ALL’INTERNO “Sbilanciamo l’Europa” CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 2,00 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/23/2013 ANNO XLV . N. 68 . VENERDÌ 20 MARZO 2015 EURO 1,50 Un giorno da pecora Alla fine ha ceduto. Inchiodato e smentito dalle intercettazioni in cui raccomanda suo figlio a Ercole Incalza, il dominus del dicastero delle infrastrutture arrestato per corruzione, il ministro Maurizio Lupi annuncia le dimissioni. La decisione dopo un lungo incontro con Renzi e Alfano. Il Pd e le opposizioni ringraziano PAGINA 6 CHI LASCIA E CHI RESTA L CRISI GRECA | PAGINE 4,5 GIORGIO |PAGINA 8 IRAQ Obama: «L’Isis è il risultato della nostra invasione» ROBERTO MONALDO LAPRESSE ATTENTATO A TUNISI I l giorno dopo il sanguinoso attacco al museo del Bardo di Tunisi pieno di visitatori, l’unica certezza è il numero dei morti. Secondo l’ultimo bollettino diramato dalle autorità tunisine, viene confermato che le vittime sono 20, diciannove delle quali turisti europei, tra cui quattro italiani, già identificati. Quarantasette le persone rimaste ferite. Per quanto riguarda le indagini, il primo ministro tunisino Habib Essid ha riferito che la polizia ha fermato e arrestato «nove complici». Intanto, a più di 24 ore dall’attentato, è arrivata la rivendicazione dello Stato islamico: «È solo la prima goccia» GINA MUSSO |PAGINA 2 Mentre la Bce bacchetta sul fiscal compact Italia, Francia, Belgio e Finlandia, Atene resta al centro di timori Ue Una causa di diffamazione che ci ha visto involontari protagonisti abbatte un muro della giurisprudenza e apre una breccia importante per i diritti civili. Fino a mercoledì scorso accostare una persona qualunque all’omosessualità è stato sempre giudicato di per sé - considerato il presunto sentire collettivo di questo paese - causa di discredito e pubblico ludibrio. E perciò senza eccezioni sempre diffamatorio. Una sentenza storica della giudice Valeria Ciampelli ha invece assolto «il manifesto» per il titolo «Matrimonio all’italiana» pubblicato nella copertina del 16 marzo 2012 che raccontava un’altra sentenza storica, ma della Cassazione, sul caso di due cittadini ita- Le stime del Def parlano chiaro: il Jobs Act inciderà al massimo per lo 0,1% del Pil Per ripartire occorrerebbe un Workers Act TUNISIA-ANALISI |PAGINA 3 Un Paese diverso in piazza contro i jihadisti, che nella crisi profonda pescano tra i giovani diseredati SBILANCIAMO L’EUROPA INSERTO all’interno ANNAMARIA RIVERA SENTENZA STORICA DEL TRIBUNALE DI ROMA Matteo Bartocci liani sposati in Olanda ai quali veniva riconosciuto sì «il diritto a una vita familiare» ma vista l’assenza di una legge, in Italia quell’unione – legittima – era purtroppo priva di effetti giuridici. Una persona eterosessuale ritratta sul giornale si è sentita diffamata dall’accostamento e ha querelato la direttrice. Il tribunale di Roma, rompendo un tabù decennale, ha però dato ragione all’avvocato Marcello Marchesi, che ha difeso «il manifesto» (e i diritti di tutti), avvalendosi anche della testimonianza di Imma Battaglia, organizzatrice dell’iniziativa illustrata in quella coper- tina. Essere omosessuali non è un reato né un illecito. È una espressione libera e neutra della propria sessualità ed esservi accostati non può (più) essere considerato di per sé come un’offesa. Tantomeno in un giornale che si è sempre battuto contro le discriminazioni e per i diritti civili. La nostra assoluzione è stata piena: «Il fatto non sussiste». La sessualità è un diritto che la comunità intera ha il dovere di rispettare. Speriamo che ora cada anche l’ultimo tabù, il più grande, quello di un parlamento che da decenni resta muto e sordo a ciò che la società e la magistratura hanno ormai dimostrato di saper interpretare e accettare. «L’Isis è il diretto risultato di al Qaeda in Iraq che è cresciuta con l’invasione Usa, esempio di una conseguenza inattesa. Per questo dovremmo prendere la mira prima di sparare». A dirlo non è il governo di Damasco o quello di Teheran. A dirlo è il presidente Obama, in un’intervista su Vice CRUCIATI |PAGINA 3 L’Isis rivendica la strage «Arrestati nove complici» Sorpresa, l'omosessualità non offende Vertice caos Ue, la Grecia per Schulz ora è «pericolosa» Risposta Usa a Netanyahu: «Sì all’ipotesi dei due Stati» Dopo la vittoria di Netanyahu, il New York Times cita una fonte della Casa Bianca, su una presunta intenzione dell’Amministrazione Obama di dare il suo appoggio a una risoluzione Onu per i «Due Stati», basata sui confini del 1967, precedenti l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est Andrea Fabozzi e dimissioni sono sopravvalutate. Non bisognerebbe considerarle la conclusione di uno scandalo, finale in gloria per chi (in questo caso Renzi) voleva i disonorati (in questo caso Lupi) fuori dal suo governo, ma non poteva dirlo ad alta voce. E non poteva perché rischiava di perdere l’appoggio degli alleati. Renzi lascia Lupi e si tiene stretto Alfano. Riceve applausi, quando dovrebbe chiedere scusa e spiegare perché ha scelto e confermato quel ministro. Lui, così attento alla narrazione positiva, ci raccomandava il «merito». Mentre attorno raccomandavano i figli. Lupi non è indagato. Non fosse per il solito malloppo di intercettazioni sarebbe rimasto al suo posto, perfetta eccellenza italiana pronta per la prima fila dell’Expo. Non è sul rottamatore, è chiaro, che si poteva fare affidamento per ristabilire un minimo di correttezza e trasparenza. Del resto Grandi opere e leggi obiettivo non se ne vanno con Lupi. E a giudicare dai profondissimi silenzi prima delle dimissioni, e dagli eccessivi complimenti dopo, le abitudini dell’ex ministro non sono sconosciute alla compagnia che resta a reggere il governo. Non se n’è andata la ministra Boschi, azionista di una banca in cui suo padre era vicepresidente e suo fratello dirigente, commissariata da Bankitalia che ha ragione di temere per i depositi dei correntisti. Non ha fatto una piega Renzi, quando si è saputo che il suo grande finanziatore Serra ha speculato sulle banche popolari, valorizzate da un decreto del governo. E ha tirato dritto quando è venuto fuori che alla sua cena elettorale da mille euro a testa c’era Buzzi, che i magistrati considerano il regista di Mafia Capitale. Anzi, si è rifiutato di fornire l’elenco di tutti i commensali per ragioni di privacy. E quanto a moralità, da presidente del Consiglio si trova adesso a dover sostenere la candidatura del condannato De Luca in Campania. Tutto questo resta, oggi che Lupi se ne va. E se ne va da ministro, non da indispensabile alleato. Consegnate le dimissioni, discuterà con Alfano e Renzi quale altra poltrona assegnare a Ncd. Poi, informa un comunicato, parlerà ai giovani del suo partito di «idee e valori per il futuro dell’Italia». C’è attesa per i valori. ISRAELE/PALESTINA BIANI pagina 2 il manifesto PRIMAVERA DI SANGUE Il giorno dopo • Gina Musso L VENERDÌ 20 MARZO 2015 e notizie fornite con esasperante parsimonia dalle autorità tunisine, gli interrogativi su chi, cosa, come che restano tali, una rivendicazione che desta ancora qualche dubbio. Il giorno dopo la sanguinosa azione al museo nazionale del Bardo, si può ben dire che chiarezza e verità sono ancora da annoverare tra i dispersi. Secondo l’ultimo bilancio diramato dal ministero della Sanità tunisino nel pomeriggio di ieri, nell’attacco di mercoledì a Tunisi sono morti 20 turisti stranieri, una guardia di sicurezza tunisina e i due assalitori. 47 i feriti. Gli italiani che hanno perso la vita nell’assalto sono effettivamente quattro. Personale dell'ambasciata a Tunisi e dell'Unità di crisi della Farnesina, dopo aver avuto accesso all'obitorio dell'ospedale Charles Nicolle, hanno confermato purtroppo che tra le vittime ci sono i due italiani che finora risultavano irreperibili. Le altre salme identificate finora sono quelle un australiano, una britannica, una colombiana, un francese, due giapponesi e due spagnoli. Altri due turisti spagnoli, riferisce Radio Mosaique, che al momento dell’attacco si erano rifugiati nei sotterranei del museo, ne sono riemersi incolumi oltre 24 ore dopo. Per quanto riguarda le indagini, il primo ministro tunisino Habib Essid riferisce che la polizia ha fermato nove sospetti. Quattro persone sono state arrestate ma la loro identità resta un mistero, a differenza di quella dei due attentatori uccisi: si tratterebbe di Yassine Abidi, residente nel quartiere popolare Ibn Khaldoun a Tunisi e Saber Khachnaoui, originario di Kasserine, la città dell'ovest in cui l'islamismo radicale sembra fare più proseliti in Tunisia... La rivendicazione dello Stato islamico diffusa via Twitter attribuisce loro i nomi di battaglia «Zakaria al Tunis» e «Abou Anas al Tunis». Nel messaggio audio si riconoscerebbe la voce dello speaker che abitualmente legge i notiziari dell'emittente radiofonica dell'Isis, al Bayan, i cui studi si trovano a Mosul. L’Isis si rallegra per «l'uccisione e il ferimento di decine di crociati e apostati» e canta le «eroiche» gesta dei due, sopraffatti solo «dopo che avevano finito le munizioni». Non mancano le altrettanto rituali minacce per il futuro: «Gli apostati che sono in Tunisia sappiano che questa è solo la prima goccia di pioggia e che non godranno di sicurezza né di pace». A proposito di radio, quella nazionale tunisina pare che ieri sia stata oggetto di minacce non meglio precisate. Nel quartiere Il bilancio finale è di 23 morti, 20 sono turisti stranieri. Identificati i 4 italiani. La polizia annuncia nove arresti «È solo la prima gocc Da Mosul l’Isis rivendica l’assalto di Tunisi e minaccia nuove stragi. Il turismo cola a picco Lafayette, dove si trovano i suoi studi, sono state comunque intensificate le misure di sicurezza. Secondo alcune fonti tra gli arrestati figurano la sorella e il padre di Khachnaoui, uno dei due terroristi uccisi, presi nel corso di un blitz della polizia a Sbeitla, a est di Kasserine, e sospettati di essere direttamente coinvolti nell'azione. Non conteggiato nel bilancio ufficiale, è stato comunque celebrato dal web un cane poliziotto di nome Akil, in forza alla brigata al Anyab, che ha perso la vita durante l'assalto delle forze di sicurezza. Media tunisini riferiscono che quando è stato portato via in barella gli agenti hanno organizzato un picchetto d'onore estemporaneo. Intanto il Consiglio dei ministri che si è svolto ieri nella capitale ha stabilito che 400 nuovi agenti saranno assunti per garantire la sicurezza nei musei e nelle sedi istituzionali tunisine. Saranno molti di più i tunisini che perderanno il lavoro per gli effetti che la strage avrà sui flussi turistici diretti verso il paese maghrebino. In poche ore sono stati vanificati gli sforzi profusi negli ultimi mesi per far ripartire le buone relazioni con i tour operator europei. Costa Crociere, per fare un esempio, ha già annunciato «la sospensione di tutti i futuri scali previsti in Tunisia». Il ministro della Cultura tunisina Latifa Lakhdhar fa sapere comunque che il museo del Bardo riaprirà al più tardi martedì prossimo. L’INGRESSO DEL MUSEO DEL BARDO DI TUNISI, IERI /FOTO LAPRESS INTERVISTA · Mourad Ben Cheikh, premiato per il suo film sullo scoppio della primavera araba Un attacco al «laboratorio» Tunisia Valentina Porcheddu N el 2011, con il suo film La Khaoufa Baada Al’Yaoum (Mai più paura) – un documentario sullo scoppio della primavera araba girato a caldo nelle strade di Tunisi e nelle case di personaggi chiave della rivoluzione – Mourad Ben Cheikh ha partecipato a circa centoventi festival. Da Cannes a Dubai, da Buenos Aires a il manifesto DIR. RESPONSABILE Norma Rangeri CONDIRETTORE Tommaso Di Francesco DESK Matteo Bartocci, Marco Boccitto, Micaela Bongi, Massimo Giannetti, Giulia Sbarigia CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE Benedetto Vecchi (presidente), Matteo Bartocci, Norma Rangeri, Silvana Silvestri Goa, passando per Lisbona, Atene e Istanbul. Dopo un lungo soggiorno in Italia negli anni della sua formazione al Dams di Bologna e le prime esperienze lavorative in Rai, risiede oggi nel suo paese natale. L’assalto al museo del Bardo – stando alle notizie disponibili finora – non sembra aver provocato danni alle opere esposte. Tuttavia, possiamo cogliere in questo atto lo stesso impeto di violenza IBAN: IT 30 P 05018 03200 000000153228 COPIE ARRETRATE 06/39745482 arretrati@redscoop.it STAMPA litosud Srl via Carlo Pesenti 130, Roma litosud Srl via Aldo Moro 4, 20060 Pessano con Bornago (MI) CONCESSIONARIA ESCLUSIVA PUBBLICITÀ poster pubblicità srl E-MAIL poster@poster-pr.it SEDE LEGALE, DIR. GEN. via A. Bargoni 8, 00153 Roma tel. 06 68896911, fax 06 58179764 il nuovo manifesto società coop editrice REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE, 00153 Roma via A. Bargoni 8 FAX 06 68719573, TEL. 06 687191 E-MAIL REDAZIONE redazione@ilmanifesto.it E-MAIL AMMINISTRAZIONE amministrazione@ilmanifesto.it SITO WEB: www.ilmanifesto.info TARIFFE DELLE INSERZIONI pubblicità commerciale: 368 e a modulo (mm44x20) pubblicità finanziaria/legale: 450e a modulo finestra di prima pagina: formato mm 65 x 88, colore 4.550 e, b/n 3.780 e posizione di rigore più 15% pagina intera: mm 320 x 455 doppia pagina: mm 660 x 455 iscritto al n.13812 del registro stampa del tribunale di Roma autorizzazione a giornale murale registro tribunale di Roma n.13812 ilmanifesto fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 07-08-1990 n.250 DIFFUSIONE, CONTABILITÀ. 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Ancora oggi, l’ideologia islamista rinnega la ricchezza dell’identità tunisina. Attaccare un museo equivale dunque a voler cancellare quell’identità nella quale invece i tunisini si riconoscono e della quale fanno una bandiera. Il Bardo è un intreccio di significati, è il viaggio del nostro popolo nel tempo, è un luogo di conoscenza per gli stranieri che visitano la Tunisia. Colpire il turismo significa abbattere l’economia del paese ma anche ostacolare la politica, visto che il museo si trova accanto al parlamento. In questa sovrapposizione di simboli, nel mirino dei terroristi c’era soprattutto l’esperienza unica del «laboratorio della democrazia» che stiamo vivendo. Ieri è toccato a un museo. Ma dal 2011 a oggi - seppur in modo diverso - in Tunisia sono stati attaccati cinema e altri luoghi di cultura e arte. Senza dimenticare l’in- «Chi colpisce un museo è consapevole di ciò che rappresenta. Il Bardo è un intreccio di significati, è il nostro viaggio nel tempo» carcerazione di blogger, rapper e artisti di strada. È una tendenza generale che pone una cultura contro l’altra. C’è un modo di essere tunisini e c’è un’ideologia a noi estranea, la quale – subito dopo la rivoluzione – ha cercato di radicarsi nel paese. In quel periodo, le rappresaglie contro gli artisti avevano l’obiettivo di dare una scossa all’opinione pubblica, convincendola della forza dell’identità islamica. Oggi quella spinta prevaricatrice permane ma il «ring» in cui si svolge la battaglia non è lo stesso. Nel post-rivoluzione un partito come Ennahda era solidale agli attacchi contro il cinema e gli artisti, oggi li disapprova. C’è, invece, una parte del paese che «sostiene» il terrorismo? In qualche angolo, in alcuni quartieri popolari delle periferie disagiate, sì. Ma il paese nel suo insieme, in tutte le sue espressioni politiche e attraverso il tessuto associativo, condanna questi atti. Dopo gli assassinii politici di Chokri Belaïd nel febbraio del 2013 e di Mohamed Brahmi a luglio dello stesso anno, le istituzioni sono andate verso una più larga unità governativa e hanno prestato maggiore attenzione al benessere di tutti i tunisini. Anche se bisogna ammettere che la troika (governo di transizione in carica dal 2012 al 2014, ndr) ha impiegato molto tempo a dare le dimissioni, la morte di Brahmi ha innescato quel meccanismo che ha portato Ennadha fuori dal potere. Sulla scia di quello che è successo ieri, credo che la legge sul terrorismo, la quale giace in parlamento da diversi mesi, passerà rapidamente. Perché, nonostante la sicurezza avesse già mostrato le sue falle, non si è provveduto ad approvare tale legge in tempi più stretti? Il vecchio parlamento (in carica fino al dicembre 2014, ndr) ha ritardato l’approvazione con il pretesto che la legge avrebbe smantellato anche il sistema di finanziamento alle associazioni di tipo religioso e caritativo nonché agli istituti stranieri. In ogni caso, pur ritenendo necessaria la legge, credo che il modo più efficace per combattere il terrorismo non sia l’utilizzo di elicotteri o kalashnikov. Bisogna sviluppare invece mezzi e capacità finalizzati a prosciugare le fonti di finanziamento. In fondo, è più semplice seguire il flusso del denaro che dare la caccia ai terroristi tra le montagne. Rispetto al momento in cui hai girato il documentario sulla rivoluzione, la paura del futuro è stata definitivamente sconfitta o si è fatta nuovamente largo negli animi dei tunisini? La differenza fondamentale è che ieri si aveva paura di qualcosa mentre oggi si ha piuttosto paura per qualcosa. Prima si temevano la dittatura, la polizia, il partito al potere. Oggi si hanno sentimenti di preoccupazione per il paese, la democrazia, le libertà. Se facciamo un confronto tra i paesi in cui c’è stata la cosiddetta primavera araba, la Tunisia è l’unico dove lo Stato continua a esistere e in cui i principi libertari che avevano guidato il popolo alla rivolta sono diventati realtà. La democrazia che stiamo costruendo non è ancora la democrazia «ideale» ma è una realtà. I risultati della rivoluzione sono davanti ai nostri occhi, li possiamo misurare. Dopo l’attentato subìto ieri e il duro colpo inferto all’economia, dobbiamo prepararci ad affrontare tempi difficili. Ma resto ottimista e sono certo che la democrazia sopravviverà. VENERDÌ 20 MARZO 2015 il manifesto PRIMAVERA DI SANGUE Guerre • USA E CALIFFATO La Casa bianca riconosce le responsabilità di Bush ma dimentica l’attacco del 2011 contro la Libia cia» PETROLIO E JIHAD, MARE «SICURO» Con l'aggravarsi della «minaccia terroristica, di drammatica evidenza per gli eventi in Tunisia, si è reso necessario un potenziamento del dispositivo aeronavale italiano in Mediterraneo». Lo ha detto il ministro della Difesa Roberta Pinotti alle commissioni Difesa e Esteri della Camera. «Le forze armate stanno dispiegando in aggiunta a quanto ordinariamente fatto ulteriori unità navali, team di protezione marittima, aeromobili ad ala fissa e rotante, velivoli a pilotaggio remoto e da ricognizione elettronica, tanto per la protezione delle linee di comunicazione, dei natanti commerciali e delle piattaforme off-shore nazionali, quanto per la sorveglianza delle formazioni jihadiste». «Il tutto ha detto Pinotti - è integrato nell'operazione alla quale è stato dato il nome di 'Mare Sicuro’». USA · Il Presidente intervistato da Vice punta il dito contro George W. Bush Obama: «L’Isis è il risultato della nostra guerra in Iraq» Chiara Cruciati «L’ Isis è il diretto risultato di al Qaeda in Iraq che è cresciuta con l’invasione Usa, esempio di una conseguenza inattesa. Per questo dovremmo prendere la mira prima di sparare». A dirlo non è il governo di Damasco o quello di Teheran. A dirlo è Obama: lo sviluppo repentino dello Stato Islamico è la conseguenza di otto anni di occupazione Usa dell’Iraq. Così Obama, accusato di non avere strategie efficaci contro il califfato, si toglie i sassolini dalla scarpa e punta il dito contro il predecessore, il George W. Bush della guerra globale al terrore e dell’esportazione di democrazia. Lo fa in un’intervista a Vice News, scoprendo le divisioni interne all’amministrazione Usa che dice, si contraddice, si smentisce da sola ormai da mesi. Ora fa autocritica: i settarismi iracheni sono il frutto della distruzione dello Stato, delle sue istituzioni, dei delicati equilibri tra sunniti, sciiti e kurdi, spazzati via dalla coalizione dei volenterosi. Proprio quei settarismi vengono additati da Obama come la principale fonte da cui l’Isis attinge: «Se l’Isis venisse sconfitto, il problema di fondo dei sunniti resterebbe. Quando un giovane cresce senza prospettive per il futuro, l’unico D opo l’attentato cruento al Museo del Bardo, a Tunisi, di rassicurante c’è che anche questa volta la parte più consapevole della popolazione tunisina sia scesa in piazza immediatamente. È questa la ricchezza della Tunisia post-rivoluzione: la reattività democratica, il senso di partecipazione civile, l’attivismo sociale e politico. Altrettanto encomiabile è che il comitato organizzatore del Forum sociale mondiale abbia confermato che esso si svolgerà a Tunisi, come stabilito, dal 24 al 28 marzo. È indubbio, però, che il sanguinoso attacco terroristico rappresenti un allarmante salto di qualità nell’escalation della violenza integralista; e che esso sia parte di un piano mirante a colpire a morte l’unico paese in cui la ‘primavera araba’ non è divenuta cupo inverno. Questo attacco non è un fulmine a ciel sereno. Il salafismo non è una novità per la Tunisia, se è vero che anche durante la dittatura benalista era rifugio per fasce di giovani frustrati dalla mancanza di lavoro, futuro, dignità. E, dopo la fuga di Ben Ali, l’effervescenza partecipativa, la presa di parola pubblica, il fervore delle iniziative politiche e culturali avevano subito visto come contraltare le provocazioni della galassia salafita-takfirista, a cominciare da Ansar al-Sharia: dagli atti di vandalismo contro luoghi e protagonisti della vita culturale all’attacco contro l’ambasciata degli Stati Uniti, il 14 settembre 2012; dagli assalti a sedi di partiti politici e dell’Ugtt alle aggressioni contro docenti, politici, intellettuali, sindacalisti, giornalisti, femministe, artisti, blogger. pagina 3 ANALISI Il drago jihadista e la crisi sociale tunisina Annamaria Rivera Su questo versante, il 2013 è la comprensione manifestata a stato anno cruciale: marcato suo tempo da alcuni, a comindalla sequela di attacchi terroriciare da Ghannouchi, verso i sastici di stampo alqaedista sul lafiti: per esempio, dopo l’attacMonte Chaambi, alla frontiera co del 2012 a un’esposizione algerina; dalla scoperta quasi d’arte nel Palazzo El Ebdellia, dequotidiana di depositi d’armi o cretata blasfema da loro stessi e campi d’addestramento jihadiperfino dal laico ministro della sta; soprattutto Cultura di allora. dagli omicidi poCerto, il terroriCerto il terrorismo litici, nella forsmo jihadista si è ma dell’esecuzio- islamista si è più che mai globane premeditata lizzato e la Libia e attuata da sica- globalizzato, ma confinante è la bari, di Chokri Be- pesca sempre più se di molti gruppi laïd (6 febbraio) che ne fanno pare di Mohamed tra i diseredati te. Ma v’è anche Brahmi (25 luun fattore interno glio), entrambi figure di grande che contribuisce a irrobustire il rilievo del Fronte popolare. drago jihadista. I problemi sociali Non è irrilevante il contributo - disoccupazione, precarietà, diche la stessa Ennahdha, il partisparità regionali - che avevano fato islamista detto moderato (ogvorito l’insurrezione popolare si gi parte della coalizione che regsono ancor più acuiti, riproducenge il governo di Habib Essid), ha do la spirale di rivolte spontanee offerto, deliberatamente o mee dura repressione, tipica della no, all’incremento delle acque storia della Tunisia indipendente. ove nuota il drago jihadista. In più il semi- o sottoproletariato Spesso i suoi leader ‘moderati’ giovanile dei quartieri urbani e hanno accarezzato il pelo della delle regioni più diseredate, che corrente interna filo-salafita. era stato l’autentico primo attore Non poche volte hanno aperto dell’insurrezione, oggi è ancor le porte o perfino accolto in più emarginato, di nuovo espropompa magna predicatori rigoripriato della dignità che aveva risti provenienti dal Marocco, vendicato e della stessa rivoluziodall’Algeria, dall’Egitto, dalla Pene di cui era stato protagonista. nisola arabica. Per non dire delNon per caso la figura di Moha- modo che ha per ottenere potere e rispetto è diventare un combattente. Non possiamo affrontare tutto ciò con l’antiterrorismo e la sicurezza, separandoli da diplomazia, sviluppo e educazione». Le dichiarazioni del presidente sono passate quasi in sordina ma hanno la forza di un terremoto: si mette in discussione l’intera strategia Usa, fatta di interventismo bellico e interessi economici nazionali, priva spesso di una visione di lungo periodo, basata sui finanziamenti a pioggia di soggetti divisivi, dall’ex premier iracheno al-Maliki alla Coalizione Nazionale Siriana. «L’Isis va visto non solo come un med Bouazizi è stata ormai abbandonata in qualche cassetto della storia. È tra questi giovani che pesca la galassia salafita. La quale in non pochi casi è radicata negli ambienti diseredati più di quanto non sia la sinistra politica. Soprattutto Ansar al-Sharia in qualche misura ha ridato loro dignità, sia pur illusoriamente, rendendoli protagonisti, per esempio, di azioni di ‘vigilanza sui costumi’: minacce e attacchi contro venditori d’alcol; chiusura violenta di esercizi commerciali durante il mese di Ramadan; profanazione e distruzione di mausolei sufi, imposizione del loro comando in certe moschee. Come nelle migliaia di casi di giovani che vanno a combattere in Iraq e in Siria, sono atti di tipo compensatorio, che permettono loro di sfogare l’aggressività, sublimare la frustrazione sociale, sfuggire alla disperazione. Tutto questo è destinato ad aggravarsi per ragioni molteplici: gli effetti della crisi economica mondiale, il crollo del turismo, la fuga d’investitori e imprenditori stranieri, favorita dal clima di violenza. Questi fattori, a loro volta, s’inseriscono nella cornice di governi, in particolare l’attuale, che, sottomessi come sono agli ordini del Fmi e di altri poteri forti, sembrano poco inclini ad affrontare la grande questione sociale cui abbiamo accennato. Ma la Tunisia è un piccolo, grande paese capace di sorprendere. Non è assurdo sperare che un nuovo, potente movimento popolare, questa volta più organizzato, torni a riappropriarsi delle rivendicazioni della rivoluzione. Un drone americano è stato abbattuto dall’aviazione siriana, a Latakia, roccaforte di Assad movimento alieno al più vasto mondo politico del Medio Oriente – scrive Ramzi Baroud, direttore di Palestine Chronicle – ma anche come un fenomeno in parte occidentale, il ripugnante risultato delle avventure neocolonialiste nella regione, accompagnate alla demonizzazione delle comunità musulmane nelle società occidentali». «Con ‘fenomeno occidentale’ non intendo dire che l’Isis sia una creazione delle intelligence straniere – continua – Ovviamente, si è giustificati a sollevare domante su fondi, armamenti, mercato nero, le facili vie con cui migliaia di combattenti sono arrivati in Siria e Iraq. Ma tracciando il movimento dall’ottobre 2006 quando l’Isis nacque, si individuano le sue radici: lo smantellamento dello Stato iracheno e del suo esercito da parte dell’occupazione militare Usa». E alla fine chi di settarismi ferisce, di settarismi perisce. A stretto giro dalle dichiarazioni di Obama, è giunta la reazione di uno dei falchi dell’entourage di Bush, l’ex segretario di Stato Dick Cheney, grande burattinaio di quell’invasione: «Obama è il peggior presidente della mia vita. Ne pagheremo il prezzo». Fuori dalle ripicche politiche, resta il grande vuoto della strategia Usa in Medio Oriente: dopo aver cambiato cavallo più di una volta, aver continuato a finanziare deboli opposizioni in Siria ed essere stati costretti ad aprire ad Assad, gli Usa sono nudi. E debolissimi. Tanto deboli da subire quasi in silenzio l’abbattimento di un proprio drone da parte dell’aviazione siriana. È successo martedì a Latakia, roccaforte della famiglia Assad. I servizi Usa stanno ancora indagando, seppur il governo siriano ammetta di aver colpito il Predator. Perché? Volava fuori dai confini ufficiosi di intervento della coalizione. Obama con Assad non intende parlare ma una cooperazione indiretta esiste. Per questo Damasco non ha mosso un dito da quando cominciarono i raid Usa. Ora traccia le sue «linee rosse»: Obama voli pure sui cieli siriani, ma non nelle zone sotto il controllo governativo. Il ritorno di fiamma libico-tunisino Manlio Dinucci L’ attacco terroristico in Tunisia, che ha mietuto anche vittime italiane, è strettamente collegato alla caotica situazione della Libia, sottolineano ambienti governativi e media. Mercoledì sera perfino Obama ha riconosciuto, giustamente, che la responsabilità della nascita dell’Is è degli Usa per la guerra all’Iraq - presidente era George W. Bush. Dimenticando però che anche il caos in Libia, e sotto la sua presidenza, è stato provocato dalla guerra della Nato che, esattamente quattro anni fa, ha demolito lo Stato libico. Il 19 marzo 2011 iniziava infatti il bombardamento aeronavale della Libia: in 7 mesi, l’aviazione Usa/Nato effettuava 10mila missioni di attacco, con oltre 40mila bombe e missili; venivano finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi; venivano infiltrate in Libia anche forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani. A questa guerra, sotto comando Usa tramite la Nato, partecipava l’Italia con basi e forze militari. Molteplici fattori rendevano la Libia importante per gli interessi statunitensi ed europei. Le riserve petrolifere – le maggiori dell’Africa, preziose per l’alta qualità e il basso costo di estrazione – e quelle di gas naturale, che rimanevano sotto il controllo dello Stato libico che concedeva alle compagnie straniere ristretti margini di guadagno; i fondi sovrani, ammontanti a circa 200 miliardi di dollari (spariti dopo la confisca), che lo Stato libico aveva investito all’estero e che in Africa avevano permesso di creare i primi organismi finanziari autonomi dell’Unione africana. E la posizione della Libia, all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Sono stati dunque gli Usa e i maggiori alleati Nato - la Francia in primis - a finanziare, armare e addestrare in Libia nel 2011 gruppi islamici fino a poco prima definiti terroristi, tra cui i primi nuclei del futuro Is; a rifornirli di armi con una rete organizzata dalla Cia (documentata da un’inchiesta del New York Times) quando, dopo aver contribuito a rovesciare Gheddafi, sono passati in Siria per rovesciare Assad - ora ritornato «interlocutore» degli Usa come se nulla fosse; sono stati sempre gli Usa e la Nato ad agevolare l’offensiva dell’Is in Iraq, nel momento in cui il governo al-Maliki si allontanava da Washington, avvicinandosi a Pechino e a Mosca. L’Is ha svolto di fatto un ruolo oggettivamente funzionale alla strategia Usa/Nato di demolizione degli Stati con la guerra coperta. L’attacco terroristico a Tunisi è avvenuto il giorno dopo che Aqila Saleh, presidente del «governo di Tobruk», aveva avvertito l’Italia che «il Califfato può passare dalla Libia al vostro Paese», premendo su Roma perché intervenga in Libia. Il ministro Gentiloni ha subito risposto: «Faremo la nostra parte». E il nuovo capo di stato maggiore dell’esercito, generale Danilo Errico, ha assicurato che, «se il governo dovesse dare il via» a un intervento in Libia, «noi siamo pronti». Pronti dunque a combattere a fianco dell’«Esercito nazionale libico», braccio armato del «governo di Tobruk», al cui comando – documenta The New Yorker, il 23-2-2015 – c’è il generale Khalifa Haftar che, «dopo aver vissuto per due decenni in Virginia (Usa), lavorando per la Cia, è ritornato a Tripoli per combattere la guerra per il controllo della Libia». pagina 4 il manifesto VENERDÌ 20 MARZO 2015 EUROTUNNEL Bruxelles • Martin Schulz: «Sarebbe bene che Syriza mantenesse gli impegni presi, un nuovo aiuto finanziario potrà arriverà in seguito» LA SEDE DELLA BCE. E SOTTO LA PROTESTA DI MERCOLEDÌ A FRANCOFORTE/FOTO ZUMA-LA PRESSE Al consiglio d’Europa mini-summit sulla situazione greca chiesto da Tsipras, che vorrebbe «politicizzare» la crisi, sull'orlo del default. Ma i partner chiedono solo di «applicare le riforme» La Grecia ora è «pericolosa» Anna Maria Merlo PARIGI D opo un minuto di silenzio per l’ultimo attacco terrorista, a Tunisi, la Grecia «pericolosa» (la definizione è di Martin Schulz) è stata al centro delle preoccupazioni, pur non essendo nell’agenda ufficiale del Consiglio europeo di ieri e oggi a Bruxelles, con in programma le questioni economiche (Fiscal Compact e riforme strutturali), l’energia e, per la politica estera, l’Ucraina, la Libia e il terrorismo. L’idea di un mini-summit ai margini del vertice - una «flash-mob» per Schulz - che obtorto collo Mario Draghi, Jean-Claude Juncker e Jeroen Dijsselbloem hanno accettato ieri sera, con la presenza di Angela Merkel e François Hollande, su richiesta di Alexis Tsipras, ha irritato i partner, che hanno chiesto senza esito di poter partecipare anch’essi, vista l’importanza del caso greco. Con la domanda di uno spazio specifico dedicato ad Atene, Tsipras ha voluto politicizzare il dossier greco, che è bloccato in uno stallo a rischio. «La Ue ha bisogno di un’iniziativa politica – ha spiegato Tsipras – che nel rispetto sia della democrazia che dei trattati consenta di lasciarci la crisi dietro le spalle e di muoverci verso una maggiore crescita». È più o meno la stessa cosa che ha detto la vigilia il primo ministro francese, Manuel Valls, convocato a Bruxelles dalla Commissione per spiegarsi rispetto al non rispetto da parte di Parigi del parametro del 3%. La Francia ha comunque ottenuto due anni di tempo in più per rientrare nei parametri, ma per la Grecia c’è un trattamento speciale: «è assolutamente chiaro che nessuno può attendersi una soluzione né stasera né lunedì» a Berlino (nel previsto incontro con Tsipras), ha sottolineato Merkel, secondo la quale un accordo si farà «solo se si trova un’intesa e tutti si attengono ad essa». Cioè, non verrà versata in anticipo parte dell’ultima tranche (7,2 miliardi) del secondo piano di aiuti, sulla carta prolungato di 4 mesi il 20 febbraio scorso, prima che Atene mostri di aver intrapreso le riforme del Memorandum. Il presidente dell’europarlamento ha giudicato la Grecia «pericolosa» (e sprezzante ha chiesto a Tsipras se aveva «dimenticato la cravatta»): per Martin Schulz, «sarebbe bene che la Grecia mantenesse gli impegni presi, un nuovo aiuto finanziario arriverà dopo». Ma il tempo stringe. Lo stesso Schulz ha dato credito all’ipotesi che Atene sia quasi a secco e che abbia difficoltà a far fronte ai nuovi, imminenti, rimborsi: «nel breve termine, 2-3 miliardi di euro sono necessari per rispettare gli impegni esistenti» (oggi scadono altri 2 miliardi da restituire dopo l’1,2 già versati e altri seguiranno a ruota per raggiungere la quota di 6 miliardi dovuti in questo mese di marzo, una buona parte all’Fmi). Il governo greco sta grattando il fondo del barile in casa (dai fondi pensione alla previdenza sociale), ma non ce la farà se la Bce non versa almeno i 1,9 miliardi di interessi maturati (ha anche in cassa circa 11 miliardi del Fondo ellenico di stabilità). Ma Draghi fa concessioni con il contagocce, per tenere il governo di Syriza sulla corda: ha aumentato l’Ela (liquidità di emergenza, l’unico rubinetto che resta aperto tra Francoforte e il sistema bancario greco, dopo aver chiuso la possibilità di dare in garanzia le obbligazioni, junk per le agenzie di rating, come «collaterale») di altri 400 milioni, al di sotto della richiesta di Atene. La Grecia è sull’orlo di un panico bancario e il presidente dell’Eurogruppo, Dijsselbloem, gioca col fuoco, evocando uno «scenario cipriota», con il blocco dei movimenti di capitali (una misura considerata il prologo per un Grexit). Juncker ha cercato di mediare, ricordando che «la Grecia negli ultimi tre anni ha intrapreso molte riforme, fatto molte economie nel budget, realizzato un avanzo primario. Non è vero dire che la Gre- cia non abbia fatto sforzi, non sarebbe corretto dire che i greci sono un popolo di fannulloni». Ma anche Juncker insiste: bisogna rispettare gli impegni ed evoca quelli del 2012 (cioè il Memorandum), oltre ai più recenti. Non è solo la Grecia a ricevere bacchettate. La Bce ha richiamato all’ordine Italia, Francia, Belgio e Finlandia sul rispetto del Fiscal Compact, per Draghi «la gravità degli squilibri sta aumentando in vari paesi». La Ue sembra un bateau ivre in questo periodo, incapace di prendere decisioni: anche per il piano Juncker, il progetto si concentra ora, a pochi mesi dalle decisioni definitive su dove intervenire con la «leva» che dovrebbe coinvolgere 315 miliardi, sulla «depoliticizzazione» della scelta della selezione dei progetti. Terreno minato anche in politica estera. A cena c’era l’Ucraina nel menu. Il draft del comunicato finale non prevede nuove sanzioni alla Russia, ma la riconferma automatica di quelle in atto che scadono a giugno, se non ci saranno passi avanti entro quella data. La Lettonia, che ha la presidenza semestrale del Consiglio, ha inserito nelle conclusioni la richiesta a Mrs.Pesc, Federica Mogherini, di mettere in atto un «piano di azione» della Ue contro la propaganda russa, perché «stiamo perdendo la battaglia» della comunicazione con Mosca. Sulla Libia, il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusc, spinge da giorni per un nuovo intervento militare. Francoforte / FUOCO MEDIATICO SU IG METAL E DIE LINKE DOPO LA MANIFESTAZIONE «Ci vediamo ad Atene». Blockupy è in movimento Beppe Caccia I l giorno dopo la mobilitazione di Blockupy, i media e la politica governativa tedesca hanno indossato l’elmetto. Il tabloid scandalistico Bild, dimenticando quanto accaduto a Tunisi, ha titolato la sua prima pagina «Terrore a Francoforte» a caratteri cubitali, arricchita da selezionate fotografie di mezzi della polizia in fiamme. È lo stesso foglio capofila della martellante propaganda contro l’ipotesi di «regalare ancora miliardi di Euro ai greci scansafatiche», accompagnata dalla campagna sul «caso Varoufakis», sul banco degli imputati per aver mostrato il dito medio «ai tedeschi». Ma a dettare la linea alla stampa in Germania è stato soprattutto l’autorevole quotidiano liberal-conservatore Frankfurter Allgemeine, che ha direttamente attaccato il sindacato dei metalmeccanici Ig Metall e il partito Die Linke, responsabili della conduzione di un «gioco cattivo e pericoloso» non solo per aver coperto le proteste, ma soprattutto per aver «convocato a Francoforte violenti da tutta Europa». Nel mirino degli editorialisti della Faz sono entrati in particolare Ulrich Winkel, parlamentare regionale e Katja Kipping, co-portavoce nazionale di Die Linke. Quest’ultima colpevole di aver definito «spaventoso» il dispositivo repressivo preparato dalla polizia. Winkel accusato per aver dichiarato ieri di essersi sentito «colpito e turbato» dalle immagini degli scontri della mattina, ma di «comprendere bene l’indignazione e la rabbia dei manifestanti» per le politiche delle oligarchie europee. E sul comportamento della polizia, rispon- Presentata in conferenza stampa un’agenda di iniziative. Nel pomeriggio assemblea per lo sciopero sociale dendo agli attacchi della Cdu, ha puntato invece il dito la stessa Kipping nel corso del dibattito straordinario svoltosi al Bundestag, il parlamento federale di Berlino, dove ha rivendicato il ruolo di «osservazione e mediazione» svolto dai parlamentari della sinistra. Proprio per evitare un’«escalation della polizia, i cui interventi hanno provocato i primi scontri quando hanno cercato di impedire che i manifestanti si avvicinassero all’Eurotower». Il bilancio di mercoledì è pesante: oltre duecento i feriti tra i manifestanti, per i colpi di manganello o per l’intossicazione da gas irritanti, mentre i diciotto fermati sono stati già tutti rilasciati, vista l’assenza di specifiche contestazioni a loro carico. Dati forniti dalla coalizione Blockupy, che si è presentata coesa all’affollata conferenza stampa svoltasi al Teatro Naxos, con l’attiva partecipazione del regista Willy Praml. Per Hannah Eberle della Interventionistische Linke «dobbiamo rallegrarci del fatto che finalmente una politica di resistenza è arrivata in Germania. E i trentamila manifestanti dimostrano che molte persone non sono più disposte a farsi terrorizzare da questa gestione della crisi». Allo stesso modo Eberhardt Heise di Attac ha spostato la discussione dalla cronaca degli scontri (e dalla conta dei danni materiali, quantificati dalla polizia dell’Assia in «qualche milione di Euro») alle questioni politiche riportate dalla protesta al centro della discussione pubblica: «perché non si parla di violenza, a proposito della crescente precarizzazione dei rapporti sociali, dello smantellamento dei servizi sociali o delle migliaia di migranti che muoiono affogati nel Mediterraneo?» Sul terreno della «disobbedienza civile – ha concluso Frederic Wester della rete Ums Ganze – dopo il successo del 18 marzo, Blockupy va avanti». E proprio sulle prospettive dell’iniziativa transnazionale dei movimenti, in relazione con le esperienze politiche e di governo più avanzate, che si concentrerà ora il dibattito all’interno di questa «ibrida coalizione». Già ieri si è svolta all’Università di Francoforte una prima riunione promossa dagli «strikers» con l’obiettivo di tradurre sul piano europeo la suggestione dello sciopero sociale, mentre sta prendendo quota l’ipotesi di un incontro entro il prossimo giugno ad Atene, come proposto dalle reti solidali elleniche. Con in testa l’idea che la successiva tappa della mobilitazione potrebbe essere proprio Berlino, sotto le finestre del governo Merkel. Di certo questo movimento pan-europeo contro le politiche di austerity, che a Francoforte ha superato con successo la sua prima prova di piazza, non ha l’intenzione di fermarsi proprio ora. VENERDÌ 20 MARZO 2015 il manifesto EUROTUNNEL Atene • pagina 5 Per la London School of Economics, la Germania grazie alla crisi greca (per la differenza dei tassi d’interesse) ha guadagnato dal 2009, quasi 80 miliardi di euro MITI E REALTÀ · La Germania guadagna dal disastro ellenico e i fondi Ue finiscono solo alle banche I retroscena del pressing Ue Pavlos Nerantzis ATENE N VAROUFAKIS, L’OSCENO Digitus impudicus Dimitri Deliolanes V aroufakis aveva ragione. Non ha mai alzato il digitus impudicus verso la Germania. È un falso, come aveva sempre detto. Lo hanno confessato i produttori di una trasmissione satirica tedesca. Facendo fare una figura penosa non solo all’autorevole Bild («Varoufakis è bugiardo, imbroglione, irresponsabile») ma anche alla serissima trasmissione politica in cui il ministro greco era intervenuto domenica, professando (inutilmente) la sua innocenza. Crolla così miseramente quello che era assurto a simbolo assoluto dello stato dei rapporti tra Grecia e Germania (intesa come Europa). Nell’osceno gesto, il «dramma» dell’eurozona: l’arrogante ministro greco insulta il suo benefattore e guida spirituale, il suo salvatore e signore. Ingrato, come tutti i greci. Ma come è stato possibile? Semplice. Stiamo spettatori di una grande offensiva mediatica, a livello europeo. La Grecia, Tsipras, Varoufakis, il Partenone, l’ouzo e la mussaka debbono essere calunniati sempre e ovunque, bisogna accusarli di tutto, pedofilia compresa. Altrimenti, sono capaci - Dio ci salvi! - anche di mettere limiti al predominio tedesco nell’eurozona. Cose da pazzi. Bisogna fermarli. Ecco anche i media italiani, se- ri, serissimi, mettersi in fila per riprodurre in automatico qualsiasi accusa venga da Berlino o da Bruxelles, dito di Varoufakis compreso. Ieri un altro caso. Il Parlamento greco ha approvato, con una straordinaria maggioranza dei due terzi, le misure per sostenere le 300 mila famiglie in emergenza umanitaria, per un costo di 200 milioni. E subito da Bruxelles un certo Declan Costello si è affrettato a protestare: «Non ci avete chiesto il permesso, è un atto unilaterale». Cosa fa un giornalista normale quando sente Costello dire questo? Di solito ride e passa ad altro. No, in Italia l’atto «unilaterale» è diventato un fatto, l’ennesimo delitto di Atene, citato da tutti, nel Sole 24 Ore perfino nel titolo. Ora è chiaro: se avete dei cittadini che muoiono di fame, non fate nulla se non chiedete il permesso prima a Costello, magari anche a Scheuble, per maggiore sicurezza. Se l’Is attacca il Vaticano che si fa? Si manda a Costello il preventivo dettagliato del costo dell’intervento delle forze dell’ordine. Vale anche per gli incidenti stradali: attenti a non chiamare l’ambulanza (e gravare lo stato) senza il suo permesso. Non ci credete? Fate male: così va l’Europa e la stampa con lei. ella capitale greca si sapeva a priori che lo scontro tra un governo delle sinistre e l’establishment europeo sarebbe stato inevitabile. Non tanto perché «l’altra Europa» a cui fa riferimento Syriza - gli Stati uniti d’Europa - va in una direzione diversa rispetto alla struttura attuale dell’Ue, basata sui Trattati di Maastricht e di Lisbona, dove la logica dei mercati prevale sulla politica, o meglio dominano le politiche neoliberiste. L’alto livello di tensione tra Atene da una parte e Bruxelles e Berlino dall’altra, presentata come mancanza di fiducia, è inevitabile nel momento in cui Tsipras, pur presentandosi pragmatico e disposto ad applicare solo una parte del programma di Salonicco per far fronte alla crisi umanitaria greca, non é disposto a seguire le politiche precedenti, come vogliono i partner europei. La ristrutturazione del debito greco è la pietra angolare, l’elemento portante per il risanamento economico della Grecia e per una costruzione europea diversa dall’attuale. Tutto ció era noto. Ma tutto sommato ad Atene speravano che l’«avversario», ovvero i creditori internazionali, avrebbero rispettato le regole del gioco. A distanza di un mese e mezzo dallo scrutinio del 25 gennaio, invece, ció che si registra é una lotta quasi accanita contro il governo di Alexis Tsipras, il quale rispetta i suoi impegni verso i creditori nonostante i gravi problemi di liquiditá. Visto che l’ aggiustamento di bilancio greco è stato piú pesante che altrove (i tagli di spesa e le misure fiscali hanno diminuito del 45% il reddito delle famiglie contro il 20% del Portogallo e il 15% di Italia e Irlanda), Atene vorrebbe una soluzione basata per il momento sull’accordo dell’Eurogruppo del 20 febbraio scorso. Quindi un negoziato a livello politico, un’apertura di trattativa come ha scritto pochi giorni fa il vice-premier Yannis Dragasakis sul Financial Times. I partner europei, invece, non solo non sembrano disposti a dare tempo e spazio al neogoverno greco, ma sempre di piú c’è la netta impressione che vorrebbero la sua caduta, la messa in angolo di Syriza. E usano a questo proposito tutti i mezzi: la Bce che ha chiuso i rubinetti del finanziamento di emergenza (Ela) che tiene in piedi le banche greche; l’Euroworking group e l’Eurogruppo che chiede dati tecnici delle finanze greche - che guarda caso sono sempre negativi o mancanti - come pressuposto per un negoziato politico; e la stampa internazionale che, quando non mente, diventa perfino più realista del re. VAROUFAKIS E TSIPRAS. A SINISTRA MARIO DRAGHI/FOTO LA PRESSE-REUTERS A causa della mancanza di liquiditá nelle casse dello Stato ellenico tutti, o quasi, parlano del grexident, cioé di un default non voluto o di un grexit (Schaeuble addirittura ha detto a Varoufakis che Berlino sarebbe disposto ad aiutare l’ uscita della Grecia dall’eurozona); tutti sottolineano ad ogni occasione i benefici che hanno avuto i greci dagli aiuti finanziari pari a 240 miliardi di euro ottenuti nel maggio 2010 e nell’ ottobre 2011, ma pochi notano che soltanto il 10% di questo flusso di soldi é stato assorbito per i fabbisogni interni e veri del paese. Il resto é servito per ricapitalizzare le banche greche - le quali peró non prestano un euro alle imprese medie e piccole in stato di emergenza - e sopratutto per pagare gli interessi sui capitali dei prestiti ai creditori internazionali. Vale a dire che la Grecia prende in prestito sempre di più dai suoi partner (e questo vale per l’ Italia e tutti i paesi) per pagare debiti precedenti. Intanto decine di migliaia di greci fanno la fame, perdono i loro posti di lavoro, si ammalano, i piú giovani scelgono le vie di migrazione, ecc., ecc. Le vittime umane, lo sfacelo sociale, l’annientamento del welfare state e la perdita del 25% della richezza nazionale in Grecia sono considerate dall’establishment europeo perdite collaterali. Chi viene beneficiato e chi guadagna con la crisi greca? In Germania ma anche nel resto d’Europa a sentire i media e parte del mondo politico - che non perdono occasione per disprezzare i Pigs, i paesi del sud - i contribuenti tedeschi pagano «di tasca loro» per i greci. Ma questi opinion makers - su cui Wolfang Schauble insiste sempre nei suoi discorsi - non dicono nulla del fatto che la Germania grazie alla crisi greca e in specifico alla differenza dei tassi d’interesse ha guadagnato dal 2009, secondo la London School of Economics, quasi 80 miliardi di euro. L’economista americano Paul Krugman (premio Nobel) ha scritto sul New York Times che «i politici tedeschi non hanno mai spiegato ai loro cittadini “la matematica”, ma hanno scelto la via facile del moralismo per l’atteggiamento irresponsabile dei mutuati». Unica eccezione dalla Grande Koalition, Klauss Regling (Mes), che ha detto: «Fino- RIPARAZIONI DI GUERRA · Due tedeschi: «Ecco i nostri soldi» Se la Germania non paga, e anzi i politici tedeschi sembrano inorridire di fronte alle richieste greche, ci penseremo noi cittadini. Dev’essere questo il pensiero che ha mosso una coppia tedesca a recarsi in una città greca, Nauplia, consegnando al sindaco 875 euro. Un simbolico risarcimento di guerra «personale», in nome dell’amore nei confronti della popolazione greca, secondo quanto dichiarato dai due tedeschi. Si tratta del gesto di Ludwig Zaccaro, di origini italiane e di sua moglie Nina Lange, sessantenni e provenienti da Amburgo. Sono stati ricevuti con estrema gioia dagli abitanti della cittadina del Peloponneso nella quale si sono recati. Come scritto dal sito Lettera43, che ha intervistato Ludwig Zaccaro, ««Erano toccati dalla nostra solidarietà. Ma eravamo stati diverse volte in Grecia, conoscevamo bene questo popolo». La coppia tedesca ha poi postato un video su youtube, nel quale invita il popolo tedesco a imitarli e il governo tedesco a prendersi le proprie responsabilità storiche nei confronti delle richieste effettuate dal governo di Alexis Tsipras. ra i prestiti di salvataggio alla Grecia non sono costati un solo euro al contribuente tedesco». Questa campagna diffamatoria piena di stereotipi («i greci pelandroni», promossa non solo dalla Bild ma anche da quotidiani «autorevoli» italiani) nasconde una realtá emersa recentemente dall’Office for National statistics britannico: i «pigri» greci lavorano molto di piú rispetto ai «disciplinati» tedeschi (42,2 ore settimanali i greci, 35,5 ore i tedeschi)». È questa campagna che alimenta il nazionalismo greco, fino alla minaccia dell’apertura dei confini perché i jihadisti invadano la Germania. Mercoledì i «18» dell’Eurozona venivano descritti dalle agenzie internazionali come «irritati perché il governo di Tsipras si rifiuta di promuovere le riforme», vale a dire gli impegni presi dai governi precedenti. Costello Declan, il rappresentante della Commissione europea alle «istituzioni» è contrario (sic) al progetto di legge che facilita i contribuenti greci a pagare i loro debiti allo Stato, nonostante che non influenzi negativamente il bilancio dello Stato. E poi tutti sono contrari a Yanis Varoufakis, perció fanno di Una cosa è certa: la ricetta della troika (Fmi, Ue, Bce) ha avuto conseguenze simili a quelle di una guerra tutto per farlo allontanare dalla sua carica. Il video falso del ministro delle finanze greco che manda a quel paese con il dito alzato la Germania é solo l’ ultimo episodio di una lunga fila di menzogne. Il viaggio di Tsipras a Berlino il 23 e l’incontro con i leader europei ai margini del summit di Bruxelles di ieri sera e probabilmente anche oggi, dovrebbe servire per distendere il clima, ma sará dura per premier greco. «La guerra é la continuazione della politica con altri mezzi... é un atto di forza che ha lo scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontá» scriveva Karl von Clausewitz. E Atene, secondo Berlino, deve sottomettersi alla volontá dei suoi partner. Clausewitz aveva notato per primo che «la prima vittima di ogni guerra è la veritá». Tante le cose scritte e dette su come la Grecia sia arrivata a questa crisi e su chi ne ha la responsabilitá. Una cosa è certa. La ricetta applicata dalla troika (Fmi, Ue, Bce) per il risanamento economico del Paese ha avuto conseguenze simili a quelle di una guerra. E la sensazione che «stiamo vivendo in condizioni di guerra» e di emergenza permanente ce l’hanno (quasi) tutti i greci. pagina 6 il manifesto UN GIORNO DA PECORA MAURIZIO LUPI E MATTEO RENZI FOTO LAPRESSE GOVERNO · Maurizio Lupi annuncia a «Porta a Porta» che oggi formalizzerà il suo passo indietro E il ministro consegnò le dimissioni a Vespa Andrea Colombo M aurizio Lupi getta la spugna. Non di fronte al Parlamento: quella è una formalità che espleterà stamattina a Montecitorio. Di fronte a quella che un tempo veniva chiamata, non tanto ironicamente, «la terza camera della Repubblica», il salotto di Bruno Vespa, Porta a Porta. Lo fa perché «quando ti vedi tirato in ballo, non so per cosa, le decisione migliore è questa». Lo fa perché queste dimissioni «rafforzeranno l’azione di governo». Lo fa ammettendo un solo errore, peccatuccio veniale: «Non me la sono sentita di dire a mio figlio di restituire il Rolex regalatogli per la laurea. Forse ho sbagliato». Questa la linea ufficiale. La realtà è che il ministro delle infrastrutture si è rassegnato quando ha capito che Matteo Renzi sarebbe andato fino in fondo. «Non mi ha mai chiesto di dimettermi», ha ripetuto ieri Lupi. Forse è vero. Di certo però Renzi gli aveva detto che tutto il Pd, non solo la minoranza, gli avrebbe votato contro. Che a definire la situazione «insostenibile, al netto di qualsiasi scelta garantista» non era solo Gianni Cuperlo, che poco prima aveva tirato la bordata in questione, ma lo stesso stato maggiore renziano. A decidere, insomma, sarebbero stati i deputati. Ma in questi casi si sa come vanno le cose. L’ipotesi che a ordinare all’intero Pd di reclamare la testa di Lupi sia stato invece proprio il segretario e presidente del consiglio è tutt’altro che fantasiosa. Restava un solo appiglio, e anche quello nel corso della notte si era rivelato scivolosissimo: la resistenza dell’Ncd, che appena 24 ore prima aveva minacciato il passaggio dalla maggioranza all’appoggio esterno. Con Angelino Alfano e con il suo gruppo dirigente, Matteo Renzi ha adoperato lo schema a cui ricorre sempre in questi casi: la sfida diretta. Il premier era convinto, a ragione, che di fronte alla minaccia di una crisi e di elezioni anticipate che nessuno, neppure lui vuole, ma che tutti hanno più motivo di lui di temere, i centristi si sarebbero arresi. Ancora una volta, i VENERDÌ 20 MARZO 2015 Le ultime resistenze abbandonate di fronte a un Pd compatto per la sfiducia e al cedimento di Alfano, messo davanti alla minaccia di elezioni anticipate. E ora l’Ncd rischia il dissolvimento fatti gli hanno dato ragione e la carta si è dimostrata vincente. Per Renzi è un successo pieno, non solo perché è riuscito a disinnescare la bomba prima che de- flagrasse col voto sulla mozione di sfiducia che era previsto per martedì. Il risultato ottenuto con lo sgombro di Maurizio Lupi dal ministero delle Infrastrutture è cospicuo di per sé. Al momento di formare il governo, l’ex sindaco di Firenze aveva fatto il possibile per sottrarre all’uomo di Comunione e liberazione una delle poltrone più strategiche che ci siano nel governo. In privato non aveva nascosto la sua diffidenza, e proprio per non legare troppo il suo nome a quello di Lupi aveva evitato di inviare qualcuno dei suoi uomini di fiducia al ministero, una volta rivelatosi impossibile sottrarlo all’ex forzista. Chi prenderà ora il suo posto?Il dimissionario argomenta che, «nell'interesse del governo», sarebbe meglio che non andasse a un esponente del Pd, per evitare che l’esecutivo diventi un monocolore. Forse Renzi lo ascolterà, ma solo per affidare l’incarico a un suo uomo di fiducia, pur se tecnico. Raffaele Cantone, per esempio, o un altro magistrato di peso e allo stesso tempo di provata affidabilità. Qualcosa in cambio all’Ncd dovrà essere dato, ma non sarà un dicastero importante. Renzi punta agli Affari regionali. Il partito di Lupi spera in qualcosa di più succulento: nello specifico un ministero che ancora non esiste ma che è da un pezzo in gestazione, quello «del Sud». Sempre che dell’Ncd si possa ancora parlare, e i primi a non esserne affatto certi sono proprio i dirigenti di quel partito, o almeno alcuni di loro. «Il Nuovo centrodestra non esiste più», ammette uno dei più alti in grado. Segue previsione tra le più fosche: presto un numero congruo di parlamentari abbandonerà la scialuppa affondante per tornare al vascello di capitan Silvio, che ha dimostrato di resistere alle tempeste molto meglio del previsto. In questo caso, proprio come è avvenuto con l’elezione del capo dello Stato, Renzi pagherebbe una vittoria comunque indiscutibile con un aumento dei rischi per la stabilità del suo governo. Lupi, che tra tutti i dirigenti dell’Ncd è l’unico a vantare un peso specifico notevole in Lombardia e che ha piazzato i suoi uomini in più o meno tutte le postazioni centrali di Cl, non farà parte dell’eventuale drappello di ri-transfughi. Non subito almeno. Ma se il dissolvimento dell’Nuovo centrodestra procederà spedito, difficilmente resterà in un partito morente. La scelta di Lupi, per quanto pochissimo spontanea, è stata accolta da un coro di applausi, tanto fragorosi da rivelare quanto fondo sia il sospirone di sollievo che nascondono. Per il Pd è la vicesegretaria Debora Serracchiani a lodare l’alta «sensibilità istituzionale» del quasi ex ministro, mentre Lorenzo Guerini apprezza il «gesto politico, un atteggiamento ragionevole e serio». Alfano poi si scompone commosso: «La decisione di un uomo delle istituzioni, onesto e per bene». Oggi la maggioranza applaudirà Maurizio Lupi in aula, per rendergli l’onore delle armi. Ma se l’uomo si accontenterà o se coverà rancori letali, ci vorrà un po’ per capirlo. «OPERAZIONE SISTEMA» · Il ministro chiama Incalza per chiedergli di incontrare il figlio Quando al telefono i Lupi fanno «uuuuuhh!» FIRENZE I l telefono può essere traditore, non si sa mai chi può starti a sentire, oltre al tuo interlocutore dall’altro capo della linea. A volte, dunque, è meglio esprimersi in codice, per evitare imbarazzi. Anche se il rischio è di non afferrare il messaggio. Non sembra il caso di Philippe Perotti, figlio di Stefano (l’imprenditore arrestato nell’operazione «Siste- Nelle intercettazioni agli atti dell’inchiesta, presunte «pressioni», nomi in «codice», appuntamenti al ministero per «consulenze e suggerimenti» ma»), intercettato in una conversazione con una persona non indagata, Davide Vicini. I due parlano di lavori per alcune autostrade, tra cui la Orte-Cesena e Vicini vuole sapere da Philippe Perotti che ruolo potrebbe avere qualcuno ma, furbo, senza nominarlo esplicitamente e allora chiede di «quelli che stanno con uuuuhh!! ... che stanno nel bosco a fare uuuuhh!!». E Perotti taglia corto: «Ne parliamo a voce comunque, senza parlare troppo di nomi», ma «il problema è quello che non possiamo scrivere sulle email». Il ministro presenta il figlio Uno di quelli del bosco, Maurizio Lupi in persona, l’8 gennaio 2014 telefona a Ercole Incalza al ministero: «Se fra un quarto d’ora ti mando questo che è venuto da Milano a Roma a far due chiacchiere?... nel senso di avere consulenze e suggerimenti eccetera». Incalza: «Dimmi chi viene ... dimmi!». E Lupi: «Viene mio figlio Luca». «Quando vuoi, ma figurati!, o adesso o alle cinque...». Lupi: «No conviene che venga adesso». Per gli investigatori in ballo sarebbe proprio il lavoro per Luca. Alle 14.29 Incalza chiama Stefano Perotti e gli chiede quando può essere a Roma. Perotti: «Posso arrivare venerdì se vuoi». Poi: «Chi è questo?». E Incalza: «Il figlio di Maurizio». «Insisteva, capisci?» «Con noi ci ha provato... io gli ho tenuto botta pesantemente ma in quel caso lì era Lupi che insisteva...capisci?». Così l’ex dg della metropolitana di Milano Giuseppe Cozza parla con Giulio Burchi (indagato nell’inchiesta di Firenze), di presunte pressioni per far avere incarichi a Cavallo e Perotti. La telefonata è del 3 marzo. Burchi dice a Cozza di aver incontrato un giornalista di Report che potrebbe chiamarlo «per chiederti vecchie robe della MM» ma Cozza risponde che non intende parlare con i giornalisti. Poi, scrive il Ros, chiede se «verrà fuori la notizia dell’assunzione del figlio di Lupi»: «Sono arrivati a mettere la mani su questa roba qui?...e la storia di Lupi non è venuta fuori?...del figlio?». Per Burchi «sta venendo fuori , il figlio lavora con Perotti, è addirittura assunto... lavora per una società di architettura...Mor..lei è la sorella della moglie di Perotti... in queste società si possono dare gli incarichi l’uno con quell’altro...no ma lui si è presentato lì...alla riunione...poveretto...ha poi diritto di lavorare anche questo ragazzo...però è lo schifo di vedere questo monopolio di tutti i lavori di Perotti che poi se li ruba alla MM li ruba a tutti quelli che girano». PD ROMA · Orfini: nuove regole contro i« signori delle tessere» Il Pd di Roma è ostaggio dei «signori delle tessere». Matteo Orfini, il commissario del pd romano inviato da Renzi dopo l’esplosione di «Mafia capitale», commenta i primi risultati che emergono della relazione di Fabrizio Barca sull’inchiesta interna nei circoli dem. Una relazione che, prosegue Orfini, «racconta la verità di un partito in larga parte infeudato, non al servizio dei cittadini e degli iscritti ma dei signori delle tessere o delle preferenze, e che per questo rischia di essere pericoloso per la città». Dallo screening emerge «una realtà drammatica in cui una parte non piccola degli iscritti non sono iscritti veri: uno su 5 ha dei problemi» e alcune persone «non sanno neanche di essere iscritte», c’è chi risulta irrintracciabile «anche se abbiamo nome e cognome, e persone che rientrano in una ’filiera’ e che ti rispondono: ’mi ha iscritto quel parlamentare, quel consigliere regionale, ma io in realtà non ho pagato nulla, ha fatto tutto lui, non partecipo». Il presidente dell’assemblea del Pd e commissario del partito romano annuncia che il tesseramento sarà riaperto con regole nuove ed è prevista «una ridefinizione della struttura organizzativa dei circoli che aiuti a smontare questi meccanismi». Ai nuovi iscritti verrà chiesto un contributo equivalente a un giorno di salario per rendere più difficile la formazione dei «pacchetti di tessere». E, assicura Orfini, «saranno cacciati a pedate tutti quelli che devono essere cacciati». FALSO IN BILANCIO L’Anticorruzione in aula al senato Dubbi sul «baco» ROMA P assaggio in aula al senato per il disegno di legge anticorruzione. Alla fine la conferenza dei capigruppo ha trovato un piccolo spazio per salvare le apparenze. La legge attesa da due anni e ritardata infine per le divisioni nella maggioranza si discuterà solo la prossima settimana. Ma almeno ieri, per mezz’ora, subito dopo la fumata nera per l’elezione dei giudici costituzionali, si è potuta ascoltare la voce del relatore (il senatore D’Ascola di Ncd) e si può dire che la fase finale è cominciata. Non è detto che sia senza rischi: si teme che nella legge ci sia un «baco». Resta infatti il problema dell’emendamento del governo, che riguarda la non punibilità del falso in bilancio in casi di particolare tenuità del danno, ma che va a cambiare un decreto legislativo che il governo ha emanato appena e che entrerà in vigore solo il prossimo 2 aprile. Si può cambiare una legge prima che questa sia applicabile? La commissione non ha formalmente risposto. «Il problema c’è, ma riguarderà il presidente del senato quando il provvedimento verrà votato in aula», ha sostenuto il presidente della commissione giustizia Nitto Palma, di Forza Italia, accusato dal Pd di fare ostruzionismo. Lui però l’emendamento l’ha messo in votazione, anche se convinto che «richiamando un articolo non ancora in vigore era privo di portata normativa, il che mi avrebbe imposto di dichiararne la inammissibilità». Ma ha preferito girare la questione al presidente del senato. Il ministro della giustizia Orlando ha sostenuto l’opposto. «Sono schermaglie di carattere procedurale - ha detto - l’articolo può essere votato, non esiste un problema legato al decreto, ci sono tanti provvedimenti in cui si fa riferimento ad articoli di legge che non hanno ancora efficacia». Secondo Orlando «se il tema è la conoscenza da parte dei componenti della commissione, il testo era già stato distribuito. Se il problema era la pubblicazione del testo in Gazzetta ufficiale, questo è accaduto mercoledì». Ma anche lui sa che il problema è un altro: quella legge da emendare entrerà in vigore solo il 2 aprile. «Il tema della vigenza riguarda il testo quando esce dall’aula dopo il voto finale, non quando arriva in aula», replica Orlando, lasciando intendere che quando la legge anticorruzione e sul falso in bilancio sarà approvata definitivamente - deve ancora passare per la camera dei deputati - il 2 aprile sarà passato da un pezzo». Persino più sofisticata la versione del relatore D’Ascola: «È vero che il decreto sulla tenuità del fatto non è entrato in vigore, ma è vigente, cioè è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ed è dunque conoscibile. I parlamentari cioè - assicura il senatore del Ncd - sono perfettamente in grado di mettere a punto dei sub emendamenti visto che la norma è conoscibile e verificabile». Se ne riparlerà da mercoledì in aula, al senato. Sbilanciamo l'Europa VENERDÌ 20 MARZO 2015 WWW.SBILANCIAMOCI.INFO - N°58 SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO Nonostante l’ottimismo parolaio di Renzi, le stime del Def parlano chiaro: il Jobs Act inciderà sul Pil al massimo per lo 0,1%. Per ripartire ci sarebbe bisogno di una politica industriale, di contratti veri e di investimenti pubblici. Una riforma del lavoro per uscire dall’Ottocento 2.0 U na volta - per essere competitivi - si svalutava la moneta, oggi si svaluta il lavoro: meno diritti, meno tutele, meno retribuzione. Le politiche neoliberiste si sono basate in questi decenni su quattro pilastri: la riduzione della spesa pubblica e del ruolo dello Stato; le privatizzazioni e le liberazioni (a partire da quella della circolazione dei capitali); gli investimenti privati (il mercato) e la precarizzazione del mercato del lavoro. La riforma del mercato del lavoro è una di quelle riforme strutturali cui Renzi affida la speranza di rilanciare l’occupazione e l’economia. In realtà, come sappiamo tutti, in questi anni l’esistenza di oltre 45 forme di lavoro atipico Giulio Marcon non ha incoraggiato ad assumere di più, ma semplicemente a sostituire i contratti di lavoro con tutele con forme di lavoro precario, senza diritti. Non si sono creati posti di lavoro in più, ma solo più lavori precari. Nè queste riforme hanno avuto effetti salvifici sull’economia. Proprio nel Def si dice che l’impatto del Jobs Act sul Pil sarà minimo: non più dello 0,1%. Si tratta di previsioni; e quelle del governo in questi vent’anni sono sempre state troppo ottimistiche e poi inevitabilmente corrette al ribasso. L’assunto dal quale si parte è noto: bisogna mettere le imprese nelle condizioni di avere meno vincoli e costi possibile. E così potranno assumere. Solo che, probabilmente, i nuovi assunti saranno assai pochi: la maggior parte dei nuovi contratti saranno sostitutivi, cioè trasformeranno rapporti di lavoro pre-esistenti più gravosi in quelli più convenienti introdotti dalla legge di stabilità. Tutte le agevolazioni fiscali di questi anni, le imprese non le hanno utilizzate per fare investimenti nell’economia reale, ma in quella finanziaria e speculativa o per arrotondare i loro profitti. CONTINUA |PAGINA II La rilettura La Prima Internazionale e i sindacati Il capitale è una forza sociale concentrata, mentre dal canto suo l’operaio non dispone che della sua forza riproduttiva individuale. Perciò il contratto tra capitale e lavoro non può mai venir stabilito su basi eque (…). Il solo potere sociale che possiedono gli operai è il loro numero. La forza del numero è annullata dalla disunione. Quest’ultima tra gli operai è prodotta e perpetuata dalla concorrenza inevitabile fra loro stessi. I sindacati originariamente sono nati dagli esperimenti spontanei degli operai per superare la suddetta concorrenza o per lo meno per attenuarla, per mutare i termini del contratto (…). L’oggetto immediato dei sindacati è tuttavia limitato alle necessità delle lotte quotidiane, ai mezzi per difendersi contro gli attacchi del capitale, alle questioni sala- Karl Marx riali e della durata del lavoro (…). I sindacati si sono occupati finora troppo esclusivamente di lotte locali immediate contro il capitale e non hanno avuto sufficiente consapevolezza del loro potere d’azione contro il sistema della schiavitù del salariato. Si sono perciò tenuti troppo lontani dal movimento generale sociale e politico (…). I sindacati devono oggi imparare ad agire coscientemente co- me centri organizzatori della classe operaia nel grande interesse della sua emancipazione totale. Devono appoggiare ogni movimento sociale e politico che proceda in tale direzione (Risoluzioni al Congresso di Ginevra dell’Associazione internazionale dei lavoratori, 1866, in «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!» a cura di Marcello Musto, Donzelli, 2014, pp.36-37) Torniamo al lavoro Grazia Naletto U n miliardo e 508 milioni di euro. È l’ammontare dell’evasione di contributi e premi assicurativi verificata da parte del ministero del Lavoro, Inps e Inail nel 2014 su 221.476 aziende ispezionate. Il 64,17% (più di una su due) sono risultate irregolari e dei 181.629 lavoratori impiegati in modo irregolare, il 42,61% (77.387) erano completamente in nero. I dati sono contenuti nel Rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale 2014. Il Jobs Act riuscirà davvero a migliorare le condizioni di chi oggi è fuori dal mercato del lavoro o è relegato nel suo segmento invisibile, sommerso e malpagato? E ammesso che alcune migliaia di disoccupati possano beneficiare della decontribuzione triennale prevista nella legge di stabilità per i neo-assunti nel 2015, cosa succederà loro quando i tre anni saranno finiti? Libertà di licenziare, demansionamento, mantenimento delle 45 tipologie contrattuali esistenti ed estensione del lavoro usa e getta sono ricette che rafforzano il potere delle imprese mettendo sotto scacco e gli uni contro gli altri i lavoratori. Chi afferma che questo è il prezzo per rilanciare l’economia e uscire dalla crisi, identificando nel costo del lavoro l’unica variabile dipendente per aumentare la produttività e la competitività del nostro paese, non sbaglia: compie un inganno. Consapevolmente. E lo fa perché assume come unico punto di vista quello delle imprese. E allora è utile ribaltare la prospettiva e riorientare lo sguardo, leggere non solo la crisi degli ultimi anni e le scelte dell’attuale Governo, ma anche le trasformazioni dei processi produttivi, del mondo del lavoro e delle politiche economiche dell’ultimo ventennio, attraverso gli effetti che hanno determinato e determinano sulla vita delle persone in carne e ossa. Servirebbe un Workers Act. Cambiare punto di vista significa innanzitutto fare i conti con un modello, quello neoliberista, che ha subordinato i diritti delle persone (occupate e non) a quelli delle imprese e ha ridotto progressivamente il ruolo di indirizzo dello Stato in ambito economico. Significa confrontarsi con modelli produttivi che grazie allo sviluppo tecnologico, alla deterritorializzazione e alla globalizzazione delle imprese consentono di precarizzare, frammentare e indebolire il lavoro. Significa avere il coraggio di constatare che, senza un forte intervento pubblico finalizzato a creare buona occupazione e una redistribuzione del lavoro che c’è, migliaia di persone sono destinate a rimanere escluse dal mercato del lavoro. Significa non rimuovere l’urgenza di garantire un reddito a chi nel mercato del lavoro non riesce ad entrarci o ne è uscito prima di aver maturato il diritto alla pensione. Significa infine comprendere a pieno il nesso stringente tra le contro-riforme del mercato del lavoro e della scuola, lo smantellamento del welfare e le riforme costituzionali. Sono collegati da un filo spinato comune: una svolta autoritaria che partendo dalla scuola e dal lavoro intende metterci sotto ricatto ed erodere qualsiasi processo di partecipazione. Il Jobs Act è approvato e produrrà i suoi effetti, ma le contraddizioni e i nodi lasciati irrisolti dalla mancanza di una strategia di lungo respiro, capace di scegliere come priorità il benessere sociale delle persone, restano. Da qui la scelta di Sbilanciamoci! di intrecciare conoscenze e competenze diverse per elaborare un Workers Act. Sarà pronto tra qualche settimana. Ci piacerebbe che fosse un’occasione per avviare un dibattito politico e culturale serio sul futuro del lavoro, ma soprattutto delle persone la cui vita è condizionata dal lavoro: perché ce l’hanno già o perché non lo hanno ancora. VENERDÌ 20 MARZO 2015 SBILANCIAMO L'EUROPA N°58 - PAGINA II Salari e innovazione per tornare a crescere È importante il ruolo della contrattazione nazionale, mentre l’Europa dovrebbe stimolare la domanda interna invece delle esportazioni Paolo Pini L a politica economica continua ad essere ancorata a vecchie ricette i cui pilastri sono l’austerità fiscale e la flessibilità del lavoro. Non solo si riducono dignità e diritti sociali del lavoro, ma si attua con pervicacia la svalutazione salariale che Commissione Europea e Bce impongono ai paesi europei sulla base della fallace idea che tutti debbano replicare, ad oltre più miopi e si trasformano in rentiers. L’Italia richiede certamente riforme di struttura, ma certo non quelle imposte dal pensiero ormai ordo-liberista che questa Europa germanica del rigore senza crescita ha fatto proprio con la crisi, contribuendo ad aggravarla. Queste si traducono sempre nella ricetta più privatizzazioni e più flessibilità, come se la competitività del paese fosse un problema risolvibile con meno regole e meno Stato, e più mercato. Il Jobs Act non muta questo quadro, anzi at- OCCORRE UNA POLITICA INDUSTRIALE PUBBLICA PER I SETTORI STRATEGICI, SIA PER QUELLI TRADIZIONALI E MATURI CHE PER QUELLI CONSIDERATI INNOVATIVI quindici anni di distanza, il modello mercantile germanico trainato dalle esportazioni, aggravando gli squilibri commerciali dentro l’Eurozona che sono con-causa della attuale crisi. Questa strategia, se aumenta la competitività di costo di breve periodo sui mercati esteri, produce la contrazione dei mercati interni. La compressione dei salari reali al di sotto della già debole crescita della produttività del lavoro mira a ridurre ancor più la quota del lavoro sul reddito e favorisce i profitti che però per carenza di domanda interna non vengono investiti per allargare la capacità produttiva, ma riversati nell’economia del debito alla ricerca di rendimenti speculativi. Gli animal spirits imprenditoriali di Keynes sono sempre tua una politica del lavoro che mira alla stagnazione dei salari nominali ed alla deflazione dei salari reali. Null’altro, il resto è solo rumore di fondo: gli outsider saranno sempre più esclusi e gli insider si trasformeranno in outsider. Non vi è traccia di alcuna politica industriale e dell’innovazione per la quale vi sarebbe necessità di investire risorse pubbliche significative. Recuperare una prospettiva di crescita di medio-lungo periodo richiede azioni integrate di politica economica sui sistemi industriali ed innovativi, per la centralità del lavoro e delle dinamiche retributive. Non mancano certo proposte per attivare un meccanismo virtuoso che inneschi e sostenga la crescita della produttività e delle retribuzioni. Questa politica consentireb- be di uscire dalla trappola ormai ventennale della stagnazione dell’economia italiana. Anzitutto, occorre una politica industriale pubblica per i settori strategici, sia quelli tradizionali e maturi, che per quelli nuovi ed innovativi. La determinazione della politica industriale implica decidere come e dove collocare la manifattura italiana nel mercato globale in termini di contenuto tecnologico, tipologie di produzioni, soddisfacimento della domanda; inoltre quali cambiamenti strutturali realizzare nel sistema economico, non solo in termini di crescita quantitativa della domanda, ma cambiamenti nella sua composizione e direzione di sviluppo. È noto che l’innovazione di prodotto ha un ampio effetto positivo sull’occupazione; lo stesso effetto non si presenta invece per l’innovazione di processo e per quella organizzativa. Tuttavia, l’innovazione di processo ed organizzativa ha un impatto forte sulle performance economiche delle imprese e sull’innovazione di prodotto stessa. L’Italia è in grave ritardo per innescare l’innovazione sia tecnologica che organizzativa in modo sinergico, focalizzata sui cambiamenti nell’organizzazione del lavoro a basata anche su modelli di partecipazione diretta ed indiretta dei lavoratori, nella manifattura e nei servizi. Un governo lungimirante e concreto che rifugge dai reiterati annunci dovrebbe sostenere l’innovazione organizzativa volta ad accrescere la partecipazione dei lavoratori nei processi decisionali delle imprese, accrescendo sia le responsabilità che l’autonomia dei livelli inferiori e riducendo i livelli gerarchici, incentivando pratiche di organizzazione del lavoro che favoriscono lo sviluppo e la crescita delle competenze dei lavoratori, percorsi di formazione ed accrescimento dei contenuti dell’attività lavorativa. Non vi è dubbio che l’obiettivo da perseguire attraverso la contrattazione sia macroeconomico, individuato nella crescita della produttività e nel recupero di competitività dell’apparato industriale nazionale; è il sistema nel suo complesso che deve intraprendere un circolo virtuoso. Ciò richiede due pilastri che ripristino le relazioni industriali come strumento di regolazione del mercato del lavoro e di redistribuzione del reddito: il contratto nazionale ed il contratto decentrato. Nell’ambito del sistema contrattuale su due livelli, quello centrale (nazionale e di settore) e quello decentrato (aziendale e territoriale), occorre anzitutto rafforzare il primo. La contrattazione nazionale e di settore non deve rinunciare a preservare il potere d’acquisto del salario, con meccanismi di tutela del salario rispetto alle dina- SERVIREBBE UN PIANO STRAORDINARIO PER CREARE OCCUPAZIONE NELLA LOTTA AL DISSESTO IDROGEOLOGICO, IN EDILIZIA SCOLASTICA E NELLE PICCOLE OPERE Un New Deal o il disastro Il governo Renzi non esce fuori dal dogma del mercato capace di autoregolarsi Senza politiche pubbliche la crisi non finisce DALLA PRIMA Giulio Marcon La realtà è che i governi occidentali di questi anni (e Renzi, oggi), rinunciano ad ogni politica pubblica attiva: non c’è una politica industriale, non c’è una politica degli investimenti pubblici (che in 20 anni si sono dimezzati), non c’è una politica del lavoro. Non c’è più una politica della domanda (di sostegno, programmazione, investimento), ma solo dell’offerta, dove - per quel che ci riguarda - non è più nemmeno offerta di lavoro, ma offerta di lavoratori alle condizioni più vantaggiose per le imprese. Nel frattempo gli ultimi dati Istat ci dicono che la situazione in Italia continua a peggiorare. E già questo dovrebbe indurre i governi ad un serio ripensamento delle politiche sin qui seguite. L’idea di lasciare al mercato la crea- zione di occupazione non funziona e non ha funzionato mai, se non per la produzione di posti di lavoro precari, effimeri, mal retribuiti, senza tutele. Ma quale sistema economico e produttivo può pensare di sopravvivere grazie ad una idea di lavoro così retriva e padronale? Altro che modernità, qui siamo al ritorno all’ottocento, anche se 2.0. Un lavoro senza qualità porta con sè una economia senza futuro. Senza un investimento nel lavoro (in termini di risorse, ma anche di formazione, di tutele, ecc.) non ci può essere alcuna economia di qualità, innovativa, capace di competere. Un’impresa che si serve del lavoro usa e getta, non ha speranze, è di bassa qualità, dura poco: non ’è più impresa, ma solo business di piccolo cabotaggio (anche se magari di grande ritorno affaristico). Servirebbe invece una politica pubblica per il lavoro: una sorta di piano straordinario del lavoro fondato sugli investimenti pubblici per creare occupazione nella risposta alle grandi emergenze nazionali (lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, piccole opere, ecc) e nelle frontiere delle nuo- ve produzioni della cosiddetta Green Economy (mobilità sostenibile, energie pulite, ecc.). Servirebbe uno Stato che fosse attivo -indirettamente, ma anche direttamente- nella creazione di posti di lavoro, attraverso un’agenzia nazionale come quella (la Works Progress Administration) che fu creata da Franklin Delano Roosevelt durante il New Deal. E servirebbero degli investimenti pazienti (che danno riscontro sul medio periodo) in settori fondamentali per creare buona economia e buona occupazione: nell’innovazione e nella ricerca, nel settore formativo ed educativo e nella coesione sociale. E poi, bisognerebbe riprendere un discorso che oggi può sembrare in controtendenza (sicuramente rispetto alle politiche neoliberiste), ma quanto mai attuale e necessario: la riduzione dell’orario di lavoro. Se il lavoro è poco, bisogna fare in modo che il lavoro sia redistribuito il più possibile. Lasciare milioni di persone nella disoccupazione e nell’inattività è economicamente sbagliato, moralmente disumano e socialmente ingiusto e pericoloso. miche dei prezzi. Inoltre, la crescita contrattata dei salari non può essere considerata componente residuale che nel tempo si annulla per lasciare sempre più spazio ad una ipotetica crescita a livello decentrato lasciata alla discrezione delle imprese. Il coordinamento delle politiche europee del lavoro dovrebbe perseguire la regola d’oro delle retribuzioni per sostenere una crescita trainata dalla domanda interna piuttosto che dalle esportazioni. In caso contrario, i processi di consolidamento fiscale continueranno a deprimere la domanda aggregata ed il mercato interno europeo e ad incrementare la disoccupazione, rendendo sempre più debole la dinamica salariale ed aggravando il circolo vizioso con la stagnazione della produttività. (la versione completa è pubblicata su www.sbilanciamoci.info) DECLINO Sulla produttività l’Italia è ferma agli anni Novanta Roberto Romano D obbiamo aumentare la produttività del lavoro? Sicuramente, come quella del capitale. Tra il 1992 e il 2012 la produttività del capitale è stata negativa dello 0,7, mentre quella del lavoro è positiva dello 0,8 (Ocse-Istat). Pochi altri paesi hanno registrato valori così negativi. Cosa si nasconde dietro la bassa produttività del capitale rispetto al lavoro? Tanto più l’innovazione impatta su lavoro o capitale, tanto più la produttività cambia segno. I liberisti misurano la produttività come un residuo (differenza) tra l’aumento del prodotto e l’aumento dei fattori produttivi facilmente osservabili. Da un lato abbiamo la produttività del lavoro calcolata come differenza tra crescita del Pil reale e le ore lavorate, dall’altra la produttività del capitale calcolata come differenza tra crescita del Pil reale e capitale impiegato. Nonostante l’evidente limite statistico del modello, la crescita del Pil dipende da troppi fattori che la funzione di produzione non considera, la bassa produttività del capitale italiano non è un fenomeno nuovo. Le imprese italiane investono in rapporto al Pil più della media europea e, nonostante questo rapporto, la crescita è molto contenuta. Se occorre una maggiore quota di capitale per ottenere la stessa produzione di altri paesi, per definizione il capitale è meno produttivo. La pubblicistica sostiene la necessità di aumentare la produttività del lavoro, ma le ore lavorate per addetto dell’Italia sono oltre la media europea. La debolezza del capitale industriale è attribuibile all’intensità tecnologica degli stessi. Mentre il rapporto ricerca e sviluppo/investimenti è cresciuto in tutti i paesi avanzati, l’Italia è rimasta ferma agli anni novanta. L’Italia ha una intensità tecnologica per investimento privato tra il 12-15%, la Germania è prossima al 60%, per non parlare della Finlandia che traguarda il 75%. Questa distanza cambia la produttività del lavoro e del capitale, con una differenza: la produttività del lavoro è direttamente proporzionale al come e al che cosa si produce, la produttività del capitale è direttamente proporzionale alla conoscenza incorporata e riflette la specializzazione produttiva. In altri termini, la produttività dell’Italia è bassa perché produciamo beni e servizi che necessitano di lavoro e capitale dequalificato. VENERDÌ 20 MARZO 2015 SBILANCIAMO L'EUROPA N°58 - PAGINA III Tutele crescenti, ma solo per i padroni L’UNICA COSA CHE CRESCERÀ È IL NUMERO DI DIPENDENTI ESCLUSI DALLA TUTELA DELL’ARTICOLO 18. IL PIANO GIOVANI DEL MINISTRO POLETTI SI È RIVELATO UN FLOP E I BUONI LAVORO SONO ORMAI UTILIZZATI QUASI IN OGNI SETTORE Reintegrazione solo in casi residuali, indennità legate all’anzianità, assunzioni a lungo termine scoraggiate. Cosa cambia con il Jobs Act Natalia Paci I l legislatore manca di rispetto ai cittadini quando usa in modo improprio le parole, illudendoli che le norme abbiano un significato diverso da quello che hanno effettivamente. Facciamo un esempio: il Contratto a tutele crescenti, in realtà, non è un contratto, né prevede tutele crescenti per i lavoratori. Si tratta, invece, di un’abrogazione camuffata dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Per la prima volta dal 1970, la tutela così detta forte contro il licenziamento illegittimo (consistente nel diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ingiustamente cessato e/o in un risarcimento del danno dignitoso, fino a 24 mensilità), non si applicherà più ai nuovi assunti a partire dal 7 marzo 2015. L’unica cosa che sarà, quindi, effettivamente crescente nel tempo è il numero di lavoratori esclusi dalla tutela dell’art. 18. Ma forse si intendevano «tutele crescenti per i datori di lavoro». Allora l’espressione è giusta. Con la novella, la reintegrazione nel posto di lavoro si potrà ottenere solo nei residuali casi di licenziamento orale, nullo o discriminatorio, sempre che si riesca a darne la difficile prova in giudizio. Negli altri casi si avrà diritto solo ad un’indennità che non sarà più «risarcitoria» (come invece prevede l’art. 18) in quanto non legata al danno subito dal lavoratore, ma semplicemente alla sua anzianità di servizio: due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio, con un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro mensilità (art. 3, comma 1). Per poter arrivare ad una somma di 24 mensilità, il lavoratore dovrà avere un’anzianità di servizio di almeno 12 anni. Ma sarà difficile arrivarci, visto che questo inedito legame del «costo di separazione» agli anni di servizio, più che incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, sembra scoraggiare l’investimento a lungo termine sui lavoratori. È probabile che la crisi del settimo anno contagi anche i rapporti di lavoro, oltre quelli amorosi. Peraltro, sarà più facile licenziare perché per rendere effettiva l’estinzione del rapporto di lavoro, grazie al Jobs Act (rectius, decreto legislativo n. 23/2015), basta imputare al lavoratore un fatto qualsiasi, purché sussistente, non importa se non così grave da giustificare un licenziamento. La riforma, infatti, preclude al giudice l’indagine sulla proporzionalità tra fatto commesso dal lavoratore e recesso del datore. E’ quindi possibile che si perda il posto di lavoro, ad esempio, per essere arrivati al lavoro in ritardo. Altra novità dal sapore ottocentesco è il venir meno della previsione (contenuta, invece, nell’art. 18) del diritto alla reintegra nel caso di illegittimo licenziamento del lavoratore in malattia o infortunio (senza superamento del periodo tutelato, così detto di comporto), con il rischio che, persino in questi casi, il licenziamento, seppure illegittimo, resti efficace. Il datore di lavoro che licenza ingiustamente viene, dalla riforma, persino premiato, come risulta dalla disposizione che concede allo stesso la possibilità di evitare il giudizio offrendo al lavoratore una somma non solo dimezzata nell’importo, ma anche depurata da oneri contributivi. Per consentire tale tutela del datore che licenzia ingiustamente si dovranno accantona- re importi crescenti negli anni (ecco le tutele crescenti!) di risorse pubbliche: 2 milioni di euro per l’anno 2015, 7,9 milioni di euro per l’anno 2016, 13,8 milioni di euro per l’anno 2017, 17,5 milioni di euro per l’anno 2018, 21,2 milioni di euro per l’anno 2019, 24,4 milioni di euro per l’anno 2020, 27,6 milioni di euro per l’anno 2021, 30,8 milioni di euro per l’anno 2022, 34,0 milioni di euro per l’anno 2023 e 37,2 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2024. Si noti, infine, che tali risorse verranno attinte da quelle riservate, tra l’altro, agli ammortizzatori sociali, ai servizi per il lavoro e le politiche attive. In altri termini, mentre i datori di lavoro scorretti vengono premiati, i lavoratori licenziati ingiustamente vengono penalizzati due volte: prima riducendone la tutela contro l’ingiusto licenziamento, poi riducendo la tutela per la consequenziale disoccupazione. In questo diritto del lavoro capovolto in cui il soggetto che il legislatore si preoccupa di tutelare non è più quello debole ma quello forte, in cui la libertà sindacale ed il controllo giudiziario, invece che garanzia di uguaglianza e democrazia vengono ridotti a fastidiosa limitazione della discrezionalità imprenditoriale, in cui a forza di ridurre le tutele dei lavoratori si è arrivati ad intaccare i diritti fondamentali, non resta che affidarsi alla Carta Costituzionale e a quell’art. 1 che ponendo il lavoro a fondamento della Repubblica italiana, ci ricorda che dal lavoro dovrebbero dipendere le politiche economiche e l’economia. E non viceversa. Nuove regole, così si trasforma il precariato Dai voucher agli stage pagati con ticket restaurant, ecco le nuove forme del lavoro temporaneo. E a volte totalmente gratuito Rachele Gonnelli D ue settimane sono un tempo assai breve, ma i primi segnali dell’applicazione del primo decreto attuativo del Jobs Act non sono promettenti, a dispetto degli annunci. I nuovi licenziamenti facili senza art. 18 hanno provocato come primissimo effetto un’ondata di licenziamenti collettivi in uno dei settori più fragili del mercato del lavoro, che già aveva un costo del lavoro più basso degli altri e un’occupazione temporanea più alta: nei call-cen- ter Almaviva sono stati messi a rischio 7 mila posti di lavoro per poterli sostituire con nuove assunzioni meno tutelate. Ora Tito Boeri, dal suo nuovo seggio dell’Inps, dice che 76 mila aziende hanno fatto domanda a febbraio di accedere alla decontribuzione per le nuove assunzioni. Con meno enfasi la Fondazione Consulenti del Lavoro fa notare che nell’80% dei casi si tratta di regolarizzazioni di collaborazioni a progetto, partite Iva e altra varia precarietà e solo nel restante 20% di nuove assunzioni. È da notare che fino ad agosto l’80% delle nuove assunzioni erano stipulate con contratti atipici e solo un 15% a tempo indeterminato. La differenza è che ora il 100% è escluso dalla tutela dell’art. 18. Che dire poi della coppia di giovani coniugi che a Cagliari, con il contratto unico fresco di firma, è corsa in banca a stipulare un mutuo per la casa dei sogni. Hanno bussato a 11 istituti di credito, tedeschi, italiani e olandesi, ma nessun direttore ha dato loro credito, nel vero senso della parola. Non hanno creduto, in assenza di ulteriori garanzie fideiussorie, alla stabilità del loro reddito. Può darsi che la tendenza sarà invertita, che arriveranno le assunzioni di Melfi a rimpolpare il numero dei nuovi occupati, ma di certo questi segnali non sono dovuti a intrinseca cattiveria. Per agevolare le assunzioni con quello che dallo scorso 7 marzo si propone come il nuovo contratto standard, il governo, tramite la legge di Stabilità, ha messo sul tavolo un pacchetto di decontribuzione che arriva ad un massimale di 8.060 euro a persona. Il bonus è alimentato anche dai 1,5 miliardi stanziati dal piano Youth Guarantee del Fondo sociale europeo, partito 10 mesi fa con valutazioni ottimistiche del ministro Poletti: avrebbe portato all’inserimento lavorativo di 900 mila giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano nel giro di 24 mesi. Secondo il centro studi Adapt fondato da Marco Biagi e diretto da Michele Tiraboschi, su un bacino potenziale di 2.254 mila giovani Neet, gli iscritti al piano sono soltanto 435.729. Il flop non si ferma qui. Solo il 48% degli iscritti ha ottenuto un primo colloquio di lavoro e solo l’8,1% ha avuto una qualche proposta di lavoro, spesso assolutamente generica e senza alcuna formazione o apprendistato. Del resto, per «avvicinare i giovani al lavoro», durante l’Expo si farà ampio ricorso a stage gratuiti o pagati con qualche ticket-restaurant. Per i non più tanto giovani e già specializzati invece si farà ampio uso di voucher, strumento che si delinea come nuovo salario d’ingresso. I buoni-lavoro, concepiti inizialmente come forma di emersione puntiforme del lavoro nero accessorio - baby-sittering e altri lavoretti - hanno avuto negli anni una progressione esponenziale. Non per perfida casualità ma perché il loro campo di applicazione è stato progressivamente esteso con 12 interventi regolativi in 11 anni di vita dello strumento. Ormai sono utilizzati in quasi ogni settore, dal turismo all’agricoltura stagionale, dalle aziende familiari alle imprese con fini di lucro e perfino nelle amministrazioni pubbliche e nei tribunali. Ogni ticket da 10 euro incorpora una minima contribuzione Inps e Inail e nelle indicazioni si riferisce a una paga oraria, ma il voucher è un pagamento a prestazione, perciò troppo spesso viene usato per pagare una attività giornaliera, non necessariamente di otto ore. Non prevede malattia o nessuna altra indennità, è una specie di gratta e vinci del lavoro, acquistabile e riscuotibile anche nelle tabaccherie autorizzate oltre che online grazie a una apposita carta Poste-pay. L’unico limite è il massimale, ampliato in tre anni da 3 mila a 5.060 euro e ora, nello schema di decreto attuativo, fino a 7 mila euro l’anno. La bozza di decreto vorrebbe renderlo più tracciabile, prevedendo la certificazione anagrafica e fiscale del lavoratore da parte dell’utilizzatore, senza ulteriori oneri incluso l’Irap, ed escluderne l’utilizzo negli appalti, dove si configurerebbe un dumping sociale, cioè concorrenza sleale, ma già c’è chi si oppone a queste regolamentazioni. Nel frattempo si sono perse le tracce del decreto che dovrebbe eliminare i cococo (sempre possibili tramite accordo aziendale) e sfoltire la giungla contrattuale di altre due tipologie, il job-sharing e il lavoro a somministrazione. Tra tagli all’Irap e decontribuzione fiscale pare manchino le coperture. Ora, se anche si avverassero le previsioni del ministero dell’Economia sugli effetti del Jobs Act, cioè circa 250 mila nuovi posti di lavoro standard l’anno per tre anni, è chiaro che sarebbe solo una goccia nel mare. In più, dal punto di vista di chi cerca un lavoro, dai tirocini gratuiti fino al punto d’arrivo del contratto unico a fantomatiche tutele crescenti, passando per i voucher, si vede solo una trappola infinita della precarietà legalizzata. VENERDÌ 20 MARZO 2015 SBILANCIAMO L'EUROPA N°58 - PAGINA IV Disoccupati e inattivi, problema irrisolto In Italia nove milioni di persone non lavorano, e con le misure in campo e la crescita prevista il futuro è di cattiva occupazione del lavoro: attualmente vi sono 3,4 milioni di working poor (0,8 tra gli autonomi), 2,5 milioni di lavoratori in part-time involontario (32% femminile), 65% dei nuovi contratti è a tempo determinato di cui il 46% registra una durata inferiore al mese. Se non si modificano le attuali istituzioni e politiche del lavoro, anche la prossima ge- CI SONO 3,5 MILIONI DI WORKING POOR E 2,5 MILIONI IN PART TIME INVOLONTARIO. VA RILANCIATO IL RUOLO DELLO STATO COME OCCUPATORE DI ULTIMA ISTANZA Claudio Gnesutta O ggi in Italia ci sono 3 milioni di disoccupati ufficiali; se ad essi si aggiungono i disoccupati parziali e gli inattivi disponibili si tratta di 9 milioni di persone: una situazione sociale drammatica che il Jobs Act non affronta. La sua filosofia di aumentare i posti di lavoro facilitando i licenziamenti e sussidiando le imprese a espandere i contratti a tempo determinato non è una soluzione. Ba- sti pensare che il Cnel stima che con una crescita annua dell’occupazione dell’1,1% (scenario ritenuto ottimista) solo nel 2020 il tasso di disoccupazione si riporterebbe alla situazione pre-crisi (e a 1,8 milioni di disoccupati). Ma una tale situazione richiederebbe una crescita media della produzione del 2% e non è facile trovare qualcuno – anche con l’aria nuova di Cernobbio – disposto a scommetterci. A condizioni sostanzialmente inalterate di disoccupazione si accompagnerebbero condizioni di precarietà Vent’anni di precarietà Dalla flexsecurity danese al Jobs Act, il lavoro è diventato atipico e l’occupazione è cresciuta Leopoldo Nasciai D agli anni novanta i governi sia di centrodestra sia di centrosinistra hanno introdotto diversi cambiamenti nel mercato del lavoro: riforma delle pensioni, pacchetto Treu, legge Biagi, legge Fornero e Jobs act sono i principali interventi che, con ottica bipartisan, hanno cambiato il mondo del lavoro. Utilizzando i dati Istat, si nota come l’occupazione - che include i dipendenti a tempo indeterminato, a tempo determinato, gli interinali e i datori di lavoro che partecipano attivamente nell’impresa ma esclude il lavoro atipico sia cambiata molto nel tempo. Le oltre 21,5 milioni di posizioni lavorative del 1990, nel 2014 aumentano di circa un milione di unità, con un incremento complessivo di appena cinque punti percentuali. Il tasso di occupazione negli anni resta costante, registrando una variazione massima nel 2008 (58,6%) rispetto al 1990 (54,9%), mentre nel 2014 registra un aumento di un solo punto percentuale (56%). La maggior presenza di donne e immigrati sono stati i due elementi di novità. I dati mostrano una crescita sostenuta delle donne occupate con un incremento complessivo di oltre venti punti percentuali fra il 2014 e il 1990. Invece gli occupati extracomunitari fra il 2004 e il 2014 passano da 965mila a oltre 2,3 milioni. Il tasso di disoccupazione possiede un andamento discontinuo accelerando nei primi anni novanta fino al picco dell’11,3% nel 1990. Da allora la disoccupazione si riduce fino al 2008 (6,1%) per poi tornare in crescita con la recessione e le politiche di austerità che la riportano stabilmente al di so- pra del 10% con oltre 1,6 milione di persone in cerca di lavoro. In pochi anni la disoccupazione torna ai valori dei primi anni novanta, ma con un’occupazione più precaria e con minori garanzie. I contratti di lavoro dipendente a tempo determinato, liberalizzati dal secondo governo Berlusconi e i contratti interinali, prendono piede assai rapidamente e nell’arco di dieci anni crescono costantemente fino a raggiungere nel 2014 un livello assai maggiore rispetto al 2004 (+56%). Al contrario i contratti a tempo indeterminato registrano in dieci anni un incremento assai minore, pari all’8%. L’occupazione negli anni non premia né il Mezzogiorno né i giovani. Dal 1990 gli occupati nel Sud si riducono fino a scendere nel 2014 dell’8%. Le donne nel Sud aumentano la loro partecipazione ma con miglioramenti inferiori alla media nazionale: registrano un picco nel 2012 (+19% rispetto al 1990), che poi nel 2014 si ridimensiona al 12%. Gli occupati, con età compresa fra i 15 e i 24 anni, diminuiscono ogni anno e nel 2014, il loro livello di occupazione si è ridotto di oltre due terzi rispetto al 1990: i quasi 3 milioni di giovani occupati nel novanta diventano appena un milione nel 2014. Anche se i più giovani con gli anni si riducono di numero per la dinamica demografica il mercato del lavoro riesce ad assorbirne sempre pochi tanto che il tasso di disoccupazione per i lavoratori fra i 15 e i 24 anni , pari al 27% nel 1990, pur subendo qualche riduzio- nerazione vivrà una situazione di eccesso di offerta di lavoro che estenderà la precarietà alla maggioranza della popolazione attiva. Il futuro di scarsa e cattiva occupazione è il prodotto di un mercato del lavoro che opera come meccanismo di ingiustizia e di immiserimento sociale. Non c’era certamente bisogno di un Jobs Act che volutamente consegna le vite dei lavoratori alle scelte socialmente regressive delle imprese. Vi è invece l’esigenza che di garantire a tutti un’attività (sia essa dipendente ne fino al 2008 tocca picchi maggiori del 40% tra il 2013 e il 2014. Il fenomeno di meno occupati, meno disoccupati e maggior tasso di disoccupazione fra i giovani si spiega anche per il diffondersi del fenomeno dei Neet oltre all’affermarsi di forme di lavoro atipiche non contabilizzate negli indicatori tradizionali. Oltre 1,4 milioni di giovani fra i 15 e i 24 anni e 3,7 milioni fra i 15 e i 34 anni nel 2014 hanno scelto di rimanere fuori dal mercato del lavoro e dal circuito della formazione e dell’istruzione. La flessibilità non sembra in grado di attrarli e farli tornare attivi: fra il 2004 e il 2014, i numeri ufficiali evidenziano un incremento del 41% dei Neet con 15-24 anni e del 24% per quelli con 15 e i 34 anni. Degli oltre 1,2 milioni di collaboratori attivi nel 2013, circa 600 mila non possiedono caratteristiche professionali definite, mentre gli altri in gran parte appartengono agli amministratori di società, e in misura minore a categorie specifiche quali i dottorandi e i medici specializzandi. Circa 80 mila giovani fra i 18 e i 24 anni svolgono collaborazioni nel 2013, assieme ad oltre 200 mila ultrasessantenni. Il mondo del lavoro atipico passa trasversalmente fra le generazioni, facilitando il ritorno nel mondo del lavoro dei pensiona- TUTTO È COMINCIATO CON IL PACCHETTO TREU. POI LA LEGGE BIAGI E COSÌ VIA FINO A OGGI. NEL SEGNO DEL BIPARTISAN ti e creando sacche di precariato fra i giovani. Degli oltre 179 mila collaboratori esclusivi che erano attivi nel 2000, solo il 36% dopo tredici anni ha raggiunto un contratto a tempo indeterminato, mentre la maggior parte è uscita dal mondo del lavoro. Ad oggi tutte le promesse delle riforme del lavoro non sono state mantenute, dalla flexicurity, mai realizzata dal ministro Fornero, ai sussidi universali, ventilati a inizio legislatura e oggi sepolti fra le carte del Parlamento. La riforma del Jobs act non sembra far altro che precarizzare tutti sferrando un nuovo colpo ai diritti dei lavoratori, in attesa della prossima miracolosa riforma. o indipendente) che assicuri una prospettiva di lavoro e di vita dignitosa. È in questa direzione che Sbilanciamoci! ritiene necessario proporre un terreno di confronto per elaborare un Workers Act, un progetto di politica per il lavoro, che si articoli lungo tre assi: attivazione di lavori concreti, riduzione dell’orario di lavoro, un welfare universalistico per il lavoro (dipendente e non). In primo luogo, va rilanciato il ruolo dello Stato (e degli enti pubblici) come occupatore di ultima istanza (Piani del lavoro, ma anche Servizio civile nazionale) finalizzando gli aumenti occupazionali alla creazione di valori socialmente utili. Inoltre occorre intervenire sugli orari di lavoro poiché - data l’attuale dimensione della disoccupazione, inoccupazione, sottoccupazione – è possibile ampliare i posti di lavoro solo riducendo il tempo medio di lavoro. Per garantire livelli adeguati di reddito a chi lavora a orari più ridotti occorre ristrutturare l’imposizione fiscale e previdenziale alleggerendola drasticamente su contratti più brevi e accentuandola su quelli prolungati. Ma anche così è difficile garantire all’intera popolazione attiva, in particolare a chi svolge un’attività autonoma, la disponibilità di un reddito. Occorre, terzo punto, ridefinire il sistema di welfare attorno a una forma di reddito minimo che, fungendo da salario di riserva, contrasti la pressione al ridimensionamento salariale. Si tratta di pensare a una misu- ra, universale e incondizionata, che sia un punto di riferimento per il riassetto delle altre forme esistenti di sostegno del reddito. Sono temi che richiedono una riflessione impegnativa, ma non tanto per i molti e importanti aspetti tecnici che si pongono: a questo livello, le capacità, le competenze e le intelligenze sono ampiamente disponibili. Quello che importa è la convinzione che questa prospettiva possa costituire il fondamento della politica economica. A nessuno sfugge infatti che, per realizzare una tale politica per il lavoro, siano necessari opportuni indirizzi di politica industriale per rafforzare e riorientare la crescita produttiva; che si richieda una politica fiscale che ne garantisca l’opportuno finanziamento e una amministrazione pubblica efficiente in grado di controllare e gestire l’intero processo. Si deve peraltro avere consapevolezza delle difficoltà che incontra una tale riflessione nell’attuale situazione culturale caratterizzata da una subordinazione al pensiero dominante che impedisce di pensare a qualcosa di diverso rispetto alla manutenzione dell’esistente. Ma, a fronte di una tendenza strutturale che prospetta un futuro difficile per i lavoratori, è doveroso impegnarsi nel costruire un’alternativa altrettanto strutturale, con la consapevolezza che la soluzione non è dietro all’angolo, ma che è importante scegliere l’angolo sul quale svoltare. il manifesto VENERDÌ 20 MARZO 2015 « pagina 7 ITALIA Alla giornata della «Memoria» attese 150 mila persone. In piazza anche i familiari delle oltre 15 mila persone uccise dalla mafia Giuseppe de Marzo D omani a Bologna più di 150 mila persone sfileranno per le vie della città per chiedere verità e giustizia per le vittime innocenti delle mafie. Saranno presenti più di 600 familiari in rappresentanza di un coordinamento di oltre 15 mila persone che hanno perso un loro caro per mano della violenza mafiosa. Anche quest’anno il 21 marzo, nel primo giorno di Primavera, Libera promuove insieme con Avviso pubblico la ventesima edizione della «Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia», per ricordare e rinnovare l’impegno nella lotta contro la criminalità organizzata, ma non solo. Alla manifestazione, che partirà alle 9.30 nella zona antistante lo stadio Dall’Ara e si concluderà a Piazza VIII agosto con la lettura dei nomi, parteciperanno anche i familiari di vittime provenienti dal Messico, dall’Argentina, dalla Bosnia. Così come saranno ricordate, nel loro 35esimo anniversario, le vittime della strage del 2 agosto della stazione di Bologna e di Ustica, quelle del brutale genocidio di Srebrenica, che ricorre proprio il 20 marzo e le vittime della banda della Uno bianca e del rapido 904. «La verità illumina la giustizia» è il tema che abbiamo scelto quest’anno. Il nostro è un paese di stragi impunite dove ancora troppe persone attendono verità e giustizia. Ed è un paese in cui troppe persone muoiono per difendere la democrazia ed a causa dei suoi vuoti. All’ombra di un potere solo formalmente democratico, che in nome delle «ragioni di Sta- UNA MANIFESTAZIONE DI LIBERA/ FOTO SINTESI SOTTO LA FIAT DI POMIGLIANO/ FOTO LA PRESSE LIBERA · Domani giornata nazionale a Bologna: «Verità e giustizia per le vittime della criminalità». Contro le mafie, per i diritti to» ha spesso cancellato i confini della democrazia rendendo lecito l’illecito, sono cresciuti molti dei mali del nostro paese. L’opacità del potere ha spesso trovato nel grigiore delle coscienze un grande alleato. Le mafie trovano nella corruzione e nella mafiosità diffusa le leve attraverso le quali perpetrare i loro affari criminali e non, mentre avvelenano l’anima di un paese in cui la crisi rafforza ulteriormente la ricattabilità dei cittadini costretti a vivere e spesso a sopravvivere in mezzo a mille difficoltà. L’aumento delle diseguaglianze è la causa che produce la crisi, alla quale le politiche di austerità hanno dato un ulteriore spinta negativa nel corso di questi 7 lunghissimi anni di impoverimento economico, sociale e culturale. È questo un altro elemento sul quale ci siamo presi le nostre responsabilità e sul quale siamo impegnati nel corso di questi ultimi anni. C’è evi- METALMECCANICI/ DIBATTITO UNITARIO CON LANDINI La svolta Uilm: «Sul contratto serve recuperare anche la Fiom» Massimo Franchi P rove tecniche di riavvicinamento metalmeccanico. Riunire in un dibattito pubblico i tre segretari generali di Fim, Fiom e Uilm è l’impresa che è riuscita ieri mattina ad Antonello Di Mario, responsabile dell’ufficio stampa Uilm, per la presentazione del suo libro "Aspettando la crescita". I tre coinquilini di Corso Trieste 36 sono in litigio perenne dal lontano giugno 2010, quando un appena eletto Maurizio Landini disse "No" al ricatto dell’allora Fiat. A cinque anni di distanza proprio a giugno è tempo di piattaforma (o le piattaforme) per il rinnovo del contratto nazionale di categoria che scade a fine anno. «Dal 2001 la Fiom - come ha sottolineato il neo segretario generale della Fim Cisl Marco Bentivogli - ha firmato solo due contratti, nel 2005 e 2008». La novità però sta proprio nella posizione della Uilm guidata da Rocco Palombella: «Se tre anni fa è stato importante mettere da parte la Fiom sennò niente contratto nazionale, ora è importante mettere assieme anche la Fiom perché Confindustria dice: "Non si rinnova il contratto senza certificazione" per avere esigibilità del contratto. Senza contratto avremmo una situazione terribile, sarebbe il declino della rappresentanza, una posta in gioco troppo alta. Per questo - continua Polombella - ho smosso le acque per vedere se ci sono le condizioni per presentare non dico una piattaforma unitaria, ma almeno piattaforme convergenti, partendo da un’autocritica su ciò che abbiamo fatto in questi anni: pensare più a noi che ai lavoratori». Una vera svolta. Che ha messo per prima in difficoltà la stessa Cisl. Che lo stesso Palombella ha chiamato indirettamente in causa: «L’alternativa è la proposta di Confindustria di un anno di moratoria contrattuale che ha già una sponda confederale. E se la cosa passa tra noi metalmeccanici, la crisi della contrattazione si irrora poi in tutte le categorie». Bentivogli prova a parare il colpo attaccando «il falso totem dell’unità sindacale: i contratti unitari non sono stati i migliori che abbiamo firmato. Serve dunque una piattaforma per firmare il contratto perché il risultato per i lavoratori è negli aumenti in busta paga, no a piattaforme velleitarie, a scioperi gloriosi ma inconcludenti». La Fiom si trova dunque nella posizione - impensabile fino a pochi mesi fa - di poter giocare le proprie carte per un puntare a un rinnovo unitario. E Landini coglie l’occasione: «È una fase inedita per tanti motivi. E c’è la necessità di vedere se ci sono le condizioni per unirsi. Colgo il fatto che è iniziato un confronto. Io non chiederò a voi di cancellare il contratto nazionale che voi avete firmato, ma voi non ci potete chiedere di riconoscerlo o firmarlo. Il problema è vedere quello che ci può unire e cercare di costruire piattaforme convergenti che guardino al merito dei problemi». Anche qui Landini punta ad allargare il campo: «Sugli aumenti salariali io dico che dovremmo chiedere alle imprese i soldi che hanno avuto dal governo sotto forma di sgravi Irap e per le assunzioni, mentre sugli orari possiamo anche lavorare il sabato e la domenica, ma l’orario va ridotto e redistribuito per allargare l’occupazione», strappando l’applauso della platea Uilm. A dividere però è ancora la Fiat. O meglio: il modello Fiat. «Le imprese e il governo - intima Landini - vogliono fare come Marchionne, lasciare tutto alla contrattazione aziendale. E allora io dico che se vogliamo riconquistare il contratto bisogna smetterla con le caricature - battibeccando con Bentivogli che lo accusa di «legami stretti con troppi partiti» - e ripartire dagli accordi unitari positivi che abbiamo fatto in questi anni, come quello sull’elezione degli Rls proprio in Fiat». La replica di Bentivogli è però gelida: «Ma se a Mantova quell’accordo è già stato disconosciuto dai tuoi. La Fiom deve riconoscere i contratti come ha fatto con il testo unico». L’ostacolo infatti sta proprio qui: quell’accordo - inizialmente avversato dalla Fiom - demanda alle categorie la scelta della validazione: voto delle Rsu o di tutti i lavoratori? Qui le posizioni sono opposte. «Ma il nodo si potrà affrontare dopo la presentazione della piattaforma», chiude l’ecumenico Palombella. dentemente un nesso tra mafia e miseria. Quando la disoccupazione giovanile al sud va oltre il 60%, quando la dispersione scolastica nel nostro paese diventa la più alta d’Europa (17,6% contro il 13,2%), quando la povertà minorile arriva ad essere la più alta del continente (1.423.000 di minori in povertà), quando la precarietà e la disoccupazione arrivano a coinvolgere milioni di cittadini, quando si taglia il welfare, quando si tagliano i fondi per gli enti locali, quando molti dei diritti sociali vengono messi in discussione, è evidente che le mafie e la corruzione si rafforzano. Lo abbiamo detto spesso che se le mafie sono così forti è anche perché glielo abbiamo permesso. Aver promosso la campagna Miseria Ladra insieme al Gruppo Abele, con il sostegno fondamentale di oltre 1300 realtà del sociale e del volontariato laico e cattolico, è stata ed è la nostra risposta alla crisi ed all’intreccio tra mafia e povertà (www.miseriala- dra.it). Ma non basta. Responsabilità ed impegno sono le strade che abbiamo scelto di seguire, rifiutando tentazioni e scorciatoie che mettono spesso insieme in questa fase nuova populismi e trasformismi. Per questo abbiamo un grande bisogno di luce e di verità. Se viviamo una crisi culturale che ha messo in discussione l’etica individuale e collettiva, il nostro impegno va alla costruzione di un «noi» capace di rigenerare un pensiero collettivo ancorato ai valori della Costituzione. A partire da quel «super valore» che ha declinato tutto gli altri: la dignità umana. È questo il lascito del costituzionalismo del ‘900, in risposta alla brutalità della guerra mondiale e alla miseria. Il raggiungimento e riconoscimento della intangibilità della dignità umana sono il fine ultimo delle ragioni della Carta costituzionale. I diritti sono lo strumento per renderla prescrittibile e per garantire la giustizia sociale, che oggi come ieri rappre- senta la precondizione per sconfiggere le mafie. Ed è proprio per garantire la dignità in un momento in cui le scelte politiche sono orientate su altre priorità che abbiamo indicato al primo punto del nostro manifesto di Contromafie la richiesta di istituire il Reddito di Cittadinanza o Minimo. Per dare seguito al nostro impegno ci siamo assunti la responsabilità lo scorso 13 marzo di lanciare la campagna per il Reddito di Dignità (www.campagnareddito.eu). La proposta del reddito di dignità, così come le altre frutto della discussione generata nei nostri movimenti e realtà sociali con il manifesto di Contromafie, saranno affrontate nei 18 seminari che il 21 marzo nel pomeriggio dalle 14:30 Nel pomeriggio seminari e raccolta di firme per reddito minimo o di cittadinanza alle 17:00, si terranno nel centro di Bologna (www.memoriaeimpegno.it). Vogliamo, insieme a tutte quelle realtà da prima di noi impegnate sul tema, raccogliere un milione di firme per chiedere che alla fine dei 100 giorni della campagna venga calendarizzata e discussa in Parlamento un legge per istituire il reddito di cittadinanza, così come previsto in tutti i paesi europei con la sola esclusione del nostro paese, della Grecia e della Bulgaria. Una misura urgente e necessaria per contrastare diseguaglianze e mafie. * Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie FINCANTIERI · A Riva Trigoso e Muggiano i lavoratori protestano unitariamente Scioperi spontanei contro i microchip Scioperi spontanei contro i microchip negli scarponi per controllare i lavoratori e la richiesta di oltre 100 ore di straordinario non retribuito. Nei tanti siti Fincantieri sparsi sulla penisola la tensione è al massimo. La trattativa per il rinnovo del contratto integrativo aziendale è vicina alla rottura. L’azienda guidata dall’inossidabile boiardo di Stato Giuseppe Bono - uno che per lunghezza di mandato confermato dai vari governi farebbe impallidire anche Ercole Incalza, è amministratore delegato del gruppo da 13 ben anni - continua a chiedere flessibilità esasperata, tagli salariali, esternalizzazioni delle attività di scafo per quanto riguarda Riva Triogoso e la separazione del comparto della meccanica dal resto del cantiere. E proprio da Riva Trigoso (Genova) è scattato lo sciopero spontaneo dei lavoratori, poi appoggiato unitariamente da Fim, Fiom e Uilm. Quelle che dovevano essere due ore di sciopero per turno di lavoro, con blocco delle portinerie, si sono trasformate in sciopero ad oltranza. La direzione, secondo i sindacati, propone «esternalizzazioni delle attività di scafo e la separazione del comparto della meccanica dal resto del cantiere». «Ci chiedono anche di regalare 104 ore di lavoro per le ex festività o di lavorare gra- tis per mezz'ora ogni giorno, microchips posizionati nelle scarpe da lavoro», dice Sergio Ghio della Fiom. Lo sciopero coinvolge gli 800 dipendenti e i 500 addetti delle ditte esterne. «La Rsu ha deciso di proseguire la lotta impedendo l’entrata ed uscita delle merci dal cantiere proclamando una protesta a oltranza». Poco dopo la protesta è arrivata anche alla vicina Muggiano (La Spezia). E oggi in entrambi i siti lo scio- Ma i sindacati sono divisi. Piattaforme e assemblee separate «Si preparano a firmare la consegna all’impresa» pero sarà ripetuto. Probabile che poi la protesta si estenda anche ad Ancona, Castellammare, Marghera, Monfalcone, Sestri Ponente. La trattativa va avanti da mesi. Ed è partita con la presentazione di piattaforme separate. Da una parte Fim e Uilm, dall’altra la Fiom. Martedì la quasi rottura. Con la Fiom che ha tentato, senza successo, di ricomporre lo strappo. In una lettera il responsabile Fiom Bruno Papignani ha chiesto agli altri sindacati « di indiredue ore di assemblea, un pacchetto di 12 ore di sciopero e di sottoporre eventuali ipotesi di accordo al voto vincolante dei lavoratori in tutti i cantieri tramite referendum a voto segreto». Ma Fim e Uilm hanno risposto picche. «In tutta Italia abbiamo proclamato 4 ore di sciopero e assemblee - spiega Michele Zanocco della Fim - . Non siamo nella condizione di dover riaprire un tavolo visto che 13 e 14 aprile ci rivediamo con l’azienda. Le distanze sono abissali sull’aumento orario di 104 ore non retribuiti, ma la Fiom sta prendendo a pretesto cose smentite da azienda o regolate dalla legge come i microchip negli scarponi o la riduzione dei permessi per la legge 104 (assenze per cura dei familiari, Ndr) dove invece è stato chiesto semplicemente se fosse possibile stabilire giorni di utilizzo, sotto forma di auspicio e basta. Le assemblee? Le Fiom le ha già fatte da sole. Il problema è che dal primo di aprile con la disdetta dell’integrativo precedente i lavoratori potrebbro trovarsi 3500 euro annui di monte salare in meno», chiude Zanocco. «Ho paura che la strategia di Fim e Uilm sia solo un modo per ottenere qualche risultato finto, mentre il documento in generale consegna il sindacato e i lavoratori all’impresa», ribatte Papignani. m. fr. pagina 8 il manifesto VENERDÌ 20 MARZO 2015 INTERNAZIONALE USA/ISRAELE · La Casa Bianca risponde alla vittoria di «Bibi»: pronti all’appoggio a risoluzione Onu sui confini del ’67 Obama: «Ora avanti con i due Stati» NELLA FOTO NETANYAHU PARLA, ALLE SUE SPALLE LE COLONIE. A DESTRA JATSENIUK, PREMIER UCRAINO, SOTTO MADURO LAPRESSE +Michele Giorgio GERUSALEMME Q ualcuno forse ha riferito a Benyamin Netanyahu delle congratulazioni che gli ha fatto il senatore italiano Maurizio Gasparri che ha salutato la sua vittoria come una umiliazione per Barack Obama «il peggior presidente della recente storia americana». Obama, ha notato l’arguto Gasparri, che sino a qual- Washington valuta tutte le opzioni, per rispondere al rifiuto di Netanyahu che giorno fa non aveva mai fatto sfoggio di una conoscenza tanto approfondita della politica internazionale, «ha interferito nella vita interna di Israele ed è stato respinto». In verità dubitiamo che Netanyahu abbia cognizione dell’esistenza di Gasparri. Sa invece che il «peggior presidente» si prepara a regolare qualche conto in sospeso con lui. Anche perché non ha ancora digerito il discorso che Netanyahu ha pronunciato il 3 marzo a Washington di fronte al Congresso per ostacolare l’accordo che gli Usa stanno negoziando sul programma nucleare iraniano. Naturalmente non sono in vista passi che potrebbero mettere in forse l’alleanza strategica tra i due Paesi. E nessuno dimentica che, nonostante le umiliazioni che Netanyahu gli ha inflitto in questi anni, Obama ha comunque protetto gli interessi di Israele ovunque, anche al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite silurando, solo per fare un esempio recente, la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina. La Casa Bianca due giorni fa ha fatto sapere che «valuterà la strada da seguire per portare avanti il processo di pace in Medio Oriente, ma si va avanti con la soluzione dei due Stati», in risposta alle dichiarazioni del primo ministro israeliano che alla vigilia del voto è stato chiaro: finché ci sarà lui non nascerà alcuno Stato palestinese e ogni mezzo sarà lecito per bloccare il programma nucleare dell’Iran (anche la guerra). Netanyahu ieri ha corretto in parte, in un’intervista a Msnbc, le sue promesse elettorali affermando «di non volere una soluzione con uno Stato...voglio una soluzione con due Stati pacifica e sostenibile, ma per questo le circostanze devono cambia- re». Parole che non devono aver fatto piacere ai partiti dell’ultradestra che ritengono di essersi sacrificati in nome della vittoria elettorale di Netanyahu cedendo consensi e seggi al Likud e che ora vedono il primo ministro farsi più vago sulla questione dello Stato palestinese. Arutz 7, l’agenzia di informazione dei coloni israeliani, parla di «punizione» che attende il primo ministro, in riferimento a quanto scritto dal New York Times, che cita una fonte anonima della Casa Bianca, su una presunta intenzione dell’Amministrazione Obama di dare il suo appog- gio a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza per i «Due Stati», basata sui confini del 1967, quelli precedenti l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. «Le premesse della nostra posizione a livello internazionale - ha detto la fonte spiegando l’opposizione a fine 2014 alla risoluzione sullo Stato di Palestina all’Onu è stata quella di sostenere negoziati diretti tra israeliani e palestinesi». «Ora invece - ha aggiunto siamo in una realtà in cui il governo israeliano non è più a favore di negoziati diretti». Interessanti anche i commenti giunti dalla portavoce del Dipartimento di Stato Jen Psaki. «Le recenti dichiarazioni del premier (israeliano) mettono in dubbio il suo impegno per una soluzione a Due Stati... ma questo non significa che abbiamo preso la decisione di cambiare la nostra posizione rispetto alle Nazioni Unite». Per alcuni è sufficiente solo il riferimento al veto Usa sulla Palestina al Consiglio di Sicurezza per indicare che a Washington si stanno valutando tutte le opzioni, nessuna esclusa, per rispondere al rifiuto di Netanyahu della soluzione dei Due Stati. Tra gli analisti israeliani si tende, per ora, a ridimensionare l’importanza dei passi che potrebbe muovere la Casa Bianca in risposta alla posizioni espresse da Netanyahu in campagna elettorale. «La tensione tra Netanyahu e Obama esiste da anni ed è salita ancora di più da quando il primo ministro ha parlato al Congresso. Tuttavia mi riesce difficile immaginare che gli Stati uniti arrivino a modificare totalmente le loro posizioni sul conflitto israelo-palestinese al punto da sostenere una proclamazione unilaterale dello Stato di Palestina», ci ha detto ieri Oded Eran, analista dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale di Tel Aviv. Ciò non toglie, ha aggiunto Eran, che si faranno persino più difficili le relazioni tra Obama e Netanyahu negli ultimi due anni di mandato del presidente americano. Di recente, peraltro, è stato nominato coordinatore della politica della Casa Bianca in Medio Oriente, Nord Africa e la regione del Golfo, proprio Robert Malley, un esperto statunitense di Vicino Oriente preso di mira qualche anno fa da Israele per i suoi contatti con Hamas e per le sue critiche alla politica di Tel Aviv. Gli Usa con ogni probabilità faranno conoscere meglio le loro reali intenzioni dopo la formazione del governo al quale sta lavorando il premier che tra qualche giorno riceverà l’incarico dal capo dello stato Rivlin. Nel frattempo lo scrutinio degli ultimi 200 mila voti rimasti in sospeso, quelli di soldati, diplomatici e di altri israeliani che risiedono all’estero, ha reso ancora più netta la vittoria del Likud di Netanyahu, che è salito da 29 a 30 seggi e danneggiato la Lista Araba Unita passata da 14 a 13 seggi (resta comunque il terzo gruppo alla Knesset), La lista Campo Sionista, avversaria principale del Likud, è ferma a 24 seggi mentre a sinistra ottiene un deputato in più il Meretz, passato da 4 a 5 seggi. VENEZUELA · La diplomazia di pace dell’America latina si mobilita contro il decreto Obama L’Alba fronteggia gli Stati uniti Geraldina Colotti L’ Alleanza bolivariana per i popoli della Nostra America (Alba) ha respinto compatta le sanzioni degli Usa contro il Venezuela. Il documento finale, prodotto dal vertice straordinario che si è tenuto a Caracas, ha esplicitato le ragioni del sostegno al governo di Nicolas Maduro, definito da Obama «una minaccia straordinaria alla sicurezza degli Stati uniti». L’Alba chiede agli Usa di «astenersi» dall’intervenire negli affari interni degli altri paesi, e invita Obama a riannodare il dialogo. Per questo, propone un «gruppo di facilitatori del nostro emisfero e delle sue istituzioni (Celac, Unasur, Alba-Tcp e Caricom) per alleviare le tensioni e garantire una risoluzione amichevole». Un gruppo subito operativo, coordinato dal ministro degli Esteri ecuadoriano Ricardo Patiño. I presidenti dell’Alba (Cuba, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Nicaragua, Dominica, Granada, San Cristobal e Nieves, Saint Vincent e Grenadine, Antigua e Barbuda, Suriname e Santa Lucia) ribadiscono il loro fermo appoggio al Venezuela bolivariano «che non costituisce una minaccia per nessun paese, ma è una nazione solidale che ha dimostrato la sua volontà di cooperazione con i popoli e i governi di tutta la regione, e rappresenta una garanzia per la pace sociale e la stabilità del nostro continente». L’Alba denuncia anche la «feroce campagna mediatica internazionale» tesa a screditare la rivoluzione bolivariana, con l’obiettivo di «creare le condizioni per un intervento sempre più marcato e lontano dalla soluzione pacifica dei contenziosi». Una campagna che si inserisce nel più generale attacco dei poteri forti contro l’intero campo progressista del Latinoamerica, per cui il blocco regionale esprime il proprio appoggio anche al Brasile di Dilma Rousseff e all’Argentina di Cristina Kirchner. «l’America latina e i Caraibi - dice il documento - sono Zona di pace, uno spazio in cui le nazioni promuovono processi di integrazione e Il blocco regionale sostiene il governo Maduro e crea un gruppo di mediatori Oggi, un twit mondiale relazioni di amicizia, con l’obbiettivo di perseguire ulteriormente la massima felicità possibile dei nostri popoli» come auspicato dal Libertador Simon Bolivar. L’Alba chiama perciò alla mobilitazione «i movimenti sociali, operai, studenti, contadini, indigeni, donne» affinché spieghino «al mondo e ai popoli della Nostra America che il Venezuela e il governo legittimamente eletto del presidente Nicolas Maduro non sono soli e che una nuova aggressione imperiale avrebbe conseguenze nefaste per la stabilità della regione». Gli Stati uniti - ha affermato in quella sede il presidente cubano Raul Castro - «devono capire che è impossibile sedurre o comprare Cuba o intimidire il Venezuela. La nostra unità è indistruttibile». E suo fratello Fidel ha inviato per l’occasione una seconda lettera a Maduro, lodandone il coraggio per aver imposto a sua volta sanzioni ai funzionari Usa in base all’effetto di reciprocità. Uno scoglio non da poco nei negoziati in corso tra l’Ava- na e Washington in vista di un possibile «disgelo». Una questione aperta sul prossimo vertice delle Americhe, che si terrà a Panama il 10 aprile. E mentre molti intellettuali e movimenti invitano i paesi progressisti a disertarlo, il campo legato agli Stati uniti vorrebbe espungere la questione dal summit, mentre la diplomazia dell’Alba e degli altri blocchi regionali solidali col Venezuela spinge per far rientrare il decreto Obama. Un altro segnale di dialogo, potrebbe provenire dall’elezione dell’uruguayano Luis Almagro (Frente Amplio) alla direzione dell’Organizzazione degli stati americani (Osa). Apparentemente, le sanzioni sono rivolte a un gruppo di funzionari che avrebbero «violato i diritti umani dell’opposizione». I media della destra venezuelana hanno però fornito un lungo elenco già prima che arrivassero le sanzioni e prospettato un disegno ben più ampio, fino all’intervento armato. Alcune clausole contenute nel dispositivo potrebbero aprire la porta a un blocco economico che mira alle attività delle raffinerie venezuelane Cigto in Nordamerica. In modo diretto o indiretto, si potrebbe complicare o impedire anche l’invio di farmaci e alimenti. Diversi opinionisti, tra i quali Ignacio Ramonet, temono uno spostamento del fallimentare blocco Usa contro Cuba sul Venezuela. Ieri, nel paese, è cominciata la raccolta di firme «Obama ritira subito il decreto», che si propone di raggiungere 10 milioni di adesioni. Una petizione analoga circola già su change.org e per oggi è previsto un twitt mondiale di solidarietà. In Venezuela, tutte le categorie sociali hanno risposto all’appello dell’Alba, a cominciare dagli operai del settore petrolifero. E manifestazioni per chiedere a Obama il ritiro del decreto si stanno svolgendo in diversi continenti. Anche in Siria centinaia di manifestanti hanno sfilato per sostenere il governo bolivariano e, negli Stati uniti, il Bronx - i cui poveri si scaldano con il combustibile erogato gratuitamente dal Venezuela attraverso Cigto - è tornato a innalzare i cartelli pro Maduro. UCRAINA Economia disastrosa e le destre chiedono la testa di Jatsenjuk Fabrizio Poggi A rsenij Jatsenjuk ha chiesto a Francois Hollande e Angela Merkel di aiutare l'Ucraina a chiudere la parte di frontiera con la Russia (circa 400 km) non controllata da Kiev, nelle regioni di Donetsk e Lugansk, i cui territori la Rada suprema ha definito «temporaneamente occupati». Il giorno precedente, Jatsenjuk aveva dichiarato che il governo inizierà quanto prima la costruzione di una «linea di sicurezza» alla frontiera con la Russia, stanziando la cifra occorrente (circa 40 milioni di dollari) dai fondi di riserva statali e aveva chiesto al Ministero della difesa e a quello delle finanze di anticipare dal 3° al 1-2° trimestre 2015 gli stanziamenti per l’acquisto di mezzi militari. Di fronte a tanta sollecitudine per obiettivi che non sembrano proprio seguire le linee di un processo di pace, c’è da chiedersi quali mezzi finanziari Kiev possa dirottarvi, tenuto conto della situazione economica vicina al tracollo. Tanto vicina che nei giorni scorsi, alla Rada, il deputato del partito ultranazionalista Svoboda, Mikhail Golovko – certamente non spinto da preoccupazioni pacifiste - ha chiesto né più né meno che le dimissioni dello stesso Jatsenjuk per «incompetenza come capo del gabinetto dei ministri» e ha proposto che si ponga all’ordine del giorno un cambio di governo. Non sono nati ora i conflitti intestini tra le forze nazionaliste e apertamente fasciste che, dentro e fuori la Rada, sostengono il governo e la sua politica di confronto armato con le regioni separatiste del Donbass, ma è probabile che il precipitare della situazione economica e il drastico peggioramento delle condizioni di vita della larghissima maggioranza della popolazione, sia accompagnato da una crisi sociale interna che potrebbe mettere in seria difficoltà, anche di fronte ai suoi sponsor occidentali, l'attuale dirigenza ucraina. Se in passato si è assistito, a Kiev, alle dimostrazioni dei battaglioni neonazisti, scontenti della politica a loro dire «accomodante» del presidente Poroshenko nei confronti del Donbass, non è escluso che si possa ora andare incontro a una sorta di edizione ucraina della «crisi del fascismo», allorché quello che è stato il suo relativo «consenso di massa» (nelle regioni occidentali del paese) si trasformi in legittime proteste di carattere rivendicativo, anche semplicemente contro il prezzo del pane aumentato di quasi sei volte. E non mancano nemmeno lotte interne tra le stesse formazioni neonaziste, come accaduto nei giorni scorsi con la filiale locale di Pravij sektor a Zaporozhe, per accaparrarsi il controllo su alcune industrie locali. Ma la guerra è guerra e non sono pochi coloro che vedono negli accordi di Minsk dello scorso 12 febbraio solo un’ulteriore possibilità di rimettere in sesto l’esercito e prepararlo a una nuova offensiva: secondo l'intelligence del Donbass, alcuni concentramenti di forze governative potrebbero preludere a un attacco nel giro di due settimane. E non sono quindi del tutto casuali le notizie di ieri a proposito dei militari britannici che hanno già iniziato l’addestramento dei soldati ucraini e degli istruttori Usa che si occupano della preparazione della Guardia nazionale di Kiev. Per quanto riguarda i consiglieri di Sua maestà, la cui missione era stata annunciata la settimana scorsa dal primo ministro David Cameron, un contingente di 35 istruttori sarebbe già di stanza a Nikolaev, dove rimarrà due mesi. La preparazione di circa 800 Guardie nazionali ucraine da parte statunitense, è stata confermata l'altro ieri nel corso di una conversazione telefonica tra Petro Poroshenko e il vice presidente Usa Joe Biden, mentre per fine mese si attende l'arrivo dei primi veicoli militari forniti a Kiev dagli Stati Uniti. Non si è fatta attendere la reazione di Mosca; il Ministro degli esteri Serghej Lavrov ha detto che Washington sta incitando Kiev a uno scenario di guerra. VENERDÌ 20 MARZO 2015 il manifesto VISIONI pagina 9 Intervista • Lo scrittore, sceneggiatore e regista francese Emmanuel Carrère è protagonista al festival di Locarno di un programma fatto di proiezioni e incontri Isabella Mattazzi D i Emmanuel Carrère in quanto scrittore, in Italia nei giorni scorsi per presentare il suo nuovo romanzo Il Regno appena uscito per Adelphi, sappiamo pressoché tutto. Meno nota invece è la sua passione per il cinema, così come la sua attività di regista. Il festival di Locarno L’immagine e la parola (19-22 marzo) gli ha chiesto di comporre un programma fatto di proiezioni e incontri che siano in qualche modo significative del suo immaginario. Il cinema è stato da sempre un centro di interesse molto forte per lei. Ha pubblicato una monografia su Werner Herzog, all’inizio della sua carriera ha lavorato come critico cinematografico per la rivista Positif e ha scritto diverse sceneggiature per la televisione. Nel 2003 ha deciso di girare un suo primo film Ritorno a Kotelnich, cosa niente affatto scontata per chi scrive e si occupa di cinema, per quale motivo ha sentito il bisogno di passare dall’altra parte dello schermo? A dire la verità l’idea di fare un film non è nata da una volontà precisa. Nel 2000, appena pubblicato L’Avversario, mi sono trovato in un periodo abbastanza caotico della mia vita, ero completamente svuotato. Mi hanno proposto un soggetto per un reportage - la storia di un soldato ungherese fatto prigioniero in Russia e rimasto lì per 55 anni dopo la guerra, una specie di Kaspar Hauser rinchiuso in un ospedale psichiatrico in un paesino a 800 km da Mosca – e ho accettato. Il reportage non sarebbe stato qualcosa di scritto, ma un breve documentario per una trasmissione televisiva. È stato così che sono partito per Kotelnich con un cameraman e un fonico per un paio di settimane e ho scoperto che lavorare in équipe – «Girando film ho scoperto che lavorare in equipe per me abituato alla solitudine della scrittura - piaceva» per me da sempre abituato alla solitudine della scrittura – mi piaceva moltissimo. Nella vita degli abitanti di Kotelnich c’era qualcosa che mi attirava, qualcosa di non ben definito, ma che mi era immediatamente sembrato importante cogliere, una sorta di «materiale romanzesco». La cosa che ho trovato in Ritorno a Kotelnich più toccante è la sua voce. Ci sono ampie sezioni in cui lei parla di fatti estremamente intimi, personali, e le immagini scorrono come se fossero un puro e semplice accompagnamento alla parola. Che funzione ha per lei l’immagine? Anche se da sempre sono un grande amante del cinema, non credo di essere una persona profondamente visuale e non credo neppure che la mia scrittura sia troppo visiva, descrittiva. Durante le riprese a Kotelnich ho deciso di non controllare l’immagine. Fin dall’inizio ho lasciato che il mio cameraman si occupasse in tutto e per tutto delle riprese, che decidesse lui cosa e come filmare. Il mio Intorno alla parola, l’immaginario filmato compito era quello di creare situazioni, decidere dove andare e chi incontrare, ma riguardo al risultato concreto sulla pellicola volevo in un certo senso poter disporre di immagini di cui allo stesso tempo non ero responsabile e che non mi appartenevano. In questo film c’è una specie di rinuncia al controllo. Il controllo, la mia parte ordinatrice interviene soltanto durante il montaggio, una volta che tutti UN PRIMO PIANO DI EMMANUEL CARRERE, IN ALTO UN’IMMAGINE TRATTA DA «RITORNO A KOTELNICH» gli elementi cinematografici sono già stati prodotti. Un discorso simile si potrebbe fare anche per la scrittura, più vado avanti e più mi accorgo che sulla pagina lascio che le cose accadano, cerco di esercitare il minor controllo, la minor censura possibile. Nel 2005 ha realizzato un secondo film, «L’amore sospetto», trasposizione cinematografica del suo romanzo «Baffi». Perché la scelta di un testo letterario? E quali problemi ha comportato portare sullo schermo un testo così ambiguo, tutto giocato sul confine sottile tra la realtà e la sua distorsione percettiva? Tanto sono profondamente attaccato a Ritorno a Kotelnich, quanto L’amore sospetto non ha più di tanta importanza per me. Certo, sono contento di averlo fatto, ma non è il genere di cinema che preferisco. L’esperienza di Ritorno a Kotelnich era stata talmente entusiasmante per tutte le persone che vi avevano preso parte che insieme alla produttrice del film, Anne-Dominique Toussaint, abbiamo deciso di ripetere l’esperimento: questa volta si sarebbe trattato di una fiction. Fare un film vero e proprio è sempre stato il mio sogno di adolescente e all’improvviso mi veniva offerto dal destino questo regalo inaspettato. L’unico problema è che non avevo alcuna idea su che cosa volessi fil- mare. Mi è venuto in mente che all’uscita di Baffi, in parecchi avevano tentato una trasposizione cinematografica del libro senza riuscirci è mi è sembrato abbastanza naturale cercare di provarci anche io. In fondo i diritti del libro erano miei, mia la storia, era un po’ come giocare in casa. Ben presto però, durante le riprese, ci siamo trovati di fronte a un ostacolo non da LE GIORNATE · Fedeltà, tradimento e adattamento L'immagine e la parola, spin off primaverile del Festival di Locarno, voluto dal suo direttore, Carlo Chatrian, nasce per indagare un rapporto complesso e stratificato: Il passaggio dalla pagina scritta all'immagine. Non è certo solo questione di adattamento, anzi in alcuni casi il tradimento dell'originale produce capolavori assoluti a differenza della pedissequa fedeltà al testo. In gioco vi è ovviamente l'interpretazione pensiamo a «Inherent Vice», il romanzo di Pynchon nel film di P.T.Anderson trova una diversa ma sempre potente libertà - e la traduzione e molto altro. L'edizione 2015 si affida a una guest star quale Emmanuel Carrère, scrittore oggi tra i più celebrati, sceneggiatore spesso dei suoi romanzi, regista egli stesso con passione per il cinema tout court. E una possibilità, la più diretta, e non l'unica per esplorare un rapporto che a ogni passaggio si pone sempre come una nuova scommessa. Tra gli altri ospiti di spicco della rassegna anche l’attrice e regista italiana Valeria Golino, il cui film «Miele» sarà mostrato domenica 22 marzo. La Golino incontrerà Carrère per una «lettura scenica» sempre domenica 22 marzo alle 17. Venerdì 20 e sabato 21 saranno proiettati tre film di Pawel Pawlikowski. Il regista polacco ha appena vinto l’Oscar con il suo «Ida». Saranno proposti anche due suoi documentari di inizio carriera. Pawlikowski converserà con Carrère e con il pubblico sabato 21 marzo alle 18. INCONTRI · Francesco Cafiso pubblica il 24 marzo tre nuovi album dove ha coinvolto oltre 100 artisti «Così ho messo in musica i miei stati d’animo» Stefano Crippa È uno dei talenti precoci della scena del jazz italiano Francesco Cafiso. Un curriculum infinito di collaborazioni, una carriera messa in moto nel 2002 dall’incontro fatale con Wynton Marsalis – rimasto folgorato dall’allora appena dodicenne sassofonista siciliano in una sua esibizione al Pescara jazz festival. L’anno dopo lo porta con sè in un tour europeo e sarà poi un’ininterrotta sequenza di concerti, incisioni in giro per il mondo. Ora Cafiso tenta una sfida da far tremare i polsi, tre dischi pubblicati contemporaneamente – già disponibili in digital download e dal 24 marzo anche in versione fisica – prodotti e arrangiati a quattro mani con Alfredo Lo Faro per Made in Sicily e in- titolati rispettivamente Contemplation, La banda e 20 cents per note. «L’intero progetto – racconta Cafiso – nasce da un’esigenza artistica. Sentivo la necessità di lavorare su brani scritti da me e che rispecchiassero quello che sono oggi, l’eteroge- «Ogni persona è stata scelta, ogni figura rappresenta un tassello preciso del mosaico» neità rappresenta il mio modo di vivere e sentire la musica. Come se fossero dei tasselli di un puzzle che si è ricomposto secondo la mia personalità». Un progetto bulimico...: «Sì ne sono consapevole, ma insieme al produttore ci siamo detti che non avrebbe avuto senso uscire distanziati nel tempo perché è tutta musica nuova. È stato uno sforzo enorme, puoi chiamarla anche follia se vuoi, ho dovuto frenare l’attività concertistica per coordinare tutto, ma ne sono orgoglioso». Il triplo disco lo ha visto impegnato in studio in Italia e poi a Londra, New York e Los Angeles per tre anni, e ha coinvolto 100 artisti di cui – 33 – membri della London Symphony Orchestra oltre a Mauro Schiavone e Giuseppe Vassapolli che hanno arrangiato con lui tutte le musiche. «Ogni persona è stata scelta, ogni figura professionale rappresenta un tassello del mosaico senza i quali l’opera oggi sarebbe incompiuta». Ogni raccolta rappre- poco. L’immagine necessariamente «autentifica» le cose. Al cinema ci sono momenti in cui siamo obbligati a mostrare, a fare vedere la realtà. Cosa che per quanto riguarda una storia come quella di Baffi, in cui ogni cosa può essere anche il suo contrario, si è rivelata estremamente complessa da realizzare cinematograficamente. È forse per questo che alla fine il film non mi ha convinto più di tanto, e se gli sono grato è solo per un particolare tecnico. Il libro è scritto interamente dal punto di vista del personaggio maschile e giocato su minime sottigliezze di tipo psicologico, cosa che mi ha imposto un estremo rigore nella messa in scena e mi ha fortunatamente evitato di cadere in tutti quegli eccessi, quella magniloquenza di inquadrature barocche tipica di chi è alle prime armi dietro una telecamera. «L’amore sospetto» è una riproposizione del romanzo estremamente fedele tranne che per un unico elemento: il finale è tragico nel libro e di segno diametralmente opposto nel film. La questione del finale cambiato riguarda due diversi fattori. Il primo di ordine pratico. Letteralmente non sapevo come poter filmare il suicidio del protagonista senza che venisse fuori una sorta di ridicola scena granguignolesca. E neppure si poteva realizzare il suicidio attraverso un’ellissi, qualcosa di allusivo. Nel libro è una scena molto forte, molto violenta, risulta davvero impossibile edulcorarla. C’è un’altra ragione però, più profonda: quando ho girato il film avevo vent’anni di più e in realtà non avevo più voglia di raccontare una spirale di follia e di disperazione, ma mi interessava rappresentare la storia di una coppia e il modo in cui, malgrado tutto, arriva a uscire da una crisi, da un disaccordo assoluto sulla realtà. Alla fine del film entrambi i protagonisti sanno che da quel momento in poi la loro vita si reggerà su un compromesso, che il terreno è minato e fragilissimo, ma che ciononostante è stata loro offerta una soluzione per rimanere in piedi. O meglio, lui ha coscienza di tutto questo, perché di lei non sappiamo nulla, la sua logica rimane per noi del tutto opaca. Nel film ho voluto dare una seconda chance al protagonista, perché in un certo senso ho sentito il bisogno di dare una seconda chance alla mia vita. senta una fonte d’ispirazione e uno stato d’animo di Cafiso: «Contemplation racconta un po’ la mia concezione intima dell’esistenza. Tutto è partito da un test a cui mi ha sottoposto un’amica psicologa, mi ha chiesto cosa avrei fatto se mi fossi trovato davanti a un muro. Le ho detto che lo avrei dipinto e secondo lei questo rappresenta la mia idea di idealizzare la morte, vedendola non come la fine ma come l’inizio di qualcos’altro. Lì è iniziato il percorso di Contemplation, che parte proprio con In front of a wall e si chiude con The Wall I painted, il muro che ho dipinto...». La banda è quasi un omaggio alla sua terra, la Sicilia: «Sì, è la sicilianità , ma la banda non è musica popolare ma è il pretesto per riportarci a una cosa più complessa che è la mu- so non si limitano all’ambito jazz, in passato la sua strada e quella di artisti come Jovanotti, Gualazzi e Ruggiero si sono incrociate...: «Non voglio etichettare la musica: è bella o è brutta. Non lo dico io ma lo diceva Duke Ellington. In me c’è la voglia di varcare i confini». La crisi del settore musica è conclamata. Eppure crescono in maniera esponenziale i talenti...: «Vero, il livello medio si è innalzato tantissimo. Anche grazie alla tecnologia e a internet puoi studiare FRANCESCO CAFISO/FOTO ROSELLINA GARBO e confrontarti con i musisica jazz, inciso in formazione da secisti di tutto il mondo, girando su stetto». 20 cents per note, nove moviyoutube ho scoperto una quantità menti realizzati con un quartetto badi ragazzi bravissimi. C’è quindi più se: «Qui ripercorro le tappe fondacompetizione e altrettanta difficoltà mentali della mia vita. Questo è un di emergere. A fronte della mia espedisco jazz ma c’è anche molto rienza posso suggerire di lavorare swing, la musica di cui mi sono insodo ma soprattutto trovare namorato e con cui sono nato e creun’identità che ti permetta di non sciuto». Gli incontri musicali di Cafipassare inosservato». pagina 10 il manifesto VENERDÌ 20 MARZO 2015 CULTURE ALICE CERESA Alessandra Pigliaru D i Alice Ceresa, scomparsa il 22 dicembre del 2001 a Roma all’età di 78 anni, rimangono alcuni fra gli scritti più taglienti e adamantini che la letteratura italiana abbia conosciuto. «Il carattere del secolo si è distillato in lei senza nessuna ombra». È ciò che pensa Patrizia Zappa Mulas a proposito di Alice Ceresa, scrittrice nomade e imprendibile nata a Basilea, trasferitasi dal 1950 a Roma, «la sua si potrebbe considerare una fenomenologia poetica di alcune emozioni e affezioni di base». Il carattere del secolo prende così le sembianze di una figura minuta, sfuggente la mondanità e i cliché dei salotti letterari a lei contemporanei, e si orienta in una parola severa, esplosiva e senza piaggerie. Laboriose mappature del Novecento letterario e politico, i pochi testi che sono stati pubblicati mostrano che a essere distillata è la rappresentazione di un mondo da rovesciare nella piena assunzione di alcune e precise idee, principalmente incarnate dalla propria differenza sessuale. Muoversi nel teatro della coscienza, operazione complessa e difficile, ha significato così per Alice Ceresa costanti contrattazioni anzitutto con se stessa, «nata già emigrata» come si definiva lei stessa e capace di abitare magistralmente sia la lingua italiana sia quella tedesca. La separazione dal latte paterno Una giornata dedicata alla scrittrice svizzera e alle sue opere letterarie, tutte dedicate alla questione femminile. Con la «figlia prodiga» mise in scena la parabola di una rivoluzione che puntava allo smascheramento del sistema patriarcale. Oltre la famiglia borghese Quando nel 1967 viene pubblicato La figlia prodiga che inaugura la collana di ricerca letteraria di Einaudi diretta da Guido Davico Bonino, Giorgio Manganelli e Edoardo Sanguineti, Ceresa ha già al suo attivo diversi articoli e interventi per esempio in Die Weltwoche, Tempo pre- I suoi testi sono laboriose mappature del ’900, che rovesciano la cartografia delle relazioni umane sente, Botteghe oscure, Tuttestorie. Le sue interlocuzioni, da Maria Corti a Luigi Comencini, Franco Fortini, Toti Scialoja, Italo Calvino, Giorgio Parise ed Elio Vittorini, ma anche il Gruppo ’63, stanno a indicare un profilo letterario composito e cruciale. Eppure è stato l’interesse verso il femminismo, continuamente perimetrato, che le ha posto gli interrogativi sostanziali. Andare al cuore della struttura letteraria e della struttura socio-politica per Alice Ceresa sono state due parti di uno stesso fondamentale ragionamento che ha preso avvio da una critica alla famiglia borghese e patriarcale. Come nel libro del 1967 (premio Viareggio Opera Prima), anche nel lungo racconto La morte del padre, apparso nel 1979 in Nuovi Argomenti (e nel 2013 per et al.) e Bambine (Einaudi, 1990) – tutti e tre ristampati nel 2004 in un unico volume per La Tartaruga - il punto critico è sempre la famiglia, in cui i nomi propri lasciano il posto ai posizionamenti relazionali all’interno di essa. Decostruzione sontuosa da parte di una parola sediziosa che attenta ai luoghi comuni concettuali della società e della letteratura, quella della figlia prodiga è parabola di rivoluzione che punta allo smascheramento del sistema patriarcale. Per farlo fuori, definitivamente. La dilapidazione del patrimonio è dunque il rifiuto massimo dell’ordine costituito, della coercizione alla scelta impositiva di acquisire identità avariate d’accatto e seguire strade servili e moderate già percorse. La figlia prodiga non è un romanzo, non è neanche un saggio, è piuttosto un’anomalia da meditare con cura, una sperimentazione in cui la protagonista «sperpera un patrimonio di secoli e di effettive ricchezze, rimanendo a mani vuote, vale a dire senza più un «posto» codificato nella società. Il libro è la descrizione dettagliata – benché astratta – di questo sperpero… vale a dire che il personaggio è consapevole della ambiguità e malvagità del lavoro di detrazione che compie. Con le proprie formule la società le pone automaticamente un aut aut: o entrare nel gioco contentandosi di «non essere» come entità autonoma, pensante e soggettiva, oppure passare alla rivolta necessariamente subdola, interiore e solitaria». La prodigalità ceresiana ha anticipato ciò che da lì a poco sarebbe accaduto, gli anni settanta insieme alla lotta di molte altre figlie prodighe e la successiva scelta della libertà a dispetto del copione che si sarebbe dovuto interpretare. Relazioni pericolose Al cuore della famiglia che «infine esploderà» punta anche La morte del padre, racconto scritto quasi di getto nella casa d’infanzia di Cama nei giorni successivi alla morte del padre della scrittrice, lo stesso padre a cui nel 1940 invia una lettera in cui dichiara il proprio amore nei confronti della letteratura. Il congedo dal padre è tuttavia anche il pretesto per indagare il territorio della perdita, della trasformazione dei corpi e dell’ossessione che Ceresa aveva nei confronti delle singole pieghe del divenire altro. Così il lutto per lo stordimento affettivo lascia immediatamente il posto a una più alta – e magnifica – dislocazione che assume un senso politico. Quando cioè si trova il coraggio per dire a se stesse «Che cosa è mai un padre se non una imposizione di comportamenti, recepito conseguenzialmente e senza alcuna particolare attenzione: eppure è con questi vuoti connotati che si trasferisce senza ricorso nella vita dei figli». In questo senso andrebbe riletto anche Bambine, imperdibile spaccato delle dinamiche relazionali e in particolar modo familiari. E anche il Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile (Nottetempo 2007) pubblicato postumo a cura di Tatiana Crivelli con la postfazione di Jacqueline Risset. In quel lavoro, cominciato agli inizi degli anni settanta e mai portato a termine, si vorrebbe rendere conto di un abbecedario politicamente parlante. Come ricorda Crivelli infatti sono la fragilità e il potere di ogni codificazione fissa, legislativa, sessuale, familiare, che Ceresa avrebbe voluto scardinare «mettendo a nudo gli inganni della funzione definitoria della lingua, utilizzando dunque proprio un dizionario, il definitore per eccellenza, per smascherare la vuota concettosità della normatività linguistica». Il fondo privato delle numerosissime carte, edite e inedite, di Alice Ceresa - il cui lascito è curato da Barbara Fittipaldi - è conservato presso l’Archivio svizzero di Letteratura della Biblioteca di Berna. CASA INTERNAZIONALE DELLE DONNE CORRISPONDENZE · La lettera che Toti Scialoja le spedì, dopo aver letto «Bambine» Parole, film e reading dedicati all’autrice «Il tuo libro si colloca nel cielo della Tragedia» Sabato 21 marzo, dalle ore 10 alle 19, presso la Casa internazionale delle donne di Roma (Sala Simonetta Tosi), la Società Italiana delle Letterate, con l’adesione e il sostegno di Archivia e della Casa internazionale delle Donne di Roma e il patrocinio dell’Ambasciata di Svizzera in Italia, promuove per il 21 marzo un incontro dedicato a Alice Ceresa, dal titolo «La scrittrice prodiga. Le parole di Alice Ceresa». Con la presenza di Barbara Fittipaldi, interventi di Anna Maria Crispino, Maria Rosa Cutrufelli, Annetta Ganzoni, Maria Teresa Grillo, Francesca Maffioli, Laura Marzi, Gianna Mazzini, Loredana Rotondo, Nadia Setti, Patrizia Zappa Mulas. Ci sarà anche la proiezione del video «Alice Ceresa. Se tu sapessi» (del 2006) e verrà proposta una lettura dell’attrice Ottavia Fusco de «La morte del padre», con l’accompagnamento dell’arpista Ornella Bartolozzi. Per info: www.societadelleletterate.it; aliceceresa.sil@gmail.com ara Ceresa, è più di quarant’anni che ci siamo conosciuti, io allora amavo moltissimo certe tue pagine, ora ne ho un ricordo confuso. Debbo scriverti questa lettera. Non ti ho trovato sull’elenco telefonico, ma sono riuscito a pescare il tuo indirizzo. Debbo dirti che ho letto Bambine. Ne ho ricevuto un’emozione violentissima, sconvolgente. Debbo dirti che il tuo libro è un capolavoro. Lo paragono a pochissimi altri del nostro novecento; alla Coscienza di Zeno, a Tre croci, a Se questo è un uomo, a La cognizione del dolore, a Casa d’altri, a Quattro novelle sulle apparenze (forse). Le tue Bambine non ripercorrono le lamentazioni rassegnate dell’Ecclesiaste. Non mettono in gioco la polvere, la vanità del nostro esistere, piuttosto il disgusto che noi proviamo per questa polvere, per questa vanità. L’orrore che ne prova la nostra anima moderna. C Il tuo libro rappresenta mirabilmente due orrori: quello di qualunque umana vita, ripugnante per il suo anonimo e incosciente condizionamento – una vita priva persino di impennate o alibi psicologici e fondata unicamente sull’ingombro momentaneo e insensato del suo esserci – e l’orrore di volerne parlare con i mezzi di una sintassi aulicamente codificata. La «bella prosa» crea, già di per se stessa, consolazione (ved il Cantico del Gallo Silvestre). Quindi la tua è una scrittura nauseata di se stessa – un periodare sconnesso e come preso in prestito, costruito su una serie di subordinate alla deriva, tra il verbale di contravvenzione, l’elenco giudiziario, la relazione notarile, ecc. Una lingua che tu inventi, impastata di malagrazia, di sarcasmo, di improvvisi lampeggiamenti. Insomma il tuo libro mi ha spaccato in due. Si colloca nel cielo della Tragedia, ben lontano dalla dimensione servile dell’attuale letteratura patria. L’impossibilità a vivere, il dolore e il rancore che io ne provo, tu me lo hai raccontato in questo libro. Di questo ti sarò sempre grato. Seguita a scrivere, te ne prego. tuo, Toti Scialoja Roma, 4 maggio 1990 VENERDÌ 20 MARZO 2015 CULTURE oltre ALTAMIRA VA CONSERVATA, NON RIAPERTA Le pitture rupestri delle cave di Altamira, i giacimenti archeologici in Cantabria, patrimonio dell'Umanità, potrebbero essere messe compromesse a causa della riapertura al pubblico del sito. A lanciare l'allarme, gli esperti del tutto Dipartimento di Preistoria dell'Università Complutense di Madrid che, in una lettera all'Unesco hanno criticato la gestione delle cave: «il programma del ministero di Cultura della Spagna, un piano che comporta l'apertura delle cave ai visitatori, pone mette a rischio una fragile eredità, di enorme OLAFUR ELIASSON, «THE WEATHER PROJECT», TATE MODERN, 2003/04 Finiti gli occhiali per osservare l’oscuramento del sole. Gli scienziati propongono una planetaria esperienza di «citizen science» Andrea Capocci L’ eclisse di sole è una festa per grandi e piccini. Nessuno vorrà perdersi lo spettacolo del sole nero a metà, che oggi, tra le nove del mattino e mezzogiorno, con il picco alle dieci e mezza, sarà visibile anche in Italia. Come tutti gli eventi astronomici rari, anche l’eclisse sta generando una discreta psicosi dal sapore millenaristico. In Inghilterra, dove la luce solare calerà anche del 90 per cento in piena ora di punta, le autorità stanno diffondendo l’allarme tra gli automobilisti affinché non tolgano gli occhi dalla strada per godersi lo show. In Francia, invece, le autorità sanitarie hanno allertato addirittura i presidi. Di conseguenza, gli alunni delle scuole elementari parigine non potranno uscire all’aperto perché guardare il sole, sia pur dimezzato, senza protezione può provocare danni gravi alla vista. L’eclisse, infatti, ha preso di sorpresa (si fa per dire) i produttori degli occhiali speciali necessari per guardare il sole in sicurezza e gli stock sono esauriti in tutto il continente. Eppure, la scienza della previsione delle eclissi dovrebbe essere assai sviluppata proprio il manifesto ASTRONOMIA · Oggi l’eclisse di sole. Crescono i piccoli business della paura Conto alla rovescia per il black out del cielo in Cina, dove la maggior parte di questi occhiali sono fabbricati: già nel 2100 a.C. l’imperatore Zhong Khang fece decapitare gli astrologi di corte, rei di non aver previsto un’eclisse. Qualcuno ne sta approfittando per incrementare i suoi guadagni: su Ebay, occhialini di cartone da due o tre euro vanno all’asta per prezzi dieci volte superiori. In mancanza di lenti adegua- te, quindi, è meglio rimanere in classe con le tapparelle chiuse (in Francia funzionano). Anche gli scienziati stavolta approfitteranno dell’eccitazione popolare per raccogliere dati scientifici. In effetti, l’eclisse solare è tuttora un intrigante campo di ricerca, sebbene sia studiato sin dall’antichità. L’università di Reading propo- ne a cittadini più o meno esperti di partecipare ad un esperimento di citizen science (scienza partecipata). L’obiettivo del «National Eclipse Weather Experiment» è quello di documentare con termometri e anemometri di uso domestico un fenomeno molto raccontato ma poco accertato, il «vento di eclisse»: una folata di aria fredda determinato importanza, per la comprensione della società paleolitica». Il giacimento, chiuso al pubblico dal 2002, dal 2012 è stato riaperto a visite per sorteggio, di gruppi di cinque persone più una guida. E prossimamente si dovrà decidere se proseguire a tempo indeterminato. dall’oscuramento del sole. Durante le eclissi totali, inoltre, diventa possibile osservare la corona solare, l’alone di materia rarefatta che circonda il Sole e normalmente invisibile per la fortissima luminosità della stella. La corona è ancor oggi un oggetto misterioso: le particelle che la compongono hanno una temperatura di uno-due milioni di gradi, molto più elevata rispetto alla superficie solare nonostante quest’ultima sia più vicina alla fonte del calore (le reazioni nucleari al centro della stella). Il motivo non è ancora chiarito del tutto, anche se il campo magnetico del sole, in grado accelerare le particelle cariche, potrebbe essere la causa di questo apparente paradosso energetico. Proprio per osservare la corona, diverse équipe di scienziati hanno trasferito per tempo i loro telescopi alle isole Svalbard, uno dei pochissimi luoghi abitati d’Europa in cui l’eclisse sarà totale. Tra tante paure immaginarie, per una volta, chi teme davvero è la Germania, il paese al mondo che più si affida all’energia solare per produrre elettricità. I pannelli fotovoltaici tedeschi generano quasi la metà dell’intera potenza installata in Europa (40 gigawatt su 89: oltre il doppio del secondo classificato, l’Italia). L’eclissi sarà un vero stress test. Il problema non sarà tanto l’assenza del sole, evento piuttosto frequente nel grigio cielo tedesco, quanto la repentina variazione di luminosità. Secondo uno studio del Fraunhofer Institute di Friburgo, con il bel tempo l’effetto dell’eclissi sarà equivalente allo spegnimento di 12 grandi centrali (un calo di 23 GW) e al successivo riavviamento di altre 19, tutto nel giro di tre ore. Per affrontare le fluttuazioni dell’energia solare, la rete tedesca è abituata a rispondere con altre fonti alla domanda di potenza e le simulazioni svolte finora non inducono particolari timori. Ma la voglia di gufare contro i primi della classe è tanta. SAGGI · «Il sindacato al tempo della crisi» di Massimo Franchi MOSTRE Un deficit di rappresentanza nell’epoca del «lavoro atipico» «Il Medioevo in viaggio», al museo Bargello di Firenze, dai reliquari alle miniature e vetrate Roberto Ciccarelli N ella coalizione sociale Landini vede l’occasione di riformare la Cgil. Senza questa riforma, aggiunge il segretario della Fiom, il sindacato rischia di scomparire. Per capire i contenuti della battaglia politico-culturale in corso è opportuno leggere il libro di Massimo Franchi pubblicato in maniera tempestiva da Ediesse: Il sindacato al tempo della crisi (pp.176, euro 12). In un libro che contiene interviste ai segretari dei confederali, a sociologi come Giuseppe De Rita o Aldo Bonomi, precari freelance e partite Iva, Franchi delinea il campo interno ai sindacati, e in particolare alla Cgil, dov’è emersa la necessità di un’autoriforma. La dedica del libro a Davide Imola, uno dei più sensibili e attrezzati sindacalisti della sua generazione, oggi purtroppo scomparso, è indicativa. Come Imola mostrò nella sua azione, per avere un futuro il sindacato deve imparare a rappresentare il «quinto stato»: il lavoro autonomo, precario e povero, insieme a chi vive nella zona grigia tra le attività autonome ed eterodirette, ma non è riconoscibile nel perimetro del lavoro subordinato. «Il numero di questi lavoratori aumenta costantemente e sostituirà buona parte dei lavoratori dipendenti – spiega Franchi – Queste persone hanno un’incredibile necessità di essere tutelati e, sebbene molti non lo riconoscano, di essere rappresentati». In questa cornice parlare di «coalizione sociale» non significa evocare un «nuovo soggetto politico di sinistra», come sostengono la Cgil e molte delle sue federazioni contro Landini e la Fiom. Al contrario, significa riconoscere l’attuale incapacità del sindacato a rappresentare il vasto continente del quinto stato ma, allo stesso tempo, lanciarlo in una nuova battaglia politica. «Considerare le tutele dei lavoratori autonomi e precari come diritti di cittadinanza – aggiunge Franchi – E la contrattazione sindacale come strumento per ottenerla». Free lance, precari, «autonomi» di seconda e terza generazione. La presa di contatto per le costellazioni ignorate dei senza diritti Questa definizione di «contrattazione sindacale» come strumento per estendere i «diritti di cittadinanza» Franchi la intuisce a partire dalle esperienze di community e labour organizing negli Stati Uniti o di coalizione sociale in India raccontati da Valery Alzaga, Kim Moody o Arijun Appadurai. Paesi dove i sindacati tradizionali si sono coalizzati – e certo non in maniera né lineare né pacifica, considerata la loro natura «manageriale» o corporativa – con le esperienze di autorganizzazione per il salario minimo, le leghe di resistenza, le Ong in lotta contro la povertà, i movimenti anti-razzisti e le organizzazioni territoriali. «Bisogna aggiornare la definizione di alleanza dei produttori di Trentin – aggiunge -. Serve un’alleanza dei deboli, degli sfruttati, dei subordinati di chi pur essendo formalmente autonomo dipende da imprese che impongono diminuzione di diritti e tagli dei compensi». Allargare la rappresentanza significa ampliare la base sociale e professionale del sindacato. Un’esigenza fondamentale dopo la rottura del collateralismo tra Cgil e Pd, mentre l’affermazione di Renzi ha reso il sindacato un corpo sociale senza referente politico. Fare coalizione è un modo di costruire una base politica diversa che richiama le origini inclusive del movimento operaio, quando l’azione sindacale era una pratica di cittadinanza, mentre la contrattazione era il risultato di una negoziazione politica sulla base di una lotta di classe. «Oggi è necessaria una lotta di resistenza che riporti il sindacato alle sue radici per farlo ripartire da nuove basi» conclude Franchi. Così intesa, si capisce perché la «coalizione» allarmi gli attori della spoliticizzazione italiana: il Pd, la sua «sinistra» chiacchierona, la maggioranza della Cgil, oltre che i Cinque Stelle. All’unisono hanno iniziato a cannoneggiare Landini perché vedono in questa pratica di cittadinanza uno degli strumenti per mobilitare la società in vista dell’unificazione dei lavori e della conquista dei diritti fondamentali, tra cui c’è quello alla coalizione. Se questo dibattito resterà confinato nelle stanze della Cgil, sarà una sconfitta per tutti, e non solo di Landini. Qualora rimanesse ostaggio degli zombie della politica istituzionale sarebbe una tragedia. Questa è l’ultima possibilità per tornare a fare politica. Dopo c’è solo la restaurazione dello status quo, aspirazione insignificante per chi ieri come oggi non ha più nulla. pagina 11 A Firenze, presso il Museo nazionale del Bargello (da oggi e fino al 21 giugno prossimo) sarà visitabile la mostra «Il Meioevo in viaggio». Offerta in prima battuta al pubblico parigino al Musée de Cluny tra l’ottobre 2014 e il febbraio scorso, questa rassegna approda ora al Bargello con il medesimo percorso espositivo, seppure rimodulato con alcune varianti dettate da motivi di spazio e dalla necessaria rotazione dei materiali più delicati. All’insegna dell’Età di Mezzo e di una comune cultura europea, l’esposizione presenta oltre cento opere d’arte, in un «itinerario» simbolico e reale, attraverso pitture su tavola, sculture in pietra, miniature, manufatti in avorio, vetrate, placchette di metallo più o meno pregiato e poi antiche carte geografiche e strumenti usati dai navigatori, come pure sigilli o reliquiari. Il percorso è costituito anche da rarissimi oggetti di uso quotidiano conservatisi fino ai nostri giorni, quali scarpe, borse da messaggero, lettere o cofanetti da viaggio: tutte testimonianze della cosiddetta «cultura materiale», cioè oggetti realizzati in materiali poveri, ma ugualmente preziosi proprio per la loro rarità. La rassegna è strutturata in cinque sezioni tematiche connesse ad altrettanti tipi di viaggiatori in età medievale: si va da una selezione di carte e piante geografiche, all’idea di pellegrinaggio fino alle figure di crociati, cavalieri, mercanti. La mostra è curata come il catalogo (edito da Giunti) da Benedetta Chiesi, Ilaria Ciseri e Beatrice Paolozzi Strozzi, SCAFFALE Gino Belloni, un taccuino di segni libertari Ernesto Milanesi A mano libera, perfino sulle buste squartate. Con un tratto inconfondibile, poco accademico e molto artistico. Senza interruzioni, attraverso i decenni. Gino Belloni non è stato solo ordinario di Letteratura italiana, ma si è «rilassato» in punta di penna o matita fino a produrre un vero e proprio catalogo originale dell’Ateneo di Venezia. Caricature e ritratti (a cura di Riccardo Drusi e Sergio Marinelli, Scripta edizioni, pp. 112, euro 14) mette in fila le opere artistiche di Belloni. Dal volto del padre Piero che risale al 1969 fino alla rappresentazione «goliardica» di Gianfranco Folena, Mario Isnenghi, Marino Berengo o Umberto Galimberti, tutti immortalati durante le loro sedute accademiche. Disegni tutt’altro che amatoriali come quelli di Alberto Moravia, Chiara Frugoni e Mario Geymonat. Ma anche scorribande libertarie, nel caso della «crocifissione» con l’autore nella parte del «ladrone da sinistra, mona». Un centinaio di ritratti originali che sono anche esposti fino al 12 aprile all’interno del Dipartimento di Studi Umanistici di Ca’ Foscari. Rappresentano l’omaggio dell’Università allo studioso appassionato soprattutto di Petrarca e tuttavia consentono di andare a caccia dell’altro Belloni, quello che non rinuncia mai ad uno sguardo innocente e spassionato. «La galleria che ne sortisce si vorrebbe rappresentativa d’un ambiente umano e un clima culturale nella sua lunga evoluzione. Ciascuno, secondo età anagrafica o progressione di carriera, identificherà o meno gli effigiati, e in essi talvolta si riconoscerà (o meno), con reazione diversa e libera così come diversi sono stati gli spunti all’origine dei disegni, e libera la mano e l’intenzione di chi li ha realizzati» spiegano i promotori dell’iniziativa. Il «catalogo» restituisce già la costanza artistica di Gino Belloni che rispecchia in un guizzo tante personalità: Franco Fortini è immortalato sul foglio volante con il logo della piccola azienda grafica di provincia; Emanuele Severino con il profilo del suo essere parmenideo; Bepi Mazzariol addirittura solo di spalle; Laura Memmo accigliata e concentrata sul fluire della penna. Una pubblicazione che accompagna la mostra di palazzo Malcanton Marcorà, ma che sembra inaugurare la stagione filologica dedicata a Gino Belloni, in arte professore. pagina 12 il manifesto VENERDÌ 20 MARZO 2015 ULTIMA Giovanotto storie ASPETTA E SPERA Maurizio Franco ROMA L e prime ore del giorno si riversano plumbee sul quartiere Garbatella. Il teatro Palladium e le cataste di cemento. Il 5 marzo e le 9:30 del mattino. Quasi a fagocitare le casupole, i ghirigori, le viuzze, l'intero rione operaio, la mastodontica sede della Regione Lazio si incaglia su via Cristoforo Colombo. Saranno stati una cinquantina davanti ai cancelli, tutti aderenti alla piattaforma Garantiamoci un futuro. No al business sulla disoccupazione giovanile, lo striscione tra le mani, infagottati, ombrelli puntati, le braccia incrociate, volti anonimi su carta bianca. Garanzia Giovani è una scatola vuota! Noi vogliamo reddito e diritti! La pioggia batte sull'asfalto, cade scrosciante sui vetri delle macchine per le strade di una Roma appena stiracchiata. «Abbiamo ottenuto un incontro – esordisce Natascia, neolaureata, facoltà di Lettere e Filosofia – abbiamo strappato un tavolo di confronto con l'assessorato al Lavoro, per discutere, criticare e dimostrare l'inefficacia e l'inadeguatezza del programma Garanzia Giovani». Sciarpa attorcigliata sul collo, «le nostre rivendicazioni sono chiare. Chiediamo all'amministrazione regionale di ascoltare le esigenze di chi vive da anni la precarietà e non solo le voci di chi specula sul nostro disagio». La Garanzia Giovani è un programma europeo avviato in tutta Italia il 1°maggio 2014 per offrire ai giovani tra i UNA RECENTE 15 e i 29 anni diverse opportunità di PROTESTA orientamento, formazione ed inseriDI GIOVANI mento nel mondo del lavoro nei paesi DISOCCUPATI membri con tassi di disoccupazione gioDAVANTI ALLA vanile superiore al 25%. L'obiettivo REGIONE LAZIO esplicito non è creare occupazione ma GARANZIA GIOVANI I dati di un fallimento: un’offerta di lavoro solo per 12.273 under 29 Il 12 marzo i «Neet» under 29 registrati alla «Garanzia giovani» erano 453.729 (+12 mila rispetto alla settimana precedente), pari all'81% del bacino di riferimento rappresentato da 560 mila che dovrebbero essere raggiunti dal programma europeo contro la disoccupazione giovanile. Le risorse stanziate sono 957 milioni di euro, pari al 63,3% del miliardo e mezzo complessivo stanziato. Due le novità emerse nell’ultimo report: al 12 marzo si sono cancellati dal programma 58.278 giovani, dall’11 settembre 2014 lo hanno fatto in 93.365. Un dato dovuto a molteplici fattori, tra i quali c’è la rinuncia soggettiva. La platea complessiva dei «Neet» a cui inizialmente il programma era rivolto, era di oltre 1 milione 565 mila under 29 su 2 milioni e 254 mila. Oggi è stata ridotta di due terzi. A febbraio i giovani «presi in carico» erano 218 mila. A febbraio 12.273 hanno ricevuto un’offerta di lavoro: il 3%. Il governo Renzi sta cercando di tappare le falle. Il 2 marzo il ministero del Lavoro ha modificato i criteri di «profilazione» dei giovani iscritti e le regole sul «bonus assunzioni». Nella speranza di rendere più «appetibili» gli incentivi stanziati per le imprese. l'obbligo di svolgere qualsiasi attività lavorativa proposta. La gran parte del 1,5 miliardi di euro si focalizza nella formazione, tirocini e bonus occupazionali per le imprese. «Un ruolo decisivo ora spetta al sistema imprenditoriale - ha scritto Poletti - Sono le imprese il vero motore dello sviluppo; sono le imprese che creano lavoro». Alla luce dei dati, al momento non sembrano molto interessate. Torniamo al presidio. Il caffè bollente sul bancone. Un goccio d'acqua. L'accento lucano è inconfondibile. «La Garanzia Giovani è l'esemplificazione delle profonde trasformazioni del mondo del lavoro – afferma Salvatore, lo zucchero e la tazzina, il bar che da subito sulla strada - si accede all'offerta di qualsiasi opportunità o beneficio solo attraverso l'accettazione dell'obbligo a rendersi disponibile a farsi formare, ricollocare, ad accettare un eventuale posto di lavoro, tante volte lontano anni luce rispetto alla propria formazione, pena la perdita della possibilità di essere immesso nel mercato del lavoro. L'organizzazione e la gestione della forza-lavoro di riserva non viene privatizzata, ri- La «Garanzia Giovani» nel Lazio. Viaggio nella protesta contro il «nuovo business della disoccupazione» incentivare l'occupabilità: aumentare la possibilità per i cosiddetti «Neet» acronimo per: Not (engaged) in Education, Employment or Training - di essere assorbiti nel mercato del lavoro. «Un cambio di paradigma: dalla piena occupazione alla disoccupazione strutturale e quindi all'occupabilità – persevera Natascia - Tutto questo trova la sua prima vera applicazione nazionale nel programma Garanzia Giovani – e poi ad elencare – nel ruolo delle politiche attive del lavoro, i nuovi ammortizzatori sociali, nel passaggio dalla contrattazione nazionale a quella aziendale, il ruolo della formazione professionale». Il presidio rumoreggia davanti ai cancelli. Il ticchettio frenetico della pioggia rintocca i secondi, i minuti, le ore immobili. Una delegazione è appena salita negli uffici dell'assessore. Le scale a chioccia pregne d'acqua. Antonietta pensierosa fissa il telefono. «Il Programma si concretizza – esordisce sovrappensiero – come un vero e proprio business sulla disoccupazione per agenzie del lavoro interinali, enti di formazione e orientamento, oltre che per le imprese interessate a bonus occupazionali, lavoro gratuito e tirocini finanziati con i fondi pubblici”. La pioggia scandisce le parole. «Sono clamorosi i ritardi e le inefficienze: sono due mesi che non mi pagano. Lavoro, uno stage di 150 ore per 400 euro mensile. Stipendio, contratto, una possibile assunzione? Tutto quello che mi garantiscono è un rimbor- so spese e la speranza. Dicono che sia un soggetto in perenne formazione: acquisisco credenziali, punti sul curriculum, sempre a disposizione, pronta a scapicollarmi, a girare, anche a confondermi, ma sempre disposta e disponibile. L'intero sistema è fondato sull'economia della speranza». Tutt’altra realtà emerge dalla descrizione del programma fornita dal ministro del lavoro Giuliano Poletti: «Per la prima volta nel nostro Paese si attiva un'azione sistematica per offrire a un'ampia platea di giovani un ventaglio di opportunità per aiutarli a entrare nel mondo del lavoro - ha scritto - È una sfida complessa, che è indispensabile affrontare con il massimo impegno di tutti i soggetti coinvolti a partire, naturalmente, dal ministero del Lavoro, cui spetta la regia del Piano: dalle Regioni, che dovranno assicurare l'attuazione degli interventi sul territorio; dai centri per l'impiego e dalle Agenzie private accreditate che dovranno concretamente seguire i giovani». Per capire lo stato delle cose, bisogna ricorrere ai dati aggiornati dell’ultimo rapporto. I finanziamenti concessi per la Garanzia Giovani sono all'incirca di 1,5 miliardi di euro: 1,134 miliardi dall‘Europa +380 milioni di finanziamento nazionale. I giovani registrati il 12 marzo al Programma erano 453.729, tutti tra i 15 e 29 anni. La Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro stima che in Italia i «Neet» siano oltre 2 milio- ni 254 mila. Garanzia giovani aveva delimitato la platea a 1.565 milioni giovani: disoccupati ed inattivi ma in grado di lavorare. Oggi la platea è stata ridotta a 560 mila. I giovani presi in carico nel frattempo sono solo 218 mila, poco meno della metà dei registrati. Secondo i dati Adapt i partecipanti che hanno ricevuto una proposta di politica attiva sono erano a febbraio 12.273, poco più del 3% di quelli «presi in carico». È necessario sottolineare che ogni iscritto è tenuto a firmare il Patto di servizio e la DID (Dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro) con cui sottoscrive sulterebbe troppo onerosa per i privati, ma si avvia un'immediata sinergia tra pubblico e privato». «Il Programma Garanzia Giovani non fa altro che anticipare quanto oggi è in fase di discussione e stesura con i decreti attuativi del Jobs Act. È definitivo il passaggio dalle politiche di welfare a quelle di workfare». È mezzogiorno quando la delegazione riemerge, nonostante la pioggia non abbia mai cessato, nonostante il tempo si sia arenato e una velatura grigia abbia inquinato l'aria umida. «Abbiamo vinto e ottenuto dal tavolo lo sblocco immediato dei pagamenti dei tirocini già attivati – spiega Tiziano di «Garantiamoci un futuro» – e la rassicurazione che l'indennità o il rimborso si alzi a 600 euro per il Lazio. Il nostro fine però è che i soldi vengano equamente ridistribuiti ai reali beneficiari, senza che vi siano ulteriori speculazioni, garantendo un salario minimo o un reddito di base alle decine e decine di migliaia di giovani precari che in questa regione non hanno un lavoro e non possono accedere a nessun ammortizzatore sociale». L’impegno continua. Appumento alla regione Lazio, nel quartiere Garbatella, mercoledì 25 marzo per uno «speakers’ corner» di neet, disoccupati e precari. «Questa volta non ci accontenteremo di un tavolo a porte chiuse». SCIOPERO SOCIALE · A Roma c’è #Garantiamociunfuturo Il coordinamento #Garantiamociunfuturo nasce per denunciare l'inadeguatezza del programma europeo Garanzia Giovani e per organizzare in ogni regione i migliaia di beneficiari su degli obiettivi rivendicativi fondamentali da declinare in ogni territorio, a seconda delle specificità regionali: salario minimo, reddito di base, universalizzazione dei diritti e degli ammortizzatori sociali. Nella regione Lazio, al termine della mobilitazione sul lavoro gratuito presso il centro per l'impiego Porta Futuro lo scorso 7 novembre, il coordinamento ha stilato una serie di punti da contrapporre alle insufficienze del Programma e della sua attuazione: dall'innalzamento dei rimborsi in relazione al tetto massimo previsto per legge, da 400 a 600 euro, alla loro erogazione mensile, fino ad arrivare alla trasparenza nella gestione dei fondi investiti su tirocini e stage e al monitoraggio delle aziende che aderiscono al Progetto. Inoltre #Garantiamociunfuturo è uno dei tasselli della rete politico-sociale dello strike meeting e del percorso dello sciopero sociale, che vede nella connessione, nella cooperazione e nel mutualismo delle lotte dei precari, degli studenti, dei disoccupati, dei professionisti atipici, dei lavoratori e delle lavoratrici, il punto di partenza per la costruzione di un'opposizione sociale nel Paese.
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