a Giulio Camillo, ma largamente rinascimentali, dell’imitazione dei classici, della formazione di un gusto manieristico nel legame fra testo e immagine, dell’ars della metamorfosi spirituale. In modo speciale vi si propone la chiave storico-culturale delle arti della memoria e del loro rapporto con l’arte figurativa e con l’architettura. Camillo fu amico intimo del Pordenone, di Francesco Salviati, di Tiziano, di Lorenzo Lotto, di Sebastiano Serlio, e il suo teatro si intreccia con molte delle loro opere in percorsi ancora in parte da svelare: soprattutto, credo, nella direzione della Galleria che Francesco I fece realizzare a Fontainebleau da Rosso Fiorentino e da Francesco Primaticcio, e che a me sembra direttamente connessa al Teatro, in un reticolo di relazioni iconografiche in cui si trovano coinvolte la Camera di San Paolo di Correggio a Parma, l’annessa stanza allegorica di Alessandro Araldi, l’ancora inedita casa del Pordenone nell’omonima città. Tutti gli strumenti necessarî a entrare, senza poi smarrirsi, nel labirintico Teatro di Camillo vengono messi a disposizione del lettore da Lina Bolzoni, che dimostra come quel teatro sia in primo luogo «una grande macchina per l’imitazione letteraria», utilizzabile nello stesso tempo «per costruire qualcosa di simile nelle arti figurative», dal momento che «per Camillo il letterato e l’artista operano su materiali diversi, ma seguendo procedure idealmente identiche». Una minuziosa, «spossante “anatomia” cui Camillo sottopone i testi presi a modello» permette di dislocarne gli estratti sui “gradini” del teatro di legno (ma anche nei fogli dei libri preparati con rubriche e indicatori grafici come un manuale mnemotecnico). CONTINUA A PAGINA 4 LE METAMORFOSI DI GIULIO CAMILLO COMMENTATA DA LINA BOLZONI, ESCE PER ADELPHI LA PRIMA EDIZIONE CRITICA DELL’«IDEA DEL THEATRO», SINTESI COMPOSTA NEL 1544 DI RICERCHE MATTE E DISPERATE. DOVEVA ESSERE INSIEME UN LIBRO E UN ANFITEATRO, UN LUOGO FISICO, COSTRUITO CON IL LEGNO E RIEMPITO DI QUADRI E LIBRI, E UNO SPAZIO MENTALE. OGGETTO VORTICOSO E VIRTUALE, POTENZIALMENTE GIÀ BAROCCO E PERSINO NOVECENTESCO, TANTO CHE ISPIRÒ A WARBURG IL SUO «MNEMOSYNE», IL TEATRO DI CAMILLO DOVEVA FORNIRE LA GRIGLIA INTERIORE NECESSARIA A UN NUOVO LINGUAGGIO UNIVERSALE FRISCH-JOHNSON • ROTH • BALL • NICOLOTTI • ASLAN • NGUGI • ONDJAKI • BEHN • BRONZI ELLENISTICI • SQUILLACE • CANFORA • NAGASAWA • DESIGN GIAPPONE (2) ALIAS DOMENICA 3 MAGGIO 2015 «UNA DIFFICILE AMICIZIA», VENT’ANNI DI CORRISPONDENZA, EDIZIONI ARMANDO DADÒ FRISCH-JOHNSON di ANNA RUCHAT Fin dalle prime battute l’amicizia tra Max Frisch e Uwe Johnson non si presentò priva di asperità: «Il modo in cui lei si è comportato durante il nostro incontro a Berlino mi ha colpito (…) c’è qualcosa che mi deve dire? E allora la dica. Non ho intenzione di accettare un altro incontro come quello di Berlino», scrive Frisch piuttosto irritato dopo una cena con Johnson a casa di Günter Grass. Johnson risponde dapprima con una lettera molto dura, che però non spedisce. Ne manda invece una conciliante, per ricucire lo strappo. Nonostante le scuse e benché i due scrittori si incontrassero spesso in occasioni legate all’attività della comune casa editrice, la Suhrkamp, sarebbero passati altri sei anni prima che lo scambio epistolare decollasse, costituendosi come uno dei carteggi più significativi del secondo Novecento tedesco: esce in questi giorni, con il titolo Max Frisch – Uwe Johnson, una difficile amicizia Corrispondenza (a cura di Mattia Mantovani) presso un piccolo editore della Svizzera italiana (Armando Dadò Editore, pp. 304, s.i.p. ). Lo compongono centoventicinque lettere, corredate di numerosi interessanti allegati (rispetto all’originale tedesco del 1999, manca la revisione editoriale operata da Johnson sul Diario della coscienza e poco altro), che i due scrittori lontani tra loro per età e per appartenenza geografica (Frisch era nato nel 1911 a Zurigo e Uwe Johnson nel 1934 a Cammin in Pomerania, oggi Polonia) si scambiano nell’arco di quasi vent’anni, tra il 1964 e il 1983). Nel gennaio del 1971, Johnson accetta di assumersi la lettura e il relativo editing del Diario della coscienza 1966-1971 (pubblicato da Feltrinelli, oggi non più disponibile): conosce i propri limiti, dunque accoglie questo compito non senza timori: «Per mia sventura ho fama di essere arrogante» scrive a Frisch e poi subito mette l’amico svizzero di fronte a quello che potrebbe essere il tenore delle sue argomentazioni, aggiungendo: «E io non potrò che comprenderla quando dirà: ma come si permette questo giovincello!» In realtà Frisch è convinto che Johnson farà un buon lavoro: «Dovrà essere severo con me», scrive affidandogli il suo Journal, «da Lei posso accettarlo». Nelle lettere dei primi anni settanta i due scrittori getteranno le basi di un rapporto che, sebbene non confidenziale (continueranno a darsi del lei fino alla fine), sarà tuttavia segnato da una grande stima reciproca e da una costante onestà intellettuale. Lettera dopo lettera Frisch si affiderà infatti sempre più allo scrit- Centoventicinque lettere, scritte tra il ’64 e l’83: sebbene più anziano, Frisch si affida al giudizio etico e estetico di Uwe Johnson; ma si parla anche di incontri in varie città e, molto, di denaro Due autori Suhrkamp lungo i confini fissati tra pudore e coraggio tore più giovane nella valutazione etica ed estetica dei propri scritti. La franchezza dell’amico rassicura lo scrittore più anziano anche se le loro posizioni rispetto alla letteratura rimangono lontane: Frisch è preoccupato perché Johnson vive sempre più all’interno di quel concatenamento di invenzione – ricordo – deformazione della memoria, di cui si compongono il romanzo in quattro volumi I gior- ni e gli anni e l’esistenza della protagonista Gesine Cresspahl; d’altra parte lo ammira per lo scrupolo e per il senso di responsabilità che dimostra nei confronti dei suoi personaggi e della storia del Novecento. «Caro Uwe, uno dei presupposti imprescindibili, abbiamo detto passeggiando per strada» – scrive Frisch il 16 marzo 1976 dopo una visita a Johnson – «è la presunzio- JOSEPH ROTH di GIANCARLO MANCINI Il cinema visto negli anni di Weimar da uno spettatore tutto calato negli incanti di una lingua nuova Se si dovesse procedere per decenni, dunque inevitabilmente a volo d’uccello, si potrebbe dire che gli anni venti per il cinema rappresentano la definitiva consacrazione della sua essenza di arte popolare, di massa. Scrittori e intellettuali, dal canto loro, continuano a cercare di capirne le possibilità, giocando con quella lingua spuria, frammista di parole, suoni e immagini. Ma tra questi ci sono anche quelli che decidono di andare a sedersi assieme al pubblico e raccontare la complessa macchina spettacolare del cinematografo. È proprio la curiosità di scoprire come il cinema riesca a essere una calamita così potente a nutrire molti dei pezzi di Joseph Roth, ora raccolti in L’avventuriera di Montecarlo (a cura di Leonardo Quaresima, «Piccola Biblioteca» Adelphi, pp. 285, e 12,00). Gli articoli sono divisi in quattro sezioni: feuilleton, recensioni, critica militante, teoria del cinema, e coprono un arco di tempo che va dagli inizi della carriera giornalistica di Roth, attorno al 1919, fino ai primi anni trenta. Il tono è generalmente quello della divertita scoperta di un universo a parte, a tratti anche bizzarro, senz’altro capace di toccare corde impreviste, al punto da trasmettere, dagli attori agli spettatori, gli elementi di un vero e proprio codice di comportamento, un modo di stare a tavola e di parlare ne, una sorta di spudoratezza. In caso contrario non si fanno parlare figure fittizie, non le si fa agire, nello specifico di Gesine: non le si fa sposare. Ho lasciato Sheerness non senza preoccupazioni». Entrambi lavorano sul confine tra realtà e finzione, ma se Frisch lo fa spingendo i personaggi della sua vita reale all’interno della narrazione, Johnson assume la posizione del testimone calandosi completamente nel mondo fittizio, che per lui ha carattere di «verità storica»: «Caro signor Frisch! Visto che ha indicato un indirizzo a New York, 300 Central Park West, posso solertemente permettermi di darle il benvenuto in una zona della città che amministro in nome e per conto della mia mandante Gesine Cresspahl». Di certo, le considerazioni più interessanti del carteggio nascono intorno a Montauk, il racconto in cui Frisch, narrando un fine settimana a New York in compagnia di una giovane donna, ripercorre dettagli della propria relazione con Ingeborg Bachmann, sua compagna dal 1958 al 1962, e riflette sull’adulterio della moglie Marianne e sui propri. A Johnson, Frisch chiede di leggere la prima versione e poi di scriverne a Marianne: «Cara Marianne» – dice tra le altre cose Johnson in una lettera molto dettagliata che sottolinea le tappe dell’opera di Frisch sotto il profilo etico-estetico: «Chiunque conosca l’opera di questo scrittore, avrà a che fare con lui nell’attesa di incontrarvi se stesso quale esperienza non dissimulata. L’autore sa cosa gli hanno mostrato le persone della sua vita, e lo mostra in queste stesse persone (…) L’autore ha portato avanti il procedimento della sincerità. Com’era da aspettarsi». Johnson difende l’opera dell’amico pur senza condividerne sempre le scelte, la difende come fanno le persone ricche ed educate. Siamo nell’immediato primo dopoguerra, l’impero asburgico si è dissolto e in Germania è stata appena varata la repubblica di Weimar, Roth scrive il primo articolo per «Filmwelt», una rivista di cinema viennese, e poi con il trasferimento a Berlino prosegue questa sua attività su testate di più ampio respiro, tra cui la «Frankfurter Zeitung». La sua scrittura è come sempre precisa, asciutta, mira a cogliere il dettaglio rivelatore, descrive per capire, si appassiona ai grandi squarci naturalistici, racconta i divi dell’epoca, da Asta Nielsen a Emil Jannings. Poi ci sono eccelsi film d’autore da cui certo non scappa, in Germania stanno emergendo registi del calibro di Murnau, Robert Wiene, Fritz Lang da Nosferatu (1922) a I Nibelunghi (1924). Ma c’è anche lo spazio per osservare e recensire cinegiornali sull’incontro tra Gandhi e Chaplin o sui funerali di Lenin. Dall’estero in quegli anni non arrivano solo Harold Lloyd o I Dieci comandamenti. La recensione di Roth a un Cristo prodotto dall’italiana Cines è esemplificativa del suo modo di intendere il cinema, non da letterato in vacanza, come purtroppo ancora oggi accade in Italia a molti, ma da appassionato e cultore del suo alfabeto per nulla aulico. In cima all’articolo non c’è nessuna descrizione di quanto si vede sullo schermo ma direttamente un giudizio sulla qualità di quanto si è visto, dunque non le parole Max Frisch e Uwe Johnson, foto Bild sul piano della priorità della letteratura rispetto alla vita. E conclude: «Cara Marianne, (…) Penso di sapere cosa avresti preferito sentire, e so che non è quanto ti ho scritto. Ho avuto la possibilità di descriverti cosa penso realmente del libro oppure di ferirti col mio silenzio». Frisch, da parte sua, pur convinto del grande valore letterario dei Giorni e gli anni, non svolgerà mai nessun commento specifico al riguardo, ma ricambierà, almeno in parte, il gesto di Johnson qualche anno più tardi, incoraggiandolo nell’impostazione che vuole dare alle sue Lezioni di Francoforte: «Sono curioso di leggere le sue lezioni. Prendere "semplicemente" spunto dalle sue esperienze sarebbe non solo lecito, ma anche perfettamente consono all’idea delle lezioni di poetica». Scrive Frisch l’11 gennaio 1979, rispondendo alla domanda: «Troverebbe discutibile se mi limitassi a prendere spunto dalle mie esperienze (il mio «caso»)?» E Frisch aggiunge: «Il confine è fissato dal pudore dell’autore, quindi è soggettivo». Sullo sfondo di questa discussione, tutta interna ai processi della scrittura e spesso condotta con toni ironici e lievi, ci sono la vecchiaia di Frisch, il fallimento della sua relazione con Marianne: «Il mio soggiorno qui è piuttosto insensato» – scrive Frisch nell’estate del 1975 – «è un’esercitazione al silenzio, non incontro nessuno – nemmeno me stesso». E c’è soprattutto il silenzio pesante di Johnson, sempre più risucchiato nel «buco nero», di un lavoro letterario che finisce per erodere la sua stessa esistenza: «Caro Frisch» – scrive il 3 ottobre 1979 – «Mi manca di nuovo quel coraggio che pertiene ad ogni scrittura e in primo luogo a quella di una lettera». Se le discussioni relative al lavoro occupano lo spazio principale nel carteggio, non sono tuttavia l’unico argomento. Si stabiliscono i prossimi incontri a Berlino, New York, Berzona, Zurigo; si parla di aiuti pratici (nel 1972, quando la coppia Frisch si trasferisce a Berlino, Uwe Johnson si occupa dell’appartamento, e dell’arredamento); si parla anche, e molto, di denaro perché Frisch animato da una generosità disinteressata, sostiene economicamente il giovane amico. In Germania la pubblicazione dei carteggi degli autori Suhrkamp permette oggi al lettore di calarsi in un’epoca in cui la casa editrice e i suoi autori costituivano, per l’intera area germanofona, una sorta di istanza morale. Un vero peccato che l’epistolario sia un genere poco considerato dall’editoria italiana. impresse nelle didascalie o le azioni, ma le immagini sono il punto di riferimento di Roth. «Purtroppo – scrive Roth – la qualità delle immagini è molto scadente, lo schermo troppo stretto, lo spazio troppo grande, la luminosità del proiettore molto scarsa». A parte la precisione e l’acume dell’analisi riassunta in termini così chiari, l’altro elemento interessante è l’attenzione verso la dimensione spaziale in cui è calata la pellicola, le caratteristiche dello spazio in cui si svolge, sia esso un anfiteatro a cielo aperto o una grande sala monumentale. Oppure, ancora, la performance del direttore d’orchestra, insomma tutte quelle componenti che ancora negli anni venti sono centrali per il cinema e che invece spariranno con l’avvento del sonoro. Qua e là affiorano anche umori tipici della produzione maggiore di Roth, quella narrativa, come ad esempio quando, parlando del cinema della repubblica di Weimar, dice che con la scomparsa delle dinastie degli Asburgo e degli Hohenzollern è finito anche un modo di parlare e di essere nel mondo. I colpi di stato, le turbolenze reazionarie e infine l’insediamento della repubblica «si incalzano con tale velocità da far credere che la storia contemporanea sia uno spettacolo cinematografico». È questa febbrile caoticità a fare del cinema la lingua del ventesimo secolo, l’era di Benjamin. ALIAS DOMENICA 3 MAGGIO 2015 IN PRIMA TRADUZIONE DA ADELPHI, «CRISTIANESIMO BIZANTINO» DI HUGO BALL BALL Giovanni Climaco, Dionigi l’Areopagita e Simeone lo Stilita orientarono nell’inquieto dadaista una mistica ricerca della luce di EMANUELE TREVI Hugo Ball è uno degli eroi del Novecento. Il 5 febbraio del 1916 inaugurò a Zurigo il Cabaret Voltaire, travestito come un grande, elegantissimo cazzo argentato. Il 28 luglio, lesse al pubblico il Manifesto del Dadaismo. In quel periodo compose alcune delle più memorabili insensatezze dell’epoca, come i «sonetti schizofrenici» e altre libere associazioni di parole inesistenti. Ma non era fatto per diventare uno dei tanti papi dell’avanguardia che invecchiano fra anniversari e antologie. Nemmeno il Dadaismo può imbrigliare a lungo uno spirito veramente inquieto e votato, più di ogni altra cosa, alla sua personale e inimitabile recherche de l’absolu. Nei suoi quarantun’anni di vita (morì nel 1927) Ball si interessò di molte cose, dall’arte drammatica di Max Reinhardt, di cui fu un allievo, al pensiero di Bakunin e degli anarchici dell’Ottocento. Forse il cattolicesimo assorbito in famiglia ebbe qualche parte nella profonda religiosità, decisiamente indirizzata alla mistica, che caratterizza gli ultimi anni della sua vita. Se misurato sul metro della particolare intensità che Ball riversava nelle sue passioni, l’itinerario dal Dadaismo ai Padri della Chiesa può essere considerato meno lungo di quello che si immagina. Fatto sta che Cristianesimo bizantino (trad. di Piergiulio Taino, «Biblioteca Adelphi», pp. 316, e 28,00) è tutto meno che uno dei tanti libri-fioretto scaturiti da una conversione che affollano gli archivi della modernità. In conseguenza di un bizzarro fenomeno psicologico, molto spesso il pensiero del convertito moderno, sia in senso politico che religioso, è gravato da una certa ottusità e da una fatale mancanza, per così dire, di documentazione. Non è l’esattezza la virtù principale dell’uomo nuovo, nel quale l’energia del cambiamento prevale sulla conoscenza vera e propria. Naturalmente, sto trascurando ingiustamente tantissime eccezioni. Ma chi ha letto la prima parte del Regno di Carrère ha potuto toccare con mano quanto sia pernicioso il narcisismo che si acquatta in ogni esigenza di salvezza individuale, in ogni ricerca di una rinnovata pienezza della vita. Ecco, la prima cosa che si può dire sul suo splendido libro è che Hugo Ball, dai mistici e dagli asceti a cui si è dedicato con tanta profondità, ha imparato, per prima cosa, quanta salute («il superlativo della salute è l’immortalità») sia racchiusa in un’abolizione totale dell’Io e dei suoi diritti. Anche a scrutarlo con una lente di ingrandimento, non troveremmo in Cristianesimo bizantino il minimo sottinteso autobiografico. Il fatto è che quando una materia è stata così assimilata da diventare la sostanza più intima e tenace del pensiero e della personalità, non c’è più bisogno di giustificare in qualche modo il proprio coinvolgimento, puntellandolo con circostanze estranee alla cosa in sé. Non a caso al suo amico Hermann Hesse lo stile di Ball ricordava quello di certe vite di santi della tradizione ebraica scritte da Martin Buber. L’analogia vale anche per il rigore delle conoscenze, che si può definire «filologico» soprattutto per l’abitudine a un rapporto di prima mano con le fonti più ardue e originarie. Anche nel concepire l’architettura dell’opera, Ball rivelò un vero talento da artista degli abissi. Cristianesimo bizantino è un trittico, i cui pannelli sono rispettivamente dedicati a tre campioni della mistica e dell’ascesi vissuti tra il V e il VI secolo: Giovanni Climaco, il grande solitario del Sinai che scrisse La scala del Paradiso; il misterioso e sublime teologo che alla fine del V secolo firmava le sue opere con il nome di un personaggio degli Atti degli Apostoli, l’ateniese Dionigi l’Areopagita convertito da san Paolo; Simeone lo Stilita, infine, che visse quarant’anni in cima a una colonna – un uomo ancora capace di praticare la preghiera come una «scienza esatta». L’inclinazione «pittorica» di Ball si rivela anche nel fatto che tre storie diverse si svolgono nello stesso paesaggio: l’Asia Mino- Icona del Cristo Pantocratore, monastero di Santa Caterina del Sinai; in alto Hugo Ball recita nel ’16 al Cabaret Voltaire di Zurigo re, dai centri spirituali della Siria al gran calderone sapienziale di Alessandria, passando per le rupi del Sinai pullulanti di comunità di monaci e di eremiti. Si addice alla forma del trittico anche il fatto che sia il pannello centrale quello più ampio e in tutti i sensi impegnativo. Il cristianesimo di cui parla Ball – per non parlare dell’ortodossia cattolica – è ancora una pasta molle, un coacervo di possibilità. La teologia mistica dell’uomo che oggi chiamiamo (con gran dispiacere di Ball) lo pseudo-Dionigi è un’impresa unica di armonizzazione all’incrocio di eredità gnostiche, neoplatoniche ed ebraiche, fondata sulle due colonne della gerarchia e del sacerdozio. Parole, ammettiamolo pure, tutt’altro che attraenti, ammesso che siano ancora Dal Cabaret Voltaire ai Padri della Chiesa SINDONE di BEATRICE IACOPINI Sacra o profana, la reliquia viene restituita all’agone delle controversie in un saggio di Andrea Nicolotti Quando, nei vangeli sinottici, gli agiografi lasciarono traccia en passant di un «lenzuolo» (sindòn) con cui sarebbe stato avvolto il corpo di Gesù crocifisso, non potevano immaginare che da quella parola, in greco semplicemente «lino», sarebbero scaturiti nei secoli culti e pellegrinaggi destinati a durare fino a oggi. E che uno di questi «lenzuoli» in particolare, il più famoso ai nostri giorni, quello conservato a Torino, sarebbe diventato in controtendenza un caso raro, se non unico, di reliquia dichiarata falsa da un vescovo e da un papa medievali pochi anni dopo la sua comparsa e oggi invece venerata da molti come autentica. Presunte stoffe sepolcrali di Gesù cominciano a comparire nei racconti di pellegrini recatisi in Terra Santa intorno al VI sec. e poi soprattutto in epoca carolingia, quando il traffico di reliquie in Europa si fece più intenso. Ma è soprattutto la Sindone per eccellenza, in questi giorni esposta al pubblico, che ha suscitato e suscita ancora oggi il maggior interesse, meta com’è di pellegrinaggi oceanici e oggetto di studi di ogni genere alcuni decisamente fantasiosi, come quelli sulle sue presunte «radiazioni» in grado di far crescere meglio le piante. Sull’autenticità del reperto si sono accese discussioni di cui il lettore ha (3) in qualche modo comprensibili al di fuori del mondo clericale. Ball sa bene che esiste questo ostacolo. «Abbiamo disimparato lo stile arcano», osserva a un certo punto, assieme alla capacità di interpretare i «segni divini per mezzo del cuore». Di conseguenza un intero vocabolario è scivolato nell’insignificanza. Anche quando riusciamo a esercitare un minimo di empatia nei confronti di quelle vite e di quelle menti così remote, magari ammirando la sovrumana capacità di resistenza nelle privazioni degli eremiti, li confondiamo facilmente con degli «artisti del digiuno», osserva Ball, non saprei dire se alludendo al racconto di Kafka, uscito in rivista nel 1922. E ancora di più la sfida di Ball ci apparirà ardita ai limiti dell’impossibile, artisticamente ancora prima che filosoficamente, quando si tratta di affrontare le vertigini e gli aneliti del pensiero dello pseudo-Dionigi. Nulla è più lontano dal Cristianesimo bizantino, infatti, che un intento di divulgazione e semplificazione a uso della curiosità dei contemporanei. Sostenuta da un traliccio perfettamente congegnato di citazioni, la prosa di Ball non mira a spiegare, ma a far vedere la bellezza di una visione del Cosmo percorsa da una sola luce che dalla sua fonte ineffabile percorre tutta la gerarchia degli esseri, richiamandoli a sé lungo il cammino ascendente della purificazione, dell’illuminazione, della perfezione. Quello che Ball descrive è come l’esplodere di una luce nella storia del pensiero. È una luce paradossale, poiché proprio con la sua abbondanza il divino rimane occultato e, come dice Dionigi, celato anche all’interno della sua manifestazione. Ed è la stessa luce che, secoli dopo, nutrirà le più alte emozioni visionarie di Dante, degli spericolati maestri del gotico, dei pittori di icone con i loro pennelli intrisi d’oro. Se si trovano la pazienza e il ritmo necessari, il libro di Ball agisce come una specie di incantesimo, tanto più efficace quanto più si era del tutto ignoranti o solo vagamente informati dei suoi astrusi argomenti. Facciamo esperienza diretta di un modo di intendere il mondo e il destino talmente estranei alle nostre abitudini che ne ricaviamo un senso benefico di incremento delle possibilità della mente. E insieme, quel senso di libertà che proviene sempre dall’incredibile. Già, perché sembra incredibile che qualcuno abbia scritto libri come la Scala del Paradiso o la Gerarchia celeste o che abbia passato gran parte della sua vita in cima a una colonna. Lasciando da parte la storia del cristianesimo, è un capitolo importante, quello scritto da Ball, della storia universale dell’estremismo. Nessun’altra definizione si addice meglio a uomini capaci di immaginare una scala tra la terra e il cielo, e poi montarla senza riposo, giorno dopo giorno, con tutto il corpo e tutta la mente. testimonianza in una bibliografia sterminata, all’interno della quale tuttavia è difficile reperire un lavoro che non sia già in partenza palesemente di parte. Sindone di Andrea Nicolotti, (Einaudi, pp. 351, e 32,00), si situa in questo clima di contrapposizione accesa tra autenticisti e negazionisti come una ricostruzione scientifica molto dettagliata della nascita e dello sviluppo del culto per i lini sepolcrali di Gesù e in particolare per quello torinese, la cui storia certa risale solo alla metà del XIV sec. Ma nemmeno il lavoro attento di uno storico di indubbia levatura, che vanta al suo attivo svariati studi sull’argomento, ce la fa ad uscire dall’agone: l’autore, schierato decisamente tra coloro che negano con fermezza l’autenticità della Sindone, non risparmia frecciate pungenti e maligne considerazioni nei confronti degli avversari. Attraverso pagine dense di informazioni e ricostruzioni minuziose di vicende controverse, Nicolotti vuol dimostrare che le stoffe sepolcrali di Gesù, cui i vangeli accennano in modo laconico e di cui non si parlò per diversi secoli – prova evidente del fatto che non si era conservata alcuna benda o sudario originali – sono tutte di origine medievale e che la fama della Sindone torinese ha surclassato in epoca moderna quella di tutte le altre soprattutto grazie a un’abile propaganda sostenuta prima da casa Savoia, che ne è stata GERENZA Il manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri a cura di Roberto Andreotti Francesca Borrelli Federico De Melis redazione: via A. Bargoni, 8 00153 - Roma Info: tel. 0668719549 0668719545 email: redazione@ilmanifesto.it web: http://www.ilmanifesto.info impaginazione: il manifesto ricerca iconografica: il manifesto concessionaria di pubblicitá: Poster Pubblicità s.r.l. sede legale: via A. Bargoni, 8 tel. 0668896911 fax 0658179764 e-mail: poster@poster-pr.it sede Milano viale Gran Sasso 2 20131 Milano tel. 02 4953339.2.3.4 fax 02 49533395 tariffe in euro delle inserzioni pubblicitarie: Pagina 30.450,00 (320 x 455) Mezza pagina 16.800,00 (319 x 198) Colonna 11.085,00 (104 x 452) Piede di pagina 7.058,00 (320 x 85) Quadrotto 2.578,00 (104 x 85) posizioni speciali: Finestra prima pagina 4.100,00 (65 x 88) IV copertina 46.437,00 (320 x 455) stampa: LITOSUD Srl via Carlo Pesenti 130, Roma LITOSUD Srl via Aldo Moro 4 20060 Pessano con Bornago (Mi) diffusione e contabilità, rivendite e abbonamenti: REDS Rete Europea distribuzione e servizi: viale Bastioni Michelangelo 5/a 00192 Roma tel. 0639745482 Fax. 0639762130 proprietaria fino al 1983, poi dalle autorità ecclesiastiche e oggi rinvigorita dai cosiddetti sindonologi, studiosi autenticisti che Nicolotti non manca di inserire nel novero degli «pseudoscienziati». L’autore non ha dubbi nel sostenere le sue tesi, ma chiunque abbia cercato di informarsi con oggettività in proposito sa che ogni minima affermazione riguardante il sacro lenzuolo sembra destinata a essere messa in discussione con argomenti almeno apparentemente altrettanto validi. D’altra parte tutto ciò risulta da un problema oggettivo, e Nicolotti giustamente non manca di sottolinearlo: prelievi e indagini dirette sul reperto sono stati resi possibili solo due volte e in anni ormai lontani, nel 1978 e nel 1988. Questo avrà giovato senz’altro a rinvigorire l’aura di mistero che aleggia intorno alla Sindone e a aumentare il numero dei pellegrini che si muovono in occasione delle ostensioni, ma certo allontana gli scienziati più seri e favorisce il proliferare di letteratura di scarso valore. Intanto, milioni di persone si recheranno in questi mesi a Torino per ammirare un oggetto che la Chiesa stessa non si sbilancia a proporre come reliquia autentica e su cui afferma ambiguamente di voler lasciare alla scienza, che però intanto viene tenuta lontana dall’osservazione diretta, il compito di dire l’ultima parola. (4) ALIAS DOMENICA 3 MAGGIO 2015 «NON C’È DIO ALL’INFUORI DI DIO», UN SAGGIO DI REZA ASLAN PER RIZZOLI ASLAN di VERMONDO BRUGNATELLI «L’islam può essere oggi usato per costruire una democrazia veramente liberale nel Medio Oriente e oltre?» Si può dire che sia questo l’interrogativo di fondo del volume di Reza Aslan, Non c’è dio all’infuori di Dio Perché non capiamo l’islam (Rizzoli, pp. 409, e 20,00). A dispetto del sottotitolo italiano, il saggio non è banalmente concepito allo scopo di fornire un po’ di nozioni sulla religione islamica a lettori ansiosi di «capirne» qualcosa, dal momento che si è fatta più vicina e minacciosa. Nell’accostarsi a questo libro, sarà utile tenere presente che è stato scritto una decina d’anni fa, in un contesto diverso da quello odierno, in cui non si era ancora assistito né alle «primavere arabe» né al sorgere del «califfato» dell’Isis: sarebbe quindi vano cercarvi «spiegazioni» di quanto è avvenuto negli ultimi anni e degli eventi dell’attualità. È vero che il lavoro di questo studioso iraniano trapiantato in America contiene un’eccellente esposizione del divenire storico dell’islam e può quindi essere molto utile anche per conoscere le cause remote di tanti fatti odierni, ma l’obiettivo del libro è diverso e ben più ambizioso. Il sottotitolo originale inglese «origine, evoluzione e futuro dell’islam» lo descrive in modo sintetico ma efficace. Introducendo la nozione di «futuro» si esce dalle scienze storiche o sociologiche, e si entra nei territori, infidi ma affascinanti, della futurologia. Il libro non si limita, infatti, a descrivere l’esistente ma propone una chiave di lettura nuova e inconsueta della storia, anche se indubbiamente ragionevole e verosimile, sforzandosi di tratteggiare scenari futuri che si accordino con questa visione e di indicare le possibili vie da seguire per una «riforma» dell’islam in senso umanistico e liberale. Non a caso, l’opera ha già suscitato intensi dibattiti sia in America che in Europa e nello stesso mondo islamico. L’esposizione, molto chiara e in genere ben documentata, è mirata a seguire per quali vie il messaggio originale dell’islam si è inverato nelle forme che oggi conosciamo, con un interrogativo di fondo: se questo sia l’aspetto immutabile e definitivo della religione predicata da Maometto o se non sia possibile prevedere evoluzioni future che la portino a convivere in modo meno conflittuale con il mondo moderno. La parte iniziale del libro di Aslan ripercorre la nascita dell’islam, dalle condizioni di vita nell’Arabia preislamica, in cui il politeismo conviveva già con diverse forme di monoteismo, cristiano o giudaico, alle vicende della vita di Maometto e dei primi suoi successori. È una descrizione che in più punti si discosta dalla visione tradizionale – affermata sulle incerte basi delle vite del Profeta e della miriade di racconti di quanto da lui detto e fatto (hadith) – e che offre una lettura molto più spirituale e meno «terrena» della figura dell’Inviato di Dio. Anche quando Maometto prese di fatto il potere sulla città di Medina, per la quale promulgò una «Costituzione», il suo obiettivo sarebbe stato non tanto quello di creare le basi di un forte potere temporale quanto quello di costituire una comunità (umma) retta secondo principi di uguaglianza e giustizia (secondo le parole di Aslan «un esperimento unico di organizzazione sociale»), in contrapposizione alle palesi ingiustizie su cui si basava la prosperità della classe dirigente della Mecca. Addirittura, agli inizi le rivelazioni mostrerebbero l’esigenza più di una «riforma sociale» che di una nuova religione. Solo dopo tre anni di predicazione si sarebbe manifestata con chiarezza la nascita di un rigoroso monoteismo riassunto nella frase «Non c’è dio all’infuori di Dio». Il senso originale dell’ «esperimento» di Maometto sarebbe stato poi progressivamente dimenticato dai Iraniano, trapiantato in America, l’autore propone una tesi secondo cui i conflitti interni al mondo musulmano ricorderebbero le guerre in corso in Europa durante la riforma protestante suoi successori, i «califfi», che rivestivano una carica istituita in modo frettoloso e improvvisato subito dopo la morte inattesa del Profeta. Non potendo ovviamente condividere con Maometto il dono della profezia e del contatto diretto con la divinità, i califfi assunsero la guida della neonata comunità solo per quanto concerne gli aspetti secolari (il che col tempo si trasformò nella gestione di un potere imperiale ad opera di una dinastia), mentre l’ultima parola per quanto ri- guarda l’interpretazione della parola rivelata venne lasciata ai «dotti» (ulema), alla cui opera, protratta nel tempo, si deve l’elaborazione e la fissazione delle norme religiose quali oggi le conosciamo. Nei primi tempi le indicazioni degli ulema erano elastiche, allo scopo di adattarsi di volta in volta al mutare delle circostanze, ma dopo alcuni secoli questa casta si richiuse su sé stessa e, decretando che «le porte dell’interpretazione erano ormai chiuse», ir- rigidirono il corpus di leggi così elaborato dichiarandolo sacro e immutabile (sharia). Ma in proposito Aslan sottolinea quanto sia «irragionevole considerare quello che è palesemente il risultato di un lavoro umano come l’infallibile, inalterabile, inflessibile e vincolante legge sacra di Dio». Esaminando sotto il profilo storico tanti aspetti dell’islam oggi ritenuti «problematici», Aslan mostra quanto essi fossero estranei al messaggio originale di questa religione, la cui essen- La parola del Profeta di fronte alle porte dell’interpretazione BOLOGNA DALLA PRIMA Folle ambizione di Giulio Camillo: una mente artificiale a immagine del cosmo Accanto ai testi verbali Camillo collocava dipinti di carattere allegorico (sappiamo che ne chiese a Francesco Salviati e a Tiziano Vecellio; ma i libri sono stati distrutti dalla cattiva fortuna: anche su questo piano l’inchiesta è aperta). Insieme, libri e quadri alludevano a un reticolo di associazioni fra immagini collegate mentalmente su una virtuale «scacchiera» che ne moltiplicava i significati: ed è proprio su questo piano che l’Idea del theatro, ai primi del Novecento, eccitò l’immaginazione di Aby Warburg in vista del grande progetto di Mnemosyne, la Memoria, una macchina mnemotecnico-iconografica fatta di sole immagini connesse dalla mente profondamente concentrata attraverso l’affinità di segni e di sensi. Ecco, è questo il segreto del Teatro di Camillo, che Viglio di Zwichem e gli altri contemporanei, stupefatti e turbati, non potevano cogliere. Il Teatro è «un puzzle», «un mosaico continuamente costruito e rifatto», sfuggente, inafferrabile. Cercarlo nella selva dei plagi è un po’ una "ricerca dell’assassino"». Molteplice e mutevole, è uno e infinito, come la Biblioteca di Babele borgesiana e come quella utopizzata dall’«Accademia Veneziana della Fama, che ebbe vita splendida ma effimera» qualche anno dopo la scomparsa di Camillo. È nello stesso tempo un oggetto di legno, un anfiteatro pieno di manoscritti e di quadri, che riprende lo schema dal De Architectura di Vitruvio pubblicata nel 1511 da Fra Giocondo da Verona, molto legato anche lui agli ambienti za era un ideale di giustizia e uguaglianza. Le norme che discriminano le donne risalirebbero in realtà alla misoginia di ‘Umar e dei tanti ulema maschi che diedero alla religione la forma che noi oggi conosciamo, mentre la concezione detta «classica» del jihad come guerra non solo difensiva sarebbe stata formulata solo ai tempi delle crociate e riproposta all’epoca della lotta anticoloniale. Solo negli ultimi capitoli Reza Aslan esplicita il suo pensiero, affermando come sia possibile e auspicabile la nascita di «uno Stato islamico votato al pluralismo, al liberalismo e ai diritti umani, ma fondato al contempo su una cornice morale di chiara matrice islamica». Per quanto divergente da quella «tradizionalista», questa posizione – in assenza di un’autorità istituzionale che decreti ciò che è ortodosso e ciò che non lo è – va considerata pienamente legittima. Solo il Profeta avrebbe potuto contestarla, ma dopo di lui nemmeno i califfi si arrogarono mai questa prerogativa. Difficile dire fin d’ora quanto della visione riformatrice di Aslan possa effettivamente realizzarsi in un prossimo futuro. Da una parte, l’avvento delle «primavere» del 2011, tutto sommato inimmaginabili all’epoca in cui il libro venne scritto, ha confermato l’intuizione, ribadita più volte nel corso dell’opera, secondo cui anche nel mondo islamico la maggior parte della popolazione aspirerebbe alla libertà e alla democrazia, che sarà tanto più autentica quanto più nascerà «dall’interno» e non da tentativi più o dell’umanesimo italiano e francese. Ma è anche un libro: anzi molti libri e appunti e abbozzi e schemi, o forse proprio «una grande biblioteca dotata di un catalogo per immagini» e che «rende visibile l’enciclopedia» sottostante; e nel contempo un vortice di carte che si attraversano e si innestano reciprocamente, che si moltiplicano, rendendo difficile restituire «un» solo stato del testo, e invece proponendo l’inquietante modello, appunto, di una «galassia di testi» in espansione, imprendibile nella sua natura proteiforme. Soprattutto è la mente stessa di Camillo, che si trasforma via via che prende figura e corpo l’idea, e si fa libro, e anfiteatro, e biblioteca e mille altre «cose» tutte insieme: oggetto virtuale metamorfico, già potenzialmente barocco e perfino novecentesco come pochi altri capolavori del Rinascimento. meno maldestri di «esportarla» preconfezionata. D’altra parte, le successive evoluzioni in senso violento e la nascita del «califfato» dell’Isis fanno capire quanto il cammino verso una «riforma liberale» dell’islam sia difficile, lungo e ostacolato non solo dall’ideologia degli ulema ma anche dagli interessi geopolitici di molte potenze regionali dalle smisurate risorse finanziarie. È possibile considerare le lotte in corso, «un conflitto interno fra musulmani, non una guerra esterna fra l’islam e l’Occidente», alla stregua delle guerre che dilaniarono l’Europa ai tempi della riforma protestante? È quanto Aslan crede sia in atto, con la casta tradizionalista degli ulema che, come a suo tempo la chiesa di Roma, cerca di difendere con ogni mezzo il proprio monopolio della interpretazione dottrinale. Se al tempo di Lutero la stampa contribuì a diffondere la lettura personale delle sacre scritture, oggi l’avvento di internet fornisce a ogni musulmano la chiave per accedere, senza la mediazione di imam e mullah, all’essenza del messaggio di Maometto, allo spirito della comunità di Medina. Il paragone è azzardato ma accattivante. Se sia una prospettiva realistica solo il tempo lo dirà. Shirin Neshat, «Women in a Line». Nella pagina accanto, un disegno di Mbunu Kivuthi Kawati, 1995 L’idea forte di Camillo, «il suo inedito e insolito gusto sperimentale», consiste nell’offrire a ciascun lettore, come ogni autentico maestro iniziatico, il modello di un esercizio spirituale, la griglia delle operazioni interiori da compiere per realizzare, in un processo iniziatico radicale, «la costruzione di un ordine totalizzante e “visibile”», «un nuovo linguaggio universale». Insomma, il Teatro è davvero «una mente artificiale» che diviene «l’immagine del cosmo», l’«ombra del divino archetipo», «un vero thesaurus della memoria iconografica». L’architettura del Teatro di Camillo è mentale e cosmica, simile a quella che Henri Corbin riconobbe nel pensiero islamico: «la struttura della Tenda discesa dal Cielo e che l’angelo Gabriele erige per Adamo è quella di una forma spirituale che contiene in sé il suo universo». Il fine è ambizioso oltre ogni limite: ricreare sé stessi, la propria mente, tutta intera la propria interiorità, e così ricreare il mondo. «DECOLONIZZARE LA MENTE» DI NGUGI WA THIONG’O NGUGI DALL’ANGOLA Spazi di tempo in un romanzo di Ondjaki, coetaneo della propria nazione liberata di GIORGIO DE MARCHIS La Luanda degli anni ottanta era la capitale di una nazione appena emersa da oltre un decennio di guerre di decolonizzazione e immediatamente sprofondata in una sanguinosa guerra civile, la cui conclusione sarebbe arrivata solo nel 2002. Condizioni di vita, quindi, inevitabilmente precarie per gli abitanti della città che l’ultimo romanzo pubblicato in Italia dell’angolano Ondjaki lascia intuire, filtrandole però attraverso lo sguardo incantato di un gruppo di bambini che tutto vedono attraverso i ninja e le arti marziali dei film di Jackie Chan. In NonnaDiciannove e il segreto del sovietico (Il Sirente, pp. 160, e 15,00), le devastazioni del conflitto si confondono, infatti, con i disastri provocati da Godzilla, mentre le battute di Trinità e di «quel ciccione di Bud Spencer barbuto» si sovrappongono alle parole d’ordine della rivoluzione socialista. Del resto, nato nel 1977, Ondjaki è praticamente coetaneo della propria nazione e questa condizione biografica fa sì che i suoi primi ricordi abbiano come sfondo gli iniziali e difficili passi di una nazione allora nascente. Non è un caso, quindi, che l’infanzia assuma un ruolo centrale nell’opera di questo scrittore e ha ragione Livia Apa – che traduce il romanzo e ne firma una prefazione, mentre la postfazione è affidata a Beppi Chiuppani – quando afferma come, nell’universo narrativo del più interessante esponente della generazione apparsa dopo l’indipendenza, si colga per metonimia un ritratto del suo giovane paese, così come per Luandino Vieira (l’inevitabile punto di riferimento per la scrittura di Ondjaki) la realtà dei musseque lo era stata della violenza coloniale. Nel romanzo si muovono medici cubani, operai sovietici impegnati nella costruzione dell’imponente mausoleo del presidente Agostinho Neto e tutti gli straordinari abitanti di PraiaDoBispo, già noti ai lettori di Ondjaki: l’irascibile SignorTuarles con il suo immancabile kalashnikov, la figlia Charlita, l’unica in famiglia ad avere gli occhiali con cui guardare la telenovela, DonnaLibânia e il suo leggendario dolce di banana, SpumaDelMare con il suo coccodrillo. E in queste pagine si conferma come un luogo possa essere conosciuto, amato e ricreato in due modi: uno letterato e conscio – in NonnaDiciannove e il segreto del sovietico Ondjaki dialoga anche con Ana Paula Tavares, Manuel Rui e Ruy Duarte de Carvalho –, l’altro, vissuto, immediato e inconscio. Le considerazioni sul senso del luogo, espresse in altre latitudini da Seamus Heaney, valgono, dunque, anche per Ondjaki e per la PraiaDoBispo della sua infanzia. Come ricorda, del resto, la poetessa Ana Paula Tavares nella lettera all’autore che chiude il volume, «Tutti noi siamo di un luogo, come di una infanzia... e per essere di un luogo e di una infanzia, bisogna scriverla, ci hanno insegnato gli antichi, da Platone a NonnaCatarina, e non ci sono versi, sembra, o prosa raffinata che possa fissare il gesto e la parola uguale a quella di quanti hanno vissuto, sono passati da lì, ne hanno ascoltato i suoni, toccato il mare. Solo così la parola può sorgere così conforme alle regole del dire e così fedele alle norme del luogo». PraiaDoBispo è, quindi, in fondo un «quartiere fatto di polvere e giochi antichi» da proteggere dalla dinamite dei sovietici; ma è anche un tempo da salvaguardare perché, come confida al nipote NonnaAgnette, meglio conosciuta come NonnaDiciannove, ogni passato è sempre, prima di tutto, un luogo. Un luogo magari lontano, ma comunque dentro ai nostri ricordi. di PIETRO DEANDREA «Gli oppressi e gli sfruttati della terra ribadiscono la loro sfida: libertà dal furto. Ma l’arma più grande scatenata dall’imperialismo con- tro questa sfida collettiva è la bomba culturale»: il keniota Ngugi wa Thiong’o (nato nel 1938) definisce con chiarezza il bersaglio di questo suo volume finalmente in edizione italiana, Decolonizzare la mente La politica della lingua nella letteratura africana (Jaca Book, traduzione di Maria Teresa Carbone, pp. 126, e14,00). La «bomba» in questione è l’assoggettamento culturale inflitto dal colonialismo e dal neocolonialismo: «una bomba che annulla la fiducia di un popolo nel proprio nome, nella propria lingua, nelle proprie capacità e in definitiva in se stesso.» Romanziere, drammaturgo e saggista, uno dei padri della letteratura africana anglofona e una delle sue voci più radicali, Ngugi è noto come instancabile spirito critico contro i regimi di un’Africa solo apparentemente liberata, da cui ha subito carcere, esilio e violenze fisiche. Il nodo centrale di questa raccolta di saggi datata 1986, è la questione che si traduce, per gli studi postcoloniali, nella domanda delle domande: come immaginare una decolonizzazione reale, dopo secoli di violenza culturale e psicologica? Il sottotitolo del volume allude alla risposta: attraverso la rivalutazione delle lingue africane in luogo di quelle europee. L’autore parte dallo storico convegno di Makerere del 1962, dove gli intellettuali africani davano per scontato lo scrivere in francese, inglese o portoghese. Per dimostrare come ciò non fosse assolutamente un fatto dovuto, Ngugi torna alla sua infanzia (narrata anche in Sogni in tempo di guerra, Jaca 2012), immersa nella cultura e nella lingua gikuyu di espressione orale ma anche scritta, grazie alla presenza di scuole dove l’apprendimento era in lingue locali. Con la lotta di liberazione dell’esercito Mau Mau e la proclamazione dello stato d’emergenza, nel 1952, l’inglese divenne la lingua obbligatoria dell’apprendimento, «unità di misura dell’intelligenza e dell’abilità», in un clima orwelliano di delazioni tra studenti e punizioni corporali per chi fosse sorpreso a parlare gikuyu. A questo proposito, Ngugi cita le parole del romanziere C.H. Kane: «Il cannone domina i corpi, la scuola incanta le anime». Si spezzava dunque l’armonia tra ambiente e lingua, radice dell’alienazione coloniale e di una «dissociazione della sensibilità» per cui apprendere «divenne così una attività cerebrale e non una esperienza vissuta a livello emotivo.» Per una intera cultura tutto questo diede luogo a un fenomeno che Ngugi descrive come decapitazione culturale, quasi una zombizzazione collettiva, «una società di teste senza corpo e di corpi senza testa». In una prospettiva molto autobiografica, l’autore offre il proprio vissuto ALIAS DOMENICA 3 MAGGIO 2015 (5) Finalmente tradotti i saggi del 1986 in cui l’autore keniota di lingua gikuyu affronta i nodi dell’emancipazione postcoloniale personale come esemplare di una possibilità di resistenza. La presa di coscienza linguistica si lega a un orientamento esplicitamente marxista, e alla profonda disillusione di fronte ai fallimenti delle élite borghesi neocoloniali: come trovare il modo di parlare a contadini e operai e spingerli verso un rinnovamento sociale, se non usando una lingua per loro non aliena? Coerentemente con gli obiettivi del volume, la risposta si sviluppa in una scrittura argomentata in maniera limpida e chiara, libera da vezzi espressionistici. Romanziere già affermato in lingua inglese e accademico a Nairobi, nel 1977 Ngugi mise in gioco la sua autorevolezza sposando l’esperienza del teatro di comunità di Ka- Nelle lingue africane suona meglio la lotta miirithu: struttura collegata alla vita sociale, oltre che spazio architettonicamente aperto per permettere a ognuno di contribuire all’organizzazione dello spettacolo con propri racconti, osservazioni linguistiche (peccato che l’autore non scenda nel dettaglio) e discussioni: un democratico «apprendimento continuo» per tutti, autore incluso. Qui il debito verso lo «spazio vuoto» di Peter Brook e il «teatro degli oppressi» di Augusto Boal è dichiarato, ma viene da pensare anche alle creazioni collettive di certe compagnie britanniche della seconda metà del Novecento. Il prodotto finale, di grande successo, fu uno spettacolo in lingua gikuyu di matrice tradizionale, dove la parola si accompagna a canti e danze. Ma venne stroncato sul nascere dal regime dittatoriale, che bandì le attività teatrali del centro e successivamente lo rase al suolo, perseguitando e incarcerando gli intellettuali coinvolti nel progetto. Isolato in galera nel corso del 1978, forte dell’esempio di quanto un’arte popolare possa essere pericolosa perché efficace, Ngugi si spostò sulla narrativa con un romanzo in gikuyu, composto su rotoli di carta igienica assai ruvida («un modo per punire i detenuti», ma «quello che andava male per il corpo andava bene per la penna»). CONTINUA A PAGINA 6 APHRA BEHN Dal Ghana al Surinam, storia del nobile schiavo africano «Oronooko», modello di virtù di MARIA PAOLA GUARDUCCI Tradizione vuole che il primo romanzo moderno di lingua anglosassone sia Robinson Crusoe di Daniel Defoe, pubblicato nel 1719; ma anche questa data, come tutte quelle convenzionali, è funzionale a una lettura univoca e ormai troppo patriarcale della letteratura, che non ne restituisce complessità, battute di arresto e slanci isolati. Era infatti il 1688 quando Aphra (Johnson) Behn, forse di umili natali, vedova di un illustre sconosciuto, arrivata alla notorietà di drammaturga, traduttrice e poeta senza l’ausilio di mariti né amanti, dava alle stampe Oronooko, un’opera in prosa che segna il punto di non ritorno nella distinzione tra le storie romanzate di tradizione secentesca e il romanzo a venire, e che esce adesso in una nuova traduzione per la casa editrice Rogas: Oronooko Nobile schiavo (con testo inglese a fronte, traduzione di Adalgisa Marrocco, pp. 353, e 16,00). Primo romanzo scritto da una donna, Oronooko nasce da un’esperienza autobiografica (Behn trascorse un anno nel Surinam) e racconta la tragedia di un africano divenuto schiavo che nulla ha dello stereotipo del subalterno. Non solo di stirpe reale e poliglotta, il «grande uomo» è infatti un autentico modello di virtù. Il racconto si sposta dall’attuale Ghana, terra natale di Oronooko, dove si sviluppa la trama amorosa con la bella Imoinda – sposata all’anziano re e nonno di Oronooko e da quello venduta come schiava per ripicca – alle Indie occidentali, nelle quali l’uomo viene condotto anch’egli come schiavo con l’inganno di un capitano inglese. Poiché il mondo tardo seicentesco era ancora, sulla scorta di Shakespeare, un palcoscenico in cui ci si perde ma anche ci si ritrova, nel Surinam Oronooko rinviene la sua amata e la storia prosegue in parallelo tra acute considerazioni sulle politiche coloniali d’oltremare e il resoconto struggente dell’amore tragico tra i due virtuosi. L’evidente differenza tra Oronooko e gli europei, avidi, corrotti, disumani, accecati dalla precoce smania capitalistica, hanno fatto di quest’opera un testo prezioso per capire anche la contemporaneità; per non dire del rapporto tra donne e scrittura, che fa di Behn una consapevole pioniera, come notò per prima Virginia Woolf. In Italia Oronooko ha avuto varie traduzioni, tra cui quella di Annamaria Lamarra, una specialista dell’autrice, nel lontano 1986 (Guida) e la più recente di Einaudi (1998), filologicamente impeccabile anche per l’inclusione dell’epistola dedicatoria, a cura di Maria Antonietta Saracino, sia traduttrice che autrice dei fondamentali apparati critici e storici. Ora, tanto va dato merito all’iniziativa di ripubblicare un testo ormai inspiegabilmente irreperibile, tanto è doveroso rimarcare le pecche di un’operazione che forse reca più danno che beneficio alla sua straordinaria autrice. Sebbene il libro si apra con la copia del frontespizio originale, il testo inglese riportato a fronte non è quello del 1688; da nessuna parte è indicata la fonte di un’opera che ebbe ben tre diverse ristampe nel solo Seicento. Non si chiede all’editore di restituire la diatriba dei filologi, ma un rigo sarebbe bastato. La traduzione non brilla, rendendo le lunghe, complesse e appassionanti frasi di Behn asciutte e brevi con l’ausilio di punti fermi assenti dall’originale: forse facilitano la lettura, ma snaturano lo stile. L’edizione non ha apparati critici, utilissimi data l’importanza e la complessità dell’opera e del suo contesto. Al lettore curioso, Rogas riserva solo una «nota storica», non firmata, tratta dal sito della Treccani, rimaneggiata senza cura poiché riporta refusi, come anche la traduzione, quali le date di nascita e morte di Behn: 1840 e 1889. (6) ALIAS DOMENICA 3 MAGGIO 2015 A FIRENZE LA MOSTRA «POTERE E PATHOS. BRONZI DEL MONDO ELLENISTICO» ELLENISMO di PAOLO MORENO FIRENZE Fino al 21 giugno è aperta in Firenze a Palazzo Strozzi la mostra Potere e pathos Bronzi del mondo ellenistico, eccezionale scelta della produzione plastica dovuta alla fase più lunga e complessa dell’avventura dei Greci dal vicino oriente al lontano occidente: l’Italia meridionale, la Sicilia fino alle sponde iberiche (Empórion, oggi Ampurias) e alla Costa Azzurra. In termini storici, il periodo ellenistico – così definito dall’aggettivo hellenistés, che indicava lo straniero acculturato alla lingua e al costume dei Greci – tra la morte di Alessandro Magno (323) e l’avvento di Ottaviano (31 a. C.). Jens M. Daehner e Kenneth Lapatin, archeologi del Getty Museum di Malibu (California), hanno pensato con grande impegno mostra e catalogo (Giunti, pp. 367, e 42). Essenziale in Firenze l’apporto di Andrea Pessina, Soprintendente per i Beni archeologici della Toscana, e di Mario Iozzo, del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, dove ha luogo in contemporanea l’esposizione Piccoli, grandi bronzi, con allestimento e catalogo coerenti alla presentazione dei Bronzi del mondo ellenistico. Direttrice scientifica della Fondazione Palazzo Strozzi è la storica dell’arte Ludovica Sebregondi, specialista del rinascimento, che ha trasmesso dall’antico il testimone alle didascalie per i visitatori attraverso le sale, confermando la perizia esercitata presso altre manifestazioni nel mobilitare risorse informatiche, quali le touchtable che illustrano la portentosa Testa di cavallo Medici Riccardi (n. 3) o l’avventura subacquea di alcuni reperti. Le si devono infine il Passaporto e la Mappa per l’archeologia in Toscana, che incontrano crescente successo non solo nel pubblico scolastico, al quale s’indirizza comunque il Dipartimento educativo dello stesso Palazzo Strozzi. Un’Italia che funziona, nel cuore di una regione fervida di responsabilità civile. Rispetto al manifesto ellenistico, la rassegna fiorentina incorpora anche momenti di maggiore antichità, dai quali può ricominciare una selezione personale di magnifici esemplari, da parte di chi abbia già percorso le nobili sale, attento alla distribuzione per categorie proposta dai curatori americani: ritratti del potere; corpi ideali, corpi estremi; realismo ed espressività; repliche e mimesi; divinità; stili del passato. A voler privilegiare il senso della progressione storica, familiare nella tradizione europea quale motivo d’ordine nei fenomeni, si può ripartire dal raro episodio dei tre bronzi uguali (n. 40, a Vienna da Efeso; n. 41, a Lussino dal mare dell’isola croata; n. 42, a Fort Knox, Texas, la sola testa, dalla collezione Nani di Venezia) ricavati a stampo dal me- Full immersion nell’arte che enfatizza i sentimenti «Eros dormiente», New York, Metropolitan Museum ; sopra, Testa di cavallo Medici Riccardi, Firenze, Museo Archeologico Nazionale Due archeologi del Getty Museum hanno convocato a Palazzo Strozzi 50 capolavori della statuaria tra IV e I sec. a.C. Importanti prestiti pubblici e privati desimo modello dell’Atleta che ripulisce lo strìgile dopo averlo usato per detergersi: l’originale risaliva a un bronzista della discendenza di Policleto, intorno al 360. Lisistrato, fratello di Lisippo, diffondeva la riproduzione con forme in gesso, prese anche dal vivo, in un anelito veristico rilevato da Plinio. I multipli offerti in Palazzo Strozzi ne sono testimonianza tecnica, mentre il cosiddetto Pugile delle Terme, del Museo Nazionale Romano, è un prototipo dove la passione del vero giunge a rappresentare i traumi del volto. È questo l’ultimo dei convitati di bronzo che giunge solo ora a Firenze, dopo essere stato ospite al Metropolitan Museum di New York. In realtà l’atleta porta i guantoni DEANDREA DA PAGINA 5 La rivalutazione delle lingue africane sotto gli imperativi della globalizzazione Come lo spettacolo teatrale, anch’esso trova ispirazione nei generi letterari dell’oratura (letteratura orale), e in maniera analoga viene trasmesso oralmente: letto nelle case e nei bar, a gruppi, e distribuito attraverso canali non ufficiali. Da qui Ngugi comincerà ad autotradursi dal gikuyu all’inglese, muovendosi tra le due lingue come faceva il compianto André Brink fra inglese a afrikaans. Un capitolo finale è poi riservato alla questione della lingua affrontata da una prospettiva più sociale, partendo dal dibattito del 1968 sul ri-orientamento dei dipartimenti di che lasciano libere le dita per le prese di lotta, rinforzati dalle stringhe, himántes, di cui scriveva Platone nelle Leggi, intorno al 350 a. C., proprio per distinguere l’attributo del pancraziaste (lotta e pugilato insieme) dai pesi di cui erano dotati i pugili. Si ripete una datazione al tardo ellenismo, mentre è documentata l’identificazione con Polidamante di Scotussa, pancraziaste celebrato nel 338 con l’immagine postuma plasmata da Lisippo, di cui si conserva anche la predella a rilievo sulla base in Olimpia, con la superficie di appoggio di un metro quadrato, atta ad accogliere il vincitore seduto. Di Lisippo contempliamo ancora la statuetta di Eracle in riposo letteratura delle università del Kenya, al tempo ancora dominati dal canone britannico. Nelle pagine seguenti Ngugi si sposta poi sul più ampio dibattito nazionale del 1974 relativo al sistema scolastico, viziato da analogo eurocentrismo. Le proposte di rinnovamento si fondavano sul ruolo di letterature orali e scritte nel loro contesto panafricano e della diaspora dei popoli neri, rigettando l’idea di «sostituire lo sciovinismo britannico coloniale dei piani di studio esistenti con uno sciovinismo nazionale». È questo che Ngugi intende nel titolo Spostare il centro del mondo che ha dato a un altro suo volume di saggi (Meltemi 2000). Anche i sostenitori di questo rinnovamento, ricorda l’autore, venivano bollati come sovversivi e perseguitati dal regime, e non a caso il volume si chiude con una rivendicazione filosofica e politica della sua proposta. Rivalutare il ruolo di culture di lingue africane è condizione necessaria, ma non sufficiente per una vera decolonizzazione, che non si può compiere se ciò «non veicola la lotta antimperialista dei nostri popoli». Brecht e Marx diventano, dunque, gli ispiratori di un richiamo a prendere posizione, di un invito (338-336), trovata nel santuario di Sulmona, dove era stata dedicata come prezioso oggetto di antiquariato da un mercante italico nella prima età imperiale (n. 16). Lascia intendere lo stupore di Stazio nelle sue Selve per un piccolo Eracle seduto a mensa (anch’esso attestato da una statuetta in mostra, n. 17): «in così breve spazio, tanto grande illusione di bellezza! Quale misura nella mano! Quanta esperienza nell’applicazione del provetto artefice, per plasmare ornamenti da tavola e intanto agitare nell’animo immani colossi». Il poeta impostava la dialettica della maturità di un’arte universale. Tra la classicità, cui appartengono i capolavori citati, e l’ellenismo all’azione: «l’appello a riscoprire e a riprendere le nostre lingue è un appello a rigenerarci», «a riscoprire il vero linguaggio del genere umano: il linguaggio della lotta». Ad alcuni tutto ciò apparirà come ruggine ideologica, ma sembra di risentire Arundhati Roy quando sprona a lottare contro il neoliberismo dicendo proprio «fighting is fun» («lottare è divertente»). Quanto è ancora attuale Decolonizzare la mente? Tantissimo, secondo la nota della curatrice (purtroppo brevissima, perché un libro così importante avrebbe meritato una prefazione più articolata); credo sia vero, e rileggere il libro con le lenti dell’attualità stimola effettivamente una serie di riflessioni. Ad esempio, la rivalutazione delle lingue africane è solida e convincente, ma richiede investimenti culturali di ampio respiro: come pensare di attuarla sotto il tallone della globalizzazione? E, sostituendo «imperialismo» con «globalizzazione», non si può certo non restare colpiti quando Ngugi scrive che «l’imperialismo è totalizzante: ha conseguenze politiche, militari, culturali, e psicologiche per tutta la popolazione del mondo. Potrebbe perfino condurre all’olocausto.» nella piena espressione del páthos («passione», da cui il titolo dell’evento) si è individuata da tempo la generazione della maniera, che inizia nel 323, quando non solo Alessandro, bensì alcuni maestri, Prassitele, Silanione ed Eufranore, sono scomparsi, mentre si affermano i loro figli e discepoli, in parallelo con gli eredi diretti del re, i diàdochi nella definizione storica, signori della guerra che lottano per dividersi le conquiste. Evidente la coincidenza con quanto accadde in Europa tra gli artefici del primo Cinquecento (convenzionalmente, avanti il sacco di Roma del 1527) e il barocco, che supera la «grande» o «perfetta maniera» con l’attività di Caravaggio (1590-1610). Sappiamo MONDO ANTICO Fiori e piante aromatiche dal mito alla terapia: un’indagine di Squillace del vecchio Lisippo, nato intorno al 390, che nel 314 diventava in qualche modo manierista di se stesso, riassumendo le proprie principali invenzioni per celebrare le Dodici Imprese di Eracle, trovando poi la forza di trasferire l’officina a Taranto per innalzare i rivoluzionari colossi di Zeus e di Eracle. Annoveriamo alla maniera antica la citata testa di cavallo, proveniente da Roma, che faceva parte della collezione di Lorenzo il Magnifico (n. 3). Notevole la somiglianza con quella che a Napoli risultava donata nel 1471 dallo stesso Lorenzo, ora in quel Museo Archeologico Nazionale. Entrambe segnalano un complesso equestre, sulla traccia di Lisippo, di cui abbiamo per confronto in mostra (n. 2) la replica ridotta dell’Alessandro in groppa a Bucefalo nella battaglia sul fiume Granico (334). Termine finale dell’età dei diàdochi era per lo storico Diodoro Sìculo il 301, quando cadde in battaglia Antigono, strenuo fautore dell’unità del dominio. Da quel momento la memoria di Alessandro, come potenziale sovrano della terra abitata, non è più un modello attuabile, e le diverse corti si stabilizzano come autonome cerchie di artefici. Il mondo che segue è quello degli epìgoni, pur sempre «successori», bensì distanti da Alessandro, quando vediamo delinearsi il cantiere di Pergamo, la scuola di Rodi, l’intrepida ricerca del Museo che in Alessandria spinge l’arte figurativa all’immagine della sofferenza e della deformazione. Le diverse tendenze rivivono nel dossier proposto dal Getty Museum, con i prestiti internazionali da importanti collezioni pubbliche e private: si raccomanda full immersion, anche grazie ai saggi introduttivi del catalogo! Illustriamo solo l’idillico Eros dormiente, Metropolitan Museum di New York, da un motivo che Prassitele aveva affrontato con altro disegno nel marmo. Viene da Rodi, vicino nello schema, pare incredibile, al mostruoso Ciclope, addormentato dal vino di Ulisse, che conosciamo nel gruppo di Sperlonga: produzione del’isola dorica, corrispondente all’Altare di Pergamo, meglio definito storicamente (197-168). di MARIA PELLEGRINI Nel recente libro dal titolo fiabesco Le lacrime di Mirra (il Mulino «Saggi», pp. 297, e 22,00) Giuseppe Squillace fornisce al lettore una visione d’insieme sul tema del profumo nell’antichità per intraprendere un viaggio nel mondo delle fragranze: un lungo percorso olfattivo tra sacro e profano, in un vagare – che affascina e stupisce – tra le memorie aromatiche dell’antico Egitto, dell’Arabia, dell’India e delle terre bagnate dal Mediterraneo. Con uno studio organico e ordinato Squillace ricostruisce l’antica cultura dei profumi ripercorrendo nel corso dei secoli l’impiego degli aromi, le tecniche di produzione, le metamorfosi di personaggi del mito in sostanza odorosa, i metodi di estrazione delle essenze, la provenienza delle materie prime. Molte altre notizie e curiosità sono riportate e analizzate in questo ricco e interessante saggio con citazioni di fonti epigrafiche, archeologiche e soprattutto letterarie da Omero ai lirici greci, alle speculazioni filosofiche di Platone e ALIAS DOMENICA 3 MAGGIO 2015 LUCIANO CANFORA, «AUGUSTO FIGLIO DI DIO» DA LATERZA CANFORA di CARLO FRANCO L’anno augusteo è morto, assai dolcemente. A differenza dal bimillenario del 1937-’38, celebrato dal regime fascista con grande visibilità, quello trascorso non resterà memorabile. A opportuna distanza dalla sbiadita ricorrenza appare da Laterza un importante volume di Luciano Canfora, Augusto figlio di Dio («I Robinson/Letture», pp. 567, e 24,00). Riprendendo e sistematizzando precedenti indagini, esso analizza l’emblematica carriera dell’erede di Cesare nel riflesso della tradizione storiografica. Secondo la «tipica parabola del potere scaturito da una rivoluzione», Augusto seppe creare «un nuovo ordine stabile, a prezzo della repressione di ogni tentativo di togliergli il potere», diffondendo del proprio governo «un’immagine di stabilità e serenità». Ma «le notizie sopravvissute nella tradizione bastano a farci capire che la facciata copriva un pericolo costante»: il libro insegue appunto le tracce della «memoria divisa» sulle guerre civili romane, e studia lo sforzo del princeps (non del tutto riuscito) per affermare la propria visione dei fatti. Vi era, dietro il volto impenetrabile e impassibile che tutti conosciamo dalla statua di Augusto rinvenuta a Prima Porta nel 1863, un grumo di violenze e di morte, di spregiudicatezza e di lotta politica. Violenza legata soprattutto agli anni giovanili: un carico rimasto, pesante, dalla giovanile «discesa in campo» nel 44 a.C. fino alla morte, sessant’anni dopo, quando il capoparte vittorioso su tutti i competitors era divenuto il «venerabile» (sebastos), il «padre della patria». La chiave per rivisitare senza miti la carriera di Augusto, superandone gli studiati oblii, è individuata nelle sue Memorie. Un testo certamente cruciale, ma del quale sopravvivono solo pochi frammenti: di qui l’indagine indiziaria di Canfora, volta a recuperarne la presenza nella storiografia conservata. Al centro non sono gli storici antichi più celebri, ma le Storie di Appiano di Alessandria (II secolo d.C.), superstiti tra l’altro proprio per la sezione sulle guerre civili romane (libri 13-17, a cura di Emilio Gabba, Domenico Magnino, Utet 2001): e si ragiona anche di Velleio Patercolo, o di Floro. La prima parte del libro è dedicata a una minuta analisi della struttura, della formazione e della tradizione dell’opera di Appiano: grande attenzione filologica è rivolta alle forme del libro antico, puntando a comprendere il metodo di lavoro dello storico e a ricostruire, nei limiti del possibile, le fonti (per noi perdute) che egli adoperò. Tale materia, già affrontata da altri, viene riesaminata da Canfora dialogando più volentieri con gli studiosi passati che con i contemporanei, i quali si meritano talora taglienti critiche Augusto alla guerra per la memoria Aristotele, al trattato Sugli odori di Teofrasto, ai poeti latini e alle trattazioni di Plinio il Vecchio, per citarne soltanto alcuni. Interessante scoprire che in numerose iscrizioni sepolcrali rinvenute in vari luoghi dell’impero romano siano citati i nomi di profumieri, in genere schiavi o ex schiavi, onorati dai loro padroni anche con monumenti funebri ad attestare con quanta gratitudine li ricordassero per la creazione dei loro prodotti. Piacevole come l’ascolto di antiche favole il racconto di miti che associano piante aromatiche e fiori profumati a giovani accomunati da sofferenze d’amore, da prematura e tragica scomparsa: Mirra, ossessionata dall’amore incestuoso verso il padre, è trasformata in un albero e le sue lacrime diventano gocce di resina che stillano dal tronco con profumo inebriante, Croco, consumato dalla passione per una fanciulla, è reso immortale sotto le sembianze dell’omonimo fiore, e così Narciso: innamorato della sua immagine riflessa nell’acqua si lascia morire di consunzione. Nell’affrontare un tema così vasto Squillace Mirra in un affresco di età ellenistica, Roma, Musei Vaticani (7) sottolinea in modo chiaro e confortato da numerosi riferimenti bibliografici l’importanza religiosa, sociale, economica legata al mondo dei profumi. È rivolto a riti di purificazione e di offerta agli dei il più antico utilizzo di sostanze profumate, bruciate perché spargano il proprio aroma attraverso il fumo, intermediario fra l’uomo e gli dei. Piacevoli fragranze, sempre associate a qualche divinità la cui presenza è segnalata da odorosi effluvi, sono anche arma di seduzione: nell’Iliade Era si cosparge di oli aromatici per suscitare la passione di Zeus, Saffo connette il nome di Afrodite ad altari fumanti di incenso e a rose e fiori. Dopo secoli di esclusivo appannaggio divino, i mortali si appropriano del piacere delle piante odorose e dei profumi, che utilizzano per le loro virtù magiche e terapeutiche e come emblema di lusso e raffinatezza. Nella lirica greca arcaica troviamo il riflesso di una nuova sensibilità che privilegia gli unguenti, gli oli profumati per la cura del corpo e l’uso di essenze profumate nei banchetti. Saffo nel Ritratto di Augusto da Meroe, 29-20 a.C. circa, Londra, The British Museum Così il principe fece prevalere una versione depurata e trionfale della sua ascesa: un libro indiziario, tra fonti antiche e analogie con il moderno (per esempio, la recente edizione dei Fragments of the Roman Historians, 3 voll., Oxford 2013). Sono indagati così i materiali contemporanei agli eventi che Appiano mise a frutto, ad esempio, per il suo documentatissimo racconto delle sanguinarie proscrizioni volute dai triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido nel 43 a.C.: la «pagina nera» di Augusto (Appiano, Storie di proscritti, Sellerio 1990). Gli anni turbinosi e violenti seguiti all’assassinio di Cesare generarono una grande quantità di scritti: una lunga battaglia per la memoria , combattuta anche dopo la fine degli scontri armati. La suggestiva ricostruzione di Canfora, ricca di acribia non meno che di senso politico, immerge il lettore nel conflitto che oppose i cesariani ai cesaricidi, e i cesariani tra loro: in quei mesi furono scambiate molte lettere e diffusi aggressivi pamphlet, che rivelavano gli spericolati voltafaccia compiuti dai protagonisti (compreso il vincitore finale) nella loro lotta senza quartiere. A distanza di tempo quel materiale divenne imbarazzante: come nel caso dell’epistolario di Cicerone (vittima dei triumviri), che fu pubblicato post mortem con opportune selezioni e fu usato da Augusto con spregiudicata abilità. Vi erano, sull’agonia della repubblica romana, anche resoconti storiografici, «narrazioni inconciliabili ed ovviamente faziose», divergenti nelle interpretazioni e nelle analisi delle colpe. Tra i testimoni sopravvissuti e scriventi c’era il cesariano Asinio Pollione (le cui Storie sono ricordate da Orazio in un’ode famosa: 2,11), o altri contemporanei come Seneca padre, dalle cui Storie, inedite per decenni e pure per noi perdute, derivano le numerose e poco favorevoli notizie su Augusto che il figlio Seneca (il filosofo) disseminò nella sua opera. Anche per la presenza di tali memorie non omologate, la carriera giovanile del princeps restò un argomento scottante: persino il racconto di un autore «integrato» come Tito Livio vi si confrontò con difficoltà. Di fronte a ciò, urgeva per Augusto «arginare le pulsioni storiografiche e memorialistiche di alcuni ex-protagonisti o loro ammiratori», urgeva far prevalere una versione depurata e trionfale, urgeva rimuo- frammento sulle nozze di Ettore e Andromaca narra che al loro arrivo sono accolti dalla gente tra effluvi di mirra, cassia e incenso, e i frammenti di Alceo e Anacreonte attestano la consuetudine di versare profumo sul petto dei convitati durante il simposio. Quando il lusso e la raffinatezza entrano nella vita privata, in tutto il mondo antico si sviluppa l’arte dei profumieri che pestano, macerano, conservano, distillano e trasformano erbe, cortecce, radici, fiori, frutti in creme, balsami, profumi, il cui uso eccessivo suscita la disapprovazione di intellettuali e filosofi: Socrate, Platone, Senofane, Catone il Censore, Giovenale lo considerano «contrario alla virtù»; Cicerone rievocando la semplicità del passato declama: «Si apprezzi l’odore di terra più del profumo di croco», e Plinio il Vecchio non esita ad additare i profumi come il lusso più vano: «Le perle e le gemme per lo meno passano agli eredi, le vesti durano nel tempo, i profumi si dissolvono istantaneamente e muoiono appena nati». vere le ambiguità e tacere le violenze, presentandole come legali o camuffandole sotto la «necessità» della politica. E per far questo bisognava che le voci dissonanti fossero emarginate o tacitate. Augusto, da vero maestro della comunicazione, controllò la storiografia attraverso intellettuali a lui fedeli, ma anche in proprio. Le sue Memorie erano un’opera che «rivelava dettagli, svelava, a modo suo, arcana, metteva sotto luce positiva o negativa dei viventi, dei presunti o potenziali avversari, chiariva episodi». Un progetto delicatissimo: anche a distanza di anni, e nonostante la vigilanza del vincitore, le passioni restavano vive. Lo mostra il caso di un ignoto ex-proscritto, che nell’elogio funebre della moglie ricordava con rancore le sopraffazioni patite da Lepido, e il salvifico intervento di Ottaviano (Lidia Storoni Mazzolani, Una moglie, Palermo 1982). Giovava allora affermare una memoria «teleologica» del grande conflitto civile, che facesse convergere l’intero travaglio di un impero nella provvidenziale affermazione del pacificatore, del restauratore della res publica (!), del figlio di dio. Tale, in quanto figlio del divinizzato Cesare, s’intende: figlio devoto, la cui intera azione politica appariva come la legittima «vendetta» del padre e come l’assunzione di una eredità politica (per la verità, con esiti diversi rispetto al modello: Augusto non voleva farsi uccidere, e fu più accorto). Ma «figlio di dio» anche in quanto oggetto di culto, e diffusore di una «buona novella»: proprio un euanghelion, indirizzato ai popoli dell’impero, come narra un’iscrizione dell’Asia, valorizzata da Santo Mazzarino in una pagina memorabile. Al figlio di dio rinvia il titolo del libro, accattivante e in qualche misura spiazzante, se il protagonista compare in primo piano solo oltre la metà del volume. E certo, la ricchezza dei temi e dei materiali discussi costituisce per il lettore un notevole impegno: la ricostruzione di opere perdute, della loro tendenza, dei loro materiali, è esercizio non facile. Esso chiede di orientarsi tra sottili analisi di frammenti, che recuperano molto dal poco che è superstite, di ponderare ipotesi e sottili inferenze, che sono argomentate per altro con chiarezza. Del resto la storia richiede anche immaginazione, e la temperie di quegli anni inquieti è resa con immediata evidenza, grazie anche alle proiezioni per analogia, caratteristiche di Canfora, e alle molte osservazioni di «scienza politica» che sollecitano consonanze e riflessioni. Così quando per spiegare l’acquiescenza degli intellettuali antichi verso i poteri tirannici si evocano i «pentimenti» espressi sotto il fascismo per alleviare condanne e confini, o quando si discute la tipologia del dissenso, derivato ora da «insipienza», ora da autentica urgenza, talora dalla fiducia «che il potere ... comporti o tolleri margini (il che, del resto, è quasi sempre vero, pur se in certi limiti o con varianti da regime a regime)». Molte notazioni appaiono istruttive ben oltre l’oggetto d’indagine: per chiarire il peso della vulgata imposta da Augusto sui controversi avvenimenti della sua gioventù, si nota che «la codificazione di una falsità man mano imposta come verità (la cosiddetta ‘storia sacra’) … per cerchi concentrici produce amplificazioni sempre più deformanti». D’altra parte, si osserva, è inevitabile che si generi un sistema di menzogne, giacché «la politica è l’arte della parola non veridica: strumento che si considera legittimato dalla rilevanza, quando davvero è tale, dell’obiettivo in tal modo perseguito». Il che riguarda non solo gli antichi che si adeguarono alla propaganda orchestrata da Augusto, ma anche i moderni: i totalitarismi novecenteschi sono ancora un reagente produttivo per ripensare la rivoluzione romana. (8) ALIAS DOMENICA 3 MAGGIO 2015 UNA MOSTRA A MILANO E «WA», UN SAGGIO PHAIDON-IPPOCAMPO GIAPPONE di LEA VERGINE MILANO Qualcosa che ti toglie il fiato. Ecco cos’è una mostra eccezionale; ecco cos’è la personale di Hidetoshi Nagasawa alla Galleria Renata Fabbri di Milano, aperta fino a tutto maggio. Sommessa, lieve e pur fastosa, prima ancora che scultura, esperienza. Col fascino inafferrabile della incompletezza secondo la tradizione orientale del fare arte. Quindi solenne e leggiadra, giovane e antica, cauta e stupefacente, questa scultura è veramente quella dello spazio discontinuo. Marmo di Carrara, legno, rame, carta, onice non sono tanto materiali collocati nello spazio ma forme di coagulazione dello spazio stesso. Le opere non sono mai una forma chiusa; sono, invece, un frammento di mondo in cui ristanno sospese, e tutti gli elementi che concorrono all’articolazione e all’aggregazione dello spazio sono fenomeni generati da questo decantarsi di sottintesi narrativi. Le opere dell’artista giapponese, che arrivò a Milano nel 1966, riportano al non dove, caricandolo di tutta la sua estensione utopica e toccando il massimo della maestosità con mezzi minimi. Mentre rovescia il rapporto tra pieni e vuoti ci consegna all’illusione che uno spazio vuoto sorregga un volume pieno, illusione che concorre a far riflettere sulla statura di fuoriclasse di Nagasawa. Nel mondo magico dello scultore UNO «SPAZIALISTA» ALLA GALLERIA FABBRI Hidetoshi Nagasawa, visioni che colmano l’aria di piccole estasi si è presi dal piacere della contemplazione affidata al segno, al colore della pietra o del legno; una visione capace di colmare l’aria di piccole estasi. Le linee che si propagano nel vuoto sanno di sculture non terrene, in alcuni esemplari di sinopie. Niente separa e, allo stesso tempo, nulla unisce le forme posate sul ter- reno o sulle pareti. Una delle grandi risorse di Nagasawa sta nella calma, nella misura, nell’assenza di enfasi che comunica l’accadere di qualcosa di non presente, una virtualità sprigionata dai riccioli di rame, dai pali di legno, dai sette grandi anelli, tutte forme attuali e, nel contempo, lontane, intimamente e intensamente ambigue. Benevolo ma distaccato, l’autore racconta pacatamente con voce sonora e, più spesso, bisbigliante in modo erratico, lesto a dirottare un discorso consequenziale. Spesso è come se narrasse di viaggi, ovvero di luoghi simbolici in cui si snoda la vicenda umana, sapendo che le visioni non sono coerenti, che presentano una discontinuità il cui effetto è quello di una folgore. Non c’è traccia di imbarazzo; niente archivi di affetti, di angosce, di paura, in quelle che sono epifanie sottili e polivalenti, schegge del mondo raccolte e disposte aldilà del tempo e del luogo. C’è un’opera, la scatola di onice calcarea, di cui lo stesso Nagasawa dice: «Una piccola ‘scatola’ di onice, per terra, in mezzo. Un parallelepipedo pieno, che sembra niente. Lo si vede dall’alto, solo dall’alto (è un punto di vista...). Sembra pieno e invece è vuoto. Ingombro percepibile eppure cavo, tutto vuoto dentro. Con un piccolo pezzo di onice poggiato sopra, per mantenere un equilibrio indicibile. Se lo togli tutto casca, perché in mezzo, sotto, in un certo punto, è stato “nascosto” un cono, un punto che regge la forma principale, che le permette di ruotare su se stessa, scivolando lievemente, se sollecitata da un soffio qualunque». Un universo linguistico e fantastico compatto, di rara esattezza e pertinenza, una sintassi di materiali colori e forme. Una perfetta ma- Giunto a Milano nel ’66, lo scultore torna a esprimersi in onice carta rame marmo legno gata evocazione, di ascendenza orientale forse, ma così sommessamente travagliata… Siamo di fronte a un enigma che raccoglie, come un’ombra di sorriso, le sembianze di tante sculture millenarie. La scatola, alle prime indecifrabile, che cos’è? Un luogo sacro, una testimonianza numinosa, una rappresentazione del «nulla», il non esserci di una entità che si rivela con l’assenza, un qualcosa che non dice ma accenna? In alto, Nagasawa, scatola in onice; al centro, esempi di design tratti dal volume Phaidon di MAURIZIO GIUFRÈ Charlotte Perriand, famoso architetto responsabile degli interni dello studio Le Corbusier, nella sua autobiografia narra che Lao-tzu, riflettendo su un oggetto d’uso comune come una brocca, era andato ben oltre l’idea della forma che segue la funzione – come asseriva il Bauhaus. «L’utilità di una brocca d’acqua risiede nella cavità – diceva il maestro del taoismo – nella quale possiamo riporre l’acqua, non nella forma, né nel materiale del quale è fatta». È questa, forse, la più efficace definizione per comprendere l’essenza del design giapponese. Non è quindi un caso che nell’introduzione di Kenya Hara al pregevole volume di Rossella Menegazzo e Stefana Piotti dal titolo WA (Phaidon-Ippocampo, pp. 288, e 39,90), si parta dal concetto estetico di vuoto per comprendere l’origine, la qualità e la differenza di oggetti e arredi del Giappone attraverso il loro excursus storico. All’apparenza vuoto può essere sinonimo di semplice, ma è un inganno perché per i giapponesi la semplicità della forma, che affonda le sue radici nella religiosità del buddhismo-zen, ha un significato diverso da quello occidentale. Per noi la semplicità di un oggetto è una scoperta relativamente recente, riferita ai processi di serializzazione del prodotto intervenuti con la rivoluzione industriale. Hara spiega che in Giappone una tappa significativa verso il gusto per il semplice è avvenuta alla metà del Cinquecento con la guerra civile di Önin. Il conflitto durato dieci anni causò una tale distruzione del patrimonio culturale che il dittatore militare (shogun) Ashikaga Yoshimasa decise di abdicare per ritirarsi a una vita sobria e austera. È dallo studiolo di Yoshimasa che matura un nuovo linguaggio estetico. Lo spazio tradizionale giapponese si conforma così per superfici fatte di stuoie (tatami) e pareti scorrevoli di carta, all’interno composizioni di fiori (ikebana), all’esterno giardini secchi con sassi e rocce (karesansui). Il santuario e la stanza del tè rappresentano da allora il vuoto. Distinto il loro perimetro e coperti da un tetto, questi spazi sono luoghi aperti dove è consentito a noi e alle divinità di entrare e riempirli. Vi regna il necessario per una cerimonia e insieme Progettare con il vuoto qualcosa d’incompiuto, perché nell’imperfezione e nell’asimmetrico interviene sempre l’immaginazione. Infatti «l’autentica bellezza – scrive Kakuzo Okakura – può essere còlta solo da chi ha con la propria mente completato l’incompleto». Per intendere il mondo degli oggetti giapponesi bisogna comprendere non solo il significato del vuoto ma anche quello che appartiene ai materiali che lo compongono. Bene hanno fatto, quindi, le autrici del saggio a seguire questo criterio per distinguere i vari capitoli. Legno, bambù, lacca, metallo, ceramica, pietra, vetro, fibre, tessuti sono i materiali della tradizione, ma l’industria nipponica dell’arredamento impiega oggi anche plastiche rinforzate, poliestere, plexiglass, resine, e brevetta ogni genere di materiali compositi. In particolare il legno riveste un ruolo speciale. Come intuì Italo Calvino, «l’universo del legno» in Giappone è avvolto dal sentimento religioso: sin dalle epoche remote, a rendere più agevoli le ricostruzioni di case e templi non sono solo leggerezza, flessibilità e facilità di lavorazione con le quali il legno viene servito ai giapponesi; a esso si legano cerimonie di purificazione, come nel santuario di Ise, ricostruito da milleduecento anni ogni venti anni, o in quello di Izumo, con l’enorme corda (shimenawa) di paglia che dell’alto delimita lo spazio sacro. In ognuna di queste architetture il processo di rifacimento – spirituale e necessario – perpetua da secoli la mutazione. Nel nuovo, infatti, pur se diverso di poco dal precedente manufatto, si compie lentamente il cambiamento «nello stesso modo in cui si evolvono gli esseri umani» (Hara). La mutazione investe anche gli arredi. A metà Ottocento l’occidentalizzazione cambia la vivibilità dell’ambiente domestico giapponese: non più oggetti che presuppongono un uso stando abbassati o in ginocchio come tatami, cuscini (zabuton), materassi (futon) o scatole a scomparsa. L’apertura all’Occidente ha comportato la necessità di «padroneggiare il progresso tecnico venuto da fuori – come scrisse Karl Löwith – e custodire viva al tempo stesso la tradizione inserendola nel progresso». È quel che hanno provato a fare designer come Riki Watanabe o Isamu Kenmochi negli anni cinquanta con le loro sedute basse in legno o in bambù, oppure Toshiyuki Kita con il suo bollitore Cooki (2008) dalla sagoma pura e classica; o ancora Isamu Noguchi che nella lampada Akari (1951) rivisita la lanterna di carta del periodo Muromachi (XVI secolo). Un buon numero di oggetti però resiste a qualsiasi trasformazione dettata dall’ingerenza di industria e consumi. È il caso del coltello da sashimi (yanagiba) fabbricato sempre con la sua impugnatura a bastone, che dal 1792 respinge qualsiasi principio ergonomico per affermare le molteplici impugnature che l’attendono, ossia il vuoto, come avviene anche per le cesoie (okubo), il set da tavola in fogli di stagno Suzugami o per cucchiai o frullini in bambù, corredo della cerimonia del tè. Una buona parte degli oggetti elencati nel saggio traccia «quel sottile filo che identifica l’essenza dello spirito giapponese – come scrive Menegazzo nella sua introduzione – oltre il tempo e oltre l’individualità del singolo designer». In modo altrettanto completo però sono riportati tutti i complementi di arredo e gli articoli d’uso domestico nati da una libera rivisitazione delle forme atemporali della tradizione. Emblematico in questo senso è ciò che ha ispirato il frullino da tè: da una sedia in bambù (Cerimonia de tè, Hiroki Takada) a una lampada (Chasen, Norifumi Numata). Nell’affascinante percorso visivo che il libro offre attraverso Arredo e design, il mondo domestico giapponese fra tradizione e progresso tecnico l’alta qualità delle immagini e della composizione grafica (Géraldine Nassieu-Maupas) – oggi così rara – si può cogliere, infine, un altro aspetto del design giapponese, la simulazione. Un particolare che si intuisce nei ripiani in acciaio laccato Blow di Yuki Yamamoto somiglianti a fogli di carta che sfidano appesi la gravità, o nei tavoli Stone Garden di Nendo simili a sassi di fiumi levigati, fino agli abiti di Issey Miyake che con le loro raffinate pieghe fingono di essere grandi origami. L’accurata rassegna delle due studiose offrirebbe ulteriori spunti di riflessione, ma è evidente che oggi il design giapponese, tra sofisticate tecniche artigianali e originali sperimentazioni industriali, detiene un indiscutibile primato: della sua vitalità avremo occasione di tornare a parlare.
© Copyright 2024