20150320nazionale2

ALL’INTERNO
“Sbilanciamo
l’Europa”
CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 2,00
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento
postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004
n.46) art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/23/2013
ANNO XLV . N. 68 . VENERDÌ 20 MARZO 2015
EURO 1,50
Un giorno da pecora
Alla fine ha ceduto. Inchiodato e smentito dalle intercettazioni in cui raccomanda suo figlio a Ercole Incalza,
il dominus del dicastero delle infrastrutture arrestato per corruzione, il ministro Maurizio Lupi annuncia le
dimissioni. La decisione dopo un lungo incontro con Renzi e Alfano. Il Pd e le opposizioni ringraziano PAGINA 6
CHI LASCIA
E CHI RESTA
L
CRISI GRECA | PAGINE 4,5
GIORGIO |PAGINA 8
IRAQ
Obama: «L’Isis
è il risultato
della nostra
invasione»
ROBERTO MONALDO LAPRESSE
ATTENTATO A TUNISI
I
l giorno dopo il sanguinoso attacco al museo del Bardo di Tunisi pieno di visitatori,
l’unica certezza è il numero dei morti. Secondo l’ultimo bollettino diramato dalle autorità tunisine, viene confermato che le vittime
sono 20, diciannove delle quali turisti europei,
tra cui quattro italiani, già identificati. Quarantasette le persone rimaste ferite.
Per quanto riguarda le indagini, il primo ministro tunisino Habib Essid ha riferito che la
polizia ha fermato e arrestato «nove complici».
Intanto, a più di 24 ore dall’attentato, è arrivata la rivendicazione dello Stato islamico: «È solo la prima goccia»
GINA MUSSO |PAGINA 2
Mentre la Bce bacchetta sul fiscal compact Italia, Francia, Belgio e Finlandia, Atene resta al centro di timori Ue
Una causa di diffamazione che ci ha visto involontari protagonisti abbatte un
muro della giurisprudenza e apre una
breccia importante per i diritti civili. Fino a mercoledì scorso accostare una persona qualunque all’omosessualità è stato sempre giudicato di per sé - considerato il presunto sentire collettivo di questo
paese - causa di discredito e pubblico ludibrio. E perciò senza eccezioni sempre
diffamatorio. Una sentenza storica della giudice Valeria Ciampelli ha invece
assolto «il manifesto» per il titolo «Matrimonio all’italiana» pubblicato nella
copertina del 16 marzo 2012 che raccontava un’altra sentenza storica, ma della
Cassazione, sul caso di due cittadini ita-
Le stime del Def
parlano chiaro:
il Jobs Act
inciderà
al massimo
per lo 0,1% del Pil
Per ripartire
occorrerebbe
un Workers Act
TUNISIA-ANALISI |PAGINA 3
Un Paese diverso in piazza
contro i jihadisti, che
nella crisi profonda pescano
tra i giovani diseredati
SBILANCIAMO L’EUROPA
INSERTO
all’interno
ANNAMARIA RIVERA
SENTENZA STORICA DEL TRIBUNALE DI ROMA
Matteo Bartocci
liani sposati in Olanda ai quali veniva
riconosciuto sì «il diritto a una vita familiare» ma vista l’assenza di una legge, in Italia quell’unione – legittima –
era purtroppo priva di effetti giuridici.
Una persona eterosessuale ritratta sul
giornale si è sentita diffamata dall’accostamento e ha querelato la direttrice.
Il tribunale di Roma, rompendo un
tabù decennale, ha però dato ragione
all’avvocato Marcello Marchesi, che ha
difeso «il manifesto» (e i diritti di tutti),
avvalendosi anche della testimonianza
di Imma Battaglia, organizzatrice
dell’iniziativa illustrata in quella coper-
tina. Essere omosessuali non è un reato
né un illecito. È una espressione libera e
neutra della propria sessualità ed esservi accostati non può (più) essere considerato di per sé come un’offesa. Tantomeno in un giornale che si è sempre battuto contro le discriminazioni e per i diritti civili. La nostra assoluzione è stata
piena: «Il fatto non sussiste».
La sessualità è un diritto che la comunità intera ha il dovere di rispettare. Speriamo che ora cada anche l’ultimo tabù, il più grande, quello di un parlamento che da decenni resta muto e sordo a ciò che la società e la magistratura
hanno ormai dimostrato di saper interpretare e accettare.
«L’Isis è il diretto risultato di al
Qaeda in Iraq che è cresciuta
con l’invasione Usa, esempio di
una conseguenza inattesa. Per
questo dovremmo prendere la
mira prima di sparare». A dirlo
non è il governo di Damasco o
quello di Teheran. A dirlo è il
presidente Obama, in un’intervista su Vice
CRUCIATI |PAGINA 3
L’Isis rivendica la strage
«Arrestati nove complici»
Sorpresa, l'omosessualità non offende
Vertice caos Ue,
la Grecia per Schulz
ora è «pericolosa»
Risposta Usa
a Netanyahu:
«Sì all’ipotesi
dei due Stati»
Dopo la vittoria di Netanyahu, il
New York Times cita una fonte
della Casa Bianca, su una presunta intenzione dell’Amministrazione Obama di dare il suo appoggio a una risoluzione Onu
per i «Due Stati», basata sui confini del 1967, precedenti l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est
Andrea Fabozzi
e dimissioni sono sopravvalutate.
Non bisognerebbe considerarle la
conclusione di uno scandalo, finale
in gloria per chi (in questo caso Renzi) voleva i disonorati (in questo caso Lupi) fuori
dal suo governo, ma non poteva dirlo ad alta voce. E non poteva perché rischiava di
perdere l’appoggio degli alleati. Renzi lascia
Lupi e si tiene stretto Alfano. Riceve applausi, quando dovrebbe chiedere scusa e spiegare perché ha scelto e confermato quel ministro. Lui, così attento alla narrazione positiva, ci raccomandava il «merito». Mentre attorno raccomandavano i figli.
Lupi non è indagato. Non fosse per il solito malloppo di intercettazioni sarebbe rimasto al suo posto, perfetta eccellenza italiana pronta per la prima fila dell’Expo.
Non è sul rottamatore, è chiaro, che si poteva fare affidamento per ristabilire un minimo di correttezza e trasparenza. Del resto Grandi opere e leggi obiettivo non se
ne vanno con Lupi. E a giudicare dai profondissimi silenzi prima delle dimissioni,
e dagli eccessivi complimenti dopo, le abitudini dell’ex ministro non sono sconosciute alla compagnia che resta a reggere
il governo.
Non se n’è andata la ministra Boschi,
azionista di una banca in cui suo padre
era vicepresidente e suo fratello dirigente,
commissariata da Bankitalia che ha ragione di temere per i depositi dei correntisti.
Non ha fatto una piega Renzi, quando si è
saputo che il suo grande finanziatore Serra ha speculato sulle banche popolari, valorizzate da un decreto del governo. E ha
tirato dritto quando è venuto fuori che alla sua cena elettorale da mille euro a testa
c’era Buzzi, che i magistrati considerano
il regista di Mafia Capitale. Anzi, si è rifiutato di fornire l’elenco di tutti i commensali per ragioni di privacy. E quanto a moralità, da presidente del Consiglio si trova
adesso a dover sostenere la candidatura
del condannato De Luca in Campania.
Tutto questo resta, oggi che Lupi se ne
va. E se ne va da ministro, non da indispensabile alleato. Consegnate le dimissioni, discuterà con Alfano e Renzi quale
altra poltrona assegnare a Ncd. Poi, informa un comunicato, parlerà ai giovani del
suo partito di «idee e valori per il futuro
dell’Italia». C’è attesa per i valori.
ISRAELE/PALESTINA
BIANI
pagina 2
il manifesto
PRIMAVERA DI SANGUE
Il giorno dopo •
Gina Musso
L
VENERDÌ 20 MARZO 2015
e notizie fornite con esasperante parsimonia dalle autorità tunisine, gli interrogativi su chi, cosa, come che restano tali, una rivendicazione che desta ancora qualche dubbio. Il giorno dopo la sanguinosa azione al museo nazionale del Bardo, si può ben dire che chiarezza e verità
sono ancora da annoverare tra i dispersi.
Secondo l’ultimo bilancio diramato dal
ministero della Sanità tunisino nel pomeriggio di ieri, nell’attacco di mercoledì a Tunisi sono morti 20 turisti stranieri, una
guardia di sicurezza tunisina e i due assalitori. 47 i feriti. Gli italiani che hanno perso
la vita nell’assalto sono effettivamente
quattro. Personale dell'ambasciata a Tunisi e dell'Unità di crisi della Farnesina, dopo aver avuto accesso all'obitorio
dell'ospedale Charles Nicolle, hanno confermato purtroppo che tra le vittime ci sono i due italiani che finora risultavano irreperibili. Le altre salme identificate finora
sono quelle un australiano, una britannica, una colombiana, un francese, due giapponesi e due spagnoli. Altri due turisti spagnoli, riferisce Radio Mosaique, che al momento dell’attacco si erano rifugiati nei sotterranei del museo, ne sono riemersi incolumi oltre 24 ore dopo.
Per quanto riguarda le indagini, il primo
ministro tunisino Habib Essid riferisce che
la polizia ha fermato nove sospetti. Quattro persone sono state arrestate ma la loro
identità resta un mistero, a differenza di
quella dei due attentatori uccisi: si tratterebbe di Yassine Abidi, residente nel quartiere popolare Ibn Khaldoun a Tunisi e Saber Khachnaoui, originario di Kasserine, la
città dell'ovest in cui l'islamismo radicale
sembra fare più proseliti in Tunisia...
La rivendicazione dello Stato islamico
diffusa via Twitter attribuisce loro i nomi
di battaglia «Zakaria al Tunis» e «Abou
Anas al Tunis». Nel messaggio audio si riconoscerebbe la voce dello speaker che abitualmente legge i notiziari dell'emittente
radiofonica dell'Isis, al Bayan, i cui studi si
trovano a Mosul. L’Isis si rallegra per «l'uccisione e il ferimento di decine di crociati e
apostati» e canta le «eroiche» gesta dei
due, sopraffatti solo «dopo che avevano finito le munizioni». Non mancano le altrettanto rituali minacce per il futuro: «Gli apostati che sono in Tunisia sappiano che questa è solo la prima goccia di pioggia e che
non godranno di sicurezza né di pace».
A proposito di radio, quella nazionale tunisina pare che ieri sia stata oggetto di minacce non meglio precisate. Nel quartiere
Il bilancio finale è di 23 morti, 20 sono turisti stranieri.
Identificati i 4 italiani. La polizia annuncia nove arresti
«È solo la prima gocc
Da Mosul l’Isis
rivendica l’assalto
di Tunisi
e minaccia nuove
stragi. Il turismo
cola a picco
Lafayette, dove si trovano i suoi studi, sono state comunque intensificate le misure
di sicurezza.
Secondo alcune fonti tra gli arrestati figurano la sorella e il padre di Khachnaoui,
uno dei due terroristi uccisi, presi nel corso di un blitz della polizia a Sbeitla, a est di
Kasserine, e sospettati di essere direttamente coinvolti nell'azione.
Non conteggiato nel bilancio ufficiale, è
stato comunque celebrato dal web un cane poliziotto di nome Akil, in forza alla brigata al Anyab, che ha perso la vita durante
l'assalto delle forze di sicurezza. Media tunisini riferiscono che quando è stato portato via in barella gli agenti hanno organizzato un picchetto d'onore estemporaneo.
Intanto il Consiglio dei ministri che si è
svolto ieri nella capitale ha stabilito che
400 nuovi agenti saranno assunti per garantire la sicurezza nei musei e nelle sedi
istituzionali tunisine. Saranno molti di più
i tunisini che perderanno il lavoro per gli
effetti che la strage avrà sui flussi turistici
diretti verso il paese maghrebino. In poche
ore sono stati vanificati gli sforzi profusi negli ultimi mesi per far ripartire le buone relazioni con i tour operator europei. Costa
Crociere, per fare un esempio, ha già annunciato «la sospensione di tutti i futuri
scali previsti in Tunisia».
Il ministro della Cultura tunisina Latifa
Lakhdhar fa sapere comunque che il museo del Bardo riaprirà al più tardi martedì
prossimo.
L’INGRESSO DEL MUSEO DEL BARDO DI TUNISI, IERI /FOTO LAPRESS
INTERVISTA · Mourad Ben Cheikh, premiato per il suo film sullo scoppio della primavera araba
Un attacco al «laboratorio» Tunisia
Valentina Porcheddu
N
el 2011, con il suo film La
Khaoufa Baada Al’Yaoum
(Mai più paura) – un documentario sullo scoppio della primavera araba girato a caldo nelle strade di Tunisi e nelle case di personaggi chiave della rivoluzione –
Mourad Ben Cheikh ha partecipato
a circa centoventi festival. Da Cannes a Dubai, da Buenos Aires a
il manifesto
DIR. RESPONSABILE Norma Rangeri
CONDIRETTORE Tommaso Di Francesco
DESK
Matteo Bartocci, Marco Boccitto, Micaela Bongi,
Massimo Giannetti, Giulia Sbarigia
CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE
Benedetto Vecchi (presidente),
Matteo Bartocci, Norma Rangeri,
Silvana Silvestri
Goa, passando per Lisbona, Atene e
Istanbul. Dopo un lungo soggiorno
in Italia negli anni della sua formazione al Dams di Bologna e le prime esperienze lavorative in Rai, risiede oggi nel suo paese natale.
L’assalto al museo del Bardo –
stando alle notizie disponibili finora – non sembra aver provocato
danni alle opere esposte. Tuttavia, possiamo cogliere in questo
atto lo stesso impeto di violenza
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del 09-02-2015
chiuso in redazione ore 22.00
tiratura prevista 41.211
che in Siria come in Iraq ha portato alla distruzione del patrimonio
pre-islamico da parte dell’Isis?
Malgrado non siano ancora del
tutto chiare le circostanze dell’attentato, è evidente che chi colpisce
un museo è consapevole di ciò che
rappresenta, delle idee e delle culture che veicola. Dall’epoca di Bourguiba l’identità cartaginese è stata
accolta dalla politica e utilizzata per
definire un’identità alternativa a
quella puramente araba. Era un modo di opporsi allo svilimento in cui
il panarabismo riduceva la nostra
identità composita. Ancora oggi,
l’ideologia islamista rinnega la ricchezza dell’identità tunisina. Attaccare un museo equivale dunque a
voler cancellare quell’identità nella
quale invece i tunisini si riconoscono e della quale fanno una bandiera. Il Bardo è un intreccio di significati, è il viaggio del nostro popolo
nel tempo, è un luogo di conoscenza per gli stranieri che visitano la Tunisia. Colpire il turismo significa abbattere l’economia del paese ma anche ostacolare la politica, visto che
il museo si trova accanto al parlamento. In questa sovrapposizione
di simboli, nel mirino dei terroristi
c’era soprattutto l’esperienza unica
del «laboratorio della democrazia»
che stiamo vivendo.
Ieri è toccato a un museo. Ma dal
2011 a oggi - seppur in modo diverso - in Tunisia sono stati attaccati cinema e altri luoghi di cultura e arte. Senza dimenticare l’in-
«Chi colpisce
un museo
è consapevole
di ciò che
rappresenta.
Il Bardo è un
intreccio di
significati, è il
nostro viaggio
nel tempo»
carcerazione di blogger, rapper e
artisti di strada.
È una tendenza generale che pone una cultura contro l’altra. C’è un
modo di essere tunisini e c’è
un’ideologia a noi estranea, la quale – subito dopo la rivoluzione – ha
cercato di radicarsi nel paese. In
quel periodo, le rappresaglie contro
gli artisti avevano l’obiettivo di dare
una scossa all’opinione pubblica,
convincendola della forza dell’identità islamica. Oggi quella spinta prevaricatrice permane ma il «ring» in
cui si svolge la battaglia non è lo
stesso. Nel post-rivoluzione un partito come Ennahda era solidale agli
attacchi contro il cinema e gli artisti, oggi li disapprova.
C’è, invece, una parte del paese
che «sostiene» il terrorismo?
In qualche angolo, in alcuni quartieri popolari delle periferie disagiate, sì. Ma il paese nel suo insieme,
in tutte le sue espressioni politiche
e attraverso il tessuto associativo,
condanna questi atti. Dopo gli assassinii politici di Chokri Belaïd nel
febbraio del 2013 e di Mohamed
Brahmi a luglio dello stesso anno,
le istituzioni sono andate verso una
più larga unità governativa e hanno
prestato maggiore attenzione al benessere di tutti i tunisini. Anche se
bisogna ammettere che la troika
(governo di transizione in carica
dal 2012 al 2014, ndr) ha impiegato
molto tempo a dare le dimissioni,
la morte di Brahmi ha innescato
quel meccanismo che ha portato
Ennadha fuori dal potere. Sulla scia
di quello che è successo ieri, credo
che la legge sul terrorismo, la quale
giace in parlamento da diversi mesi, passerà rapidamente.
Perché, nonostante la sicurezza
avesse già mostrato le sue falle,
non si è provveduto ad approvare
tale legge in tempi più stretti?
Il vecchio parlamento (in carica fino al dicembre 2014, ndr) ha ritardato l’approvazione con il pretesto
che la legge avrebbe smantellato anche il sistema di finanziamento alle
associazioni di tipo religioso e caritativo nonché agli istituti stranieri.
In ogni caso, pur ritenendo necessaria la legge, credo che il modo più efficace per combattere il terrorismo
non sia l’utilizzo di elicotteri o kalashnikov. Bisogna sviluppare invece mezzi e capacità finalizzati a prosciugare le fonti di finanziamento.
In fondo, è più semplice seguire il
flusso del denaro che dare la caccia
ai terroristi tra le montagne.
Rispetto al momento in cui hai girato il documentario sulla rivoluzione, la paura del futuro è stata
definitivamente sconfitta o si è
fatta nuovamente largo negli animi dei tunisini?
La differenza fondamentale è che
ieri si aveva paura di qualcosa mentre oggi si ha piuttosto paura per
qualcosa. Prima si temevano la dittatura, la polizia, il partito al potere.
Oggi si hanno sentimenti di preoccupazione per il paese, la democrazia, le libertà. Se facciamo un confronto tra i paesi in cui c’è stata la
cosiddetta primavera araba, la Tunisia è l’unico dove lo Stato continua
a esistere e in cui i principi libertari
che avevano guidato il popolo alla
rivolta sono diventati realtà. La democrazia che stiamo costruendo
non è ancora la democrazia «ideale» ma è una realtà. I risultati della
rivoluzione sono davanti ai nostri
occhi, li possiamo misurare. Dopo
l’attentato subìto ieri e il duro colpo
inferto all’economia, dobbiamo prepararci ad affrontare tempi difficili.
Ma resto ottimista e sono certo che
la democrazia sopravviverà.
VENERDÌ 20 MARZO 2015
il manifesto
PRIMAVERA DI SANGUE
Guerre •
USA E CALIFFATO
La Casa bianca riconosce le responsabilità di Bush
ma dimentica l’attacco del 2011 contro la Libia
cia»
PETROLIO E JIHAD, MARE «SICURO»
Con l'aggravarsi della «minaccia terroristica, di
drammatica evidenza per gli eventi in Tunisia, si
è reso necessario un potenziamento del
dispositivo aeronavale italiano in Mediterraneo».
Lo ha detto il ministro della Difesa Roberta
Pinotti alle commissioni Difesa e Esteri della
Camera. «Le forze armate stanno dispiegando in
aggiunta a quanto ordinariamente fatto ulteriori
unità navali, team di protezione marittima,
aeromobili ad ala fissa e rotante, velivoli a
pilotaggio remoto e da ricognizione elettronica,
tanto per la protezione delle linee di
comunicazione, dei natanti commerciali e delle
piattaforme off-shore nazionali, quanto per la
sorveglianza delle formazioni jihadiste». «Il tutto ha detto Pinotti - è integrato nell'operazione alla
quale è stato dato il nome di 'Mare Sicuro’».
USA · Il Presidente intervistato da Vice punta il dito contro George W. Bush
Obama: «L’Isis è il risultato
della nostra guerra in Iraq»
Chiara Cruciati
«L’
Isis è il diretto risultato
di al Qaeda in Iraq che
è cresciuta con l’invasione Usa, esempio di una conseguenza inattesa. Per questo dovremmo prendere la mira prima di
sparare». A dirlo non è il governo
di Damasco o quello di Teheran. A
dirlo è Obama: lo sviluppo repentino dello Stato Islamico è la conseguenza di otto anni di occupazione Usa dell’Iraq.
Così Obama, accusato di non
avere strategie efficaci contro il califfato, si toglie i sassolini dalla scarpa e punta il dito contro il predecessore, il George W. Bush della
guerra globale al terrore e
dell’esportazione di democrazia.
Lo fa in un’intervista a Vice News,
scoprendo le divisioni interne
all’amministrazione Usa che dice,
si contraddice, si smentisce da sola
ormai da mesi. Ora fa autocritica: i
settarismi iracheni sono il frutto
della distruzione dello Stato, delle
sue istituzioni, dei delicati equilibri tra sunniti, sciiti e kurdi, spazzati via dalla coalizione dei volenterosi. Proprio quei settarismi vengono
additati da Obama come la principale fonte da cui l’Isis attinge: «Se
l’Isis venisse sconfitto, il problema
di fondo dei sunniti resterebbe.
Quando un giovane cresce senza
prospettive per il futuro, l’unico
D
opo l’attentato cruento al
Museo del Bardo, a Tunisi, di rassicurante c’è che
anche questa volta la parte più
consapevole della popolazione tunisina sia scesa in piazza immediatamente. È questa la ricchezza
della Tunisia post-rivoluzione: la
reattività democratica, il senso di
partecipazione civile, l’attivismo
sociale e politico. Altrettanto encomiabile è che il comitato organizzatore del Forum sociale mondiale abbia confermato che esso
si svolgerà a Tunisi, come stabilito, dal 24 al 28 marzo.
È indubbio, però, che il sanguinoso attacco terroristico rappresenti un allarmante salto di qualità nell’escalation della violenza integralista; e che esso sia parte di
un piano mirante a colpire a morte l’unico paese in cui la
‘primavera araba’ non è divenuta
cupo inverno.
Questo attacco non è un fulmine a ciel sereno. Il salafismo non è
una novità per la Tunisia, se è vero
che anche durante la dittatura benalista era rifugio per fasce di giovani frustrati dalla mancanza di lavoro, futuro, dignità. E, dopo la fuga di Ben Ali, l’effervescenza partecipativa, la presa di parola pubblica, il fervore delle iniziative politiche e culturali avevano subito visto come contraltare le provocazioni della galassia salafita-takfirista, a cominciare da Ansar al-Sharia: dagli atti di vandalismo contro
luoghi e protagonisti della vita culturale all’attacco contro l’ambasciata degli Stati Uniti, il 14 settembre 2012; dagli assalti a sedi di partiti politici e dell’Ugtt alle aggressioni contro docenti, politici, intellettuali, sindacalisti, giornalisti,
femministe, artisti, blogger.
pagina 3
ANALISI
Il drago jihadista
e la crisi sociale tunisina
Annamaria Rivera
Su questo versante, il 2013 è
la comprensione manifestata a
stato anno cruciale: marcato
suo tempo da alcuni, a comindalla sequela di attacchi terroriciare da Ghannouchi, verso i sastici di stampo alqaedista sul
lafiti: per esempio, dopo l’attacMonte Chaambi, alla frontiera
co del 2012 a un’esposizione
algerina; dalla scoperta quasi
d’arte nel Palazzo El Ebdellia, dequotidiana di depositi d’armi o
cretata blasfema da loro stessi e
campi d’addestramento jihadiperfino dal laico ministro della
sta; soprattutto
Cultura di allora.
dagli omicidi poCerto, il terroriCerto il terrorismo
litici, nella forsmo jihadista si è
ma dell’esecuzio- islamista si è
più che mai globane premeditata
lizzato e la Libia
e attuata da sica- globalizzato, ma
confinante è la bari, di Chokri Be- pesca sempre più
se di molti gruppi
laïd (6 febbraio)
che ne fanno pare di Mohamed tra i diseredati
te. Ma v’è anche
Brahmi (25 luun fattore interno
glio), entrambi figure di grande
che contribuisce a irrobustire il
rilievo del Fronte popolare.
drago jihadista. I problemi sociali
Non è irrilevante il contributo
- disoccupazione, precarietà, diche la stessa Ennahdha, il partisparità regionali - che avevano fato islamista detto moderato (ogvorito l’insurrezione popolare si
gi parte della coalizione che regsono ancor più acuiti, riproducenge il governo di Habib Essid), ha
do la spirale di rivolte spontanee
offerto, deliberatamente o mee dura repressione, tipica della
no, all’incremento delle acque
storia della Tunisia indipendente.
ove nuota il drago jihadista.
In più il semi- o sottoproletariato
Spesso i suoi leader ‘moderati’
giovanile dei quartieri urbani e
hanno accarezzato il pelo della
delle regioni più diseredate, che
corrente interna filo-salafita.
era stato l’autentico primo attore
Non poche volte hanno aperto
dell’insurrezione, oggi è ancor
le porte o perfino accolto in
più emarginato, di nuovo espropompa magna predicatori rigoripriato della dignità che aveva risti provenienti dal Marocco,
vendicato e della stessa rivoluziodall’Algeria, dall’Egitto, dalla Pene di cui era stato protagonista.
nisola arabica. Per non dire delNon per caso la figura di Moha-
modo che ha per ottenere potere e
rispetto è diventare un combattente. Non possiamo affrontare tutto
ciò con l’antiterrorismo e la sicurezza, separandoli da diplomazia,
sviluppo e educazione».
Le dichiarazioni del presidente
sono passate quasi in sordina ma
hanno la forza di un terremoto: si
mette in discussione l’intera strategia Usa, fatta di interventismo bellico e interessi economici nazionali,
priva spesso di una visione di lungo periodo, basata sui finanziamenti a pioggia di soggetti divisivi,
dall’ex premier iracheno al-Maliki
alla Coalizione Nazionale Siriana.
«L’Isis va visto non solo come un
med Bouazizi è stata ormai abbandonata in qualche cassetto
della storia.
È tra questi giovani che pesca
la galassia salafita. La quale in
non pochi casi è radicata negli
ambienti diseredati più di quanto
non sia la sinistra politica. Soprattutto Ansar al-Sharia in qualche
misura ha ridato loro dignità, sia
pur illusoriamente, rendendoli
protagonisti, per esempio, di azioni di ‘vigilanza sui costumi’: minacce e attacchi contro venditori
d’alcol; chiusura violenta di esercizi commerciali durante il mese
di Ramadan; profanazione e distruzione di mausolei sufi, imposizione del loro comando in certe
moschee. Come nelle migliaia di
casi di giovani che vanno a combattere in Iraq e in Siria, sono atti
di tipo compensatorio, che permettono loro di sfogare l’aggressività, sublimare la frustrazione sociale, sfuggire alla disperazione.
Tutto questo è destinato ad aggravarsi per ragioni molteplici: gli
effetti della crisi economica mondiale, il crollo del turismo, la fuga
d’investitori e imprenditori stranieri, favorita dal clima di violenza. Questi fattori, a loro volta, s’inseriscono nella cornice di governi, in particolare l’attuale, che,
sottomessi come sono agli ordini
del Fmi e di altri poteri forti, sembrano poco inclini ad affrontare
la grande questione sociale cui abbiamo accennato.
Ma la Tunisia è un piccolo,
grande paese capace di sorprendere. Non è assurdo sperare
che un nuovo, potente movimento popolare, questa volta
più organizzato, torni a riappropriarsi delle rivendicazioni della rivoluzione.
Un drone americano
è stato abbattuto
dall’aviazione
siriana, a Latakia,
roccaforte di Assad
movimento alieno al più vasto
mondo politico del Medio Oriente
– scrive Ramzi Baroud, direttore di
Palestine Chronicle – ma anche come un fenomeno in parte occidentale, il ripugnante risultato delle avventure neocolonialiste nella regione, accompagnate alla demonizzazione delle comunità musulmane
nelle società occidentali».
«Con ‘fenomeno occidentale’
non intendo dire che l’Isis sia una
creazione delle intelligence straniere – continua – Ovviamente, si è
giustificati a sollevare domante su
fondi, armamenti, mercato nero,
le facili vie con cui migliaia di combattenti sono arrivati in Siria e
Iraq. Ma tracciando il movimento
dall’ottobre 2006 quando l’Isis nacque, si individuano le sue radici: lo
smantellamento dello Stato iracheno e del suo esercito da parte
dell’occupazione militare Usa».
E alla fine chi di settarismi ferisce, di settarismi perisce. A stretto
giro dalle dichiarazioni di Obama,
è giunta la reazione di uno dei falchi dell’entourage di Bush, l’ex segretario di Stato Dick Cheney, grande burattinaio di quell’invasione:
«Obama è il peggior presidente della mia vita. Ne pagheremo il prezzo». Fuori dalle ripicche politiche,
resta il grande vuoto della strategia
Usa in Medio Oriente: dopo aver
cambiato cavallo più di una volta,
aver continuato a finanziare deboli
opposizioni in Siria ed essere stati
costretti ad aprire ad Assad, gli Usa
sono nudi. E debolissimi.
Tanto deboli da subire quasi in
silenzio l’abbattimento di un proprio drone da parte dell’aviazione
siriana. È successo martedì a Latakia, roccaforte della famiglia Assad. I servizi Usa stanno ancora indagando, seppur il governo siriano ammetta di aver colpito il Predator. Perché? Volava fuori dai
confini ufficiosi di intervento della coalizione. Obama con Assad
non intende parlare ma una cooperazione indiretta esiste. Per questo Damasco non ha mosso un dito da quando cominciarono i raid
Usa. Ora traccia le sue «linee rosse»: Obama voli pure sui cieli siriani, ma non nelle zone sotto il controllo governativo.
Il ritorno
di fiamma
libico-tunisino
Manlio Dinucci
L’
attacco terroristico in
Tunisia, che ha mietuto anche vittime italiane, è strettamente collegato alla caotica situazione della Libia, sottolineano ambienti governativi e media. Mercoledì sera perfino Obama ha riconosciuto, giustamente, che la responsabilità della nascita dell’Is è degli
Usa per la guerra all’Iraq - presidente era George W. Bush. Dimenticando però che anche il
caos in Libia, e sotto la sua presidenza, è stato provocato dalla
guerra della Nato che, esattamente quattro anni fa, ha demolito lo Stato libico.
Il 19 marzo 2011 iniziava infatti il bombardamento aeronavale della Libia: in 7 mesi,
l’aviazione Usa/Nato effettuava 10mila missioni di attacco,
con oltre 40mila bombe e missili; venivano finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e gruppi islamici
fino a pochi mesi prima definiti terroristi; venivano infiltrate
in Libia anche forze speciali,
tra cui migliaia di commandos
qatariani. A questa guerra, sotto comando Usa tramite la Nato, partecipava l’Italia con basi
e forze militari. Molteplici fattori rendevano la Libia importante per gli interessi statunitensi
ed europei. Le riserve petrolifere – le maggiori dell’Africa, preziose per l’alta qualità e il basso costo di estrazione – e quelle di gas naturale, che rimanevano sotto il controllo dello Stato libico che concedeva alle
compagnie straniere ristretti
margini di guadagno; i fondi sovrani, ammontanti a circa 200
miliardi di dollari (spariti dopo
la confisca), che lo Stato libico
aveva investito all’estero e che
in Africa avevano permesso di
creare i primi organismi finanziari autonomi dell’Unione africana. E la posizione della Libia,
all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente.
Sono stati dunque gli Usa e i
maggiori alleati Nato - la Francia in primis - a finanziare, armare e addestrare in Libia nel
2011 gruppi islamici fino a poco prima definiti terroristi, tra
cui i primi nuclei del futuro Is;
a rifornirli di armi con una rete
organizzata dalla Cia (documentata da un’inchiesta del
New York Times) quando, dopo aver contribuito a rovesciare Gheddafi, sono passati in Siria per rovesciare Assad - ora ritornato «interlocutore» degli
Usa come se nulla fosse; sono
stati sempre gli Usa e la Nato
ad agevolare l’offensiva dell’Is
in Iraq, nel momento in cui il
governo al-Maliki si allontanava da Washington, avvicinandosi a Pechino e a Mosca. L’Is
ha svolto di fatto un ruolo oggettivamente funzionale alla
strategia Usa/Nato di demolizione degli Stati con la guerra
coperta.
L’attacco terroristico a Tunisi è avvenuto il giorno dopo
che Aqila Saleh, presidente del
«governo di Tobruk», aveva avvertito l’Italia che «il Califfato
può passare dalla Libia al vostro Paese», premendo su Roma perché intervenga in Libia.
Il ministro Gentiloni ha subito
risposto: «Faremo la nostra parte». E il nuovo capo di stato
maggiore dell’esercito, generale Danilo Errico, ha assicurato
che, «se il governo dovesse dare il via» a un intervento in Libia, «noi siamo pronti». Pronti
dunque a combattere a fianco
dell’«Esercito nazionale libico», braccio armato del «governo di Tobruk», al cui comando
– documenta The New Yorker,
il 23-2-2015 – c’è il generale
Khalifa Haftar che, «dopo aver
vissuto per due decenni in Virginia (Usa), lavorando per la
Cia, è ritornato a Tripoli per
combattere la guerra per il controllo della Libia».
pagina 4
il manifesto
VENERDÌ 20 MARZO 2015
EUROTUNNEL
Bruxelles •
Martin Schulz: «Sarebbe bene che Syriza mantenesse gli impegni
presi, un nuovo aiuto finanziario potrà arriverà in seguito»
LA SEDE DELLA BCE. E SOTTO LA PROTESTA DI MERCOLEDÌ A FRANCOFORTE/FOTO ZUMA-LA PRESSE
Al consiglio d’Europa mini-summit sulla
situazione greca chiesto da Tsipras, che vorrebbe
«politicizzare» la crisi, sull'orlo del default. Ma i
partner chiedono solo di «applicare le riforme»
La Grecia ora
è «pericolosa»
Anna Maria Merlo
PARIGI
D
opo un minuto di silenzio
per l’ultimo attacco terrorista, a Tunisi, la Grecia «pericolosa» (la definizione è di Martin
Schulz) è stata al centro delle preoccupazioni, pur non essendo
nell’agenda ufficiale del Consiglio
europeo di ieri e oggi a Bruxelles,
con in programma le questioni economiche (Fiscal Compact e riforme strutturali), l’energia e, per la
politica estera, l’Ucraina, la Libia e
il terrorismo.
L’idea di un mini-summit ai margini del vertice - una «flash-mob»
per Schulz - che obtorto collo Mario Draghi, Jean-Claude Juncker e
Jeroen Dijsselbloem hanno accettato ieri sera, con la presenza di Angela Merkel e François Hollande,
su richiesta di Alexis Tsipras, ha irritato i partner, che hanno chiesto
senza esito di poter partecipare anch’essi, vista l’importanza del caso
greco.
Con la domanda di uno spazio
specifico dedicato ad Atene, Tsipras ha voluto politicizzare il dossier greco, che è bloccato in uno
stallo a rischio. «La Ue ha bisogno
di un’iniziativa politica – ha spiegato Tsipras – che nel rispetto sia della democrazia che dei trattati consenta di lasciarci la crisi dietro le
spalle e di muoverci verso una
maggiore crescita».
È più o meno la stessa cosa che
ha detto la vigilia il primo ministro
francese, Manuel Valls, convocato
a Bruxelles dalla Commissione per
spiegarsi rispetto al non rispetto
da parte di Parigi del parametro
del 3%.
La Francia ha comunque ottenuto due anni di tempo in più per
rientrare nei parametri, ma per la
Grecia c’è un trattamento speciale:
«è assolutamente chiaro che nessuno può attendersi una soluzione
né stasera né lunedì» a Berlino (nel
previsto incontro con Tsipras), ha
sottolineato Merkel, secondo la
quale un accordo si farà «solo se si
trova un’intesa e tutti si attengono
ad essa».
Cioè, non verrà versata in anticipo parte dell’ultima tranche (7,2
miliardi) del secondo piano di aiuti, sulla carta prolungato di 4 mesi
il 20 febbraio scorso, prima che Atene mostri di aver intrapreso le riforme del Memorandum.
Il presidente dell’europarlamento ha giudicato la Grecia «pericolosa» (e sprezzante ha chiesto a Tsipras se aveva «dimenticato la cravatta»): per Martin Schulz, «sarebbe bene che la Grecia mantenesse
gli impegni presi, un nuovo aiuto finanziario arriverà dopo». Ma il
tempo stringe.
Lo stesso Schulz ha dato credito
all’ipotesi che Atene sia quasi a secco e che abbia difficoltà a far fronte ai nuovi, imminenti, rimborsi:
«nel breve termine, 2-3 miliardi di
euro sono necessari per rispettare
gli impegni esistenti» (oggi scadono altri 2 miliardi da restituire dopo l’1,2 già versati e altri seguiranno a ruota per raggiungere la quota di 6 miliardi dovuti in questo mese di marzo, una buona parte
all’Fmi).
Il governo greco sta grattando il
fondo del barile in casa (dai fondi
pensione alla previdenza sociale),
ma non ce la farà se la Bce non versa almeno i 1,9 miliardi di interessi
maturati (ha anche in cassa circa
11 miliardi del Fondo ellenico di
stabilità).
Ma Draghi fa concessioni con il
contagocce, per tenere il governo
di Syriza sulla corda: ha aumentato l’Ela (liquidità di emergenza,
l’unico rubinetto che resta aperto
tra Francoforte e il sistema bancario greco, dopo aver chiuso la possibilità di dare in garanzia le obbligazioni, junk per le agenzie di rating, come «collaterale») di altri
400 milioni, al di sotto della richiesta di Atene.
La Grecia è sull’orlo di un panico bancario e il presidente dell’Eurogruppo, Dijsselbloem, gioca col
fuoco, evocando uno «scenario cipriota», con il blocco dei movimenti di capitali (una misura considerata il prologo per un Grexit).
Juncker ha cercato di mediare, ricordando che «la Grecia negli ultimi tre anni ha intrapreso molte riforme, fatto molte economie nel
budget, realizzato un avanzo primario. Non è vero dire che la Gre-
cia non abbia fatto sforzi, non sarebbe corretto dire che i greci sono
un popolo di fannulloni». Ma anche Juncker insiste: bisogna rispettare gli impegni ed evoca quelli del
2012 (cioè il Memorandum), oltre
ai più recenti. Non è solo la Grecia
a ricevere bacchettate.
La Bce ha richiamato all’ordine
Italia, Francia, Belgio e Finlandia
sul rispetto del Fiscal Compact,
per Draghi «la gravità degli squilibri sta aumentando in vari paesi».
La Ue sembra un bateau ivre in
questo periodo, incapace di prendere decisioni: anche per il piano
Juncker, il progetto si concentra
ora, a pochi mesi dalle decisioni definitive su dove intervenire con la
«leva» che dovrebbe coinvolgere
315 miliardi, sulla «depoliticizzazione» della scelta della selezione dei
progetti.
Terreno minato anche in politica estera. A cena c’era l’Ucraina
nel menu.
Il draft del comunicato finale
non prevede nuove sanzioni alla
Russia, ma la riconferma automatica di quelle in atto che scadono a
giugno, se non ci saranno passi
avanti entro quella data.
La Lettonia, che ha la presidenza
semestrale del Consiglio, ha inserito nelle conclusioni la richiesta a
Mrs.Pesc, Federica Mogherini, di
mettere in atto un «piano di azione» della Ue contro la propaganda
russa, perché «stiamo perdendo la
battaglia» della comunicazione
con Mosca.
Sulla Libia, il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusc, spinge da
giorni per un nuovo intervento militare.
Francoforte / FUOCO MEDIATICO SU IG METAL E DIE LINKE DOPO LA MANIFESTAZIONE
«Ci vediamo ad Atene».
Blockupy è in movimento
Beppe Caccia
I
l giorno dopo la mobilitazione di
Blockupy, i media e la politica governativa
tedesca hanno indossato l’elmetto. Il tabloid scandalistico Bild, dimenticando quanto accaduto a Tunisi, ha titolato la sua prima
pagina «Terrore a Francoforte» a caratteri cubitali, arricchita da selezionate fotografie di
mezzi della polizia in fiamme. È lo stesso foglio capofila della martellante propaganda
contro l’ipotesi di «regalare ancora miliardi di
Euro ai greci scansafatiche», accompagnata
dalla campagna sul «caso Varoufakis», sul banco degli imputati per aver mostrato il dito medio «ai tedeschi».
Ma a dettare la linea alla stampa in Germania è stato soprattutto l’autorevole quotidiano
liberal-conservatore Frankfurter Allgemeine,
che ha direttamente attaccato il sindacato dei
metalmeccanici Ig Metall e il partito Die
Linke, responsabili della conduzione di un
«gioco cattivo e pericoloso» non solo per aver
coperto le proteste, ma soprattutto per aver
«convocato a Francoforte violenti da tutta Europa». Nel mirino degli editorialisti della Faz
sono entrati in particolare Ulrich Winkel, parlamentare regionale e Katja Kipping, co-portavoce nazionale di Die Linke. Quest’ultima colpevole di aver definito «spaventoso» il dispositivo repressivo preparato dalla polizia. Winkel
accusato per aver dichiarato ieri di essersi sentito «colpito e turbato» dalle immagini degli
scontri della mattina, ma di «comprendere bene l’indignazione e la rabbia dei manifestanti» per le politiche delle oligarchie europee.
E sul comportamento della polizia, rispon-
Presentata in conferenza
stampa un’agenda
di iniziative. Nel pomeriggio
assemblea per lo sciopero
sociale
dendo agli attacchi della Cdu, ha puntato invece il dito la stessa Kipping nel corso del dibattito straordinario svoltosi al Bundestag, il parlamento federale di Berlino, dove ha rivendicato il ruolo di «osservazione e mediazione» svolto dai parlamentari della sinistra. Proprio per
evitare un’«escalation della polizia, i cui interventi hanno provocato i primi scontri quando
hanno cercato di impedire che i manifestanti
si avvicinassero all’Eurotower».
Il bilancio di mercoledì è pesante: oltre duecento i feriti tra i manifestanti, per i colpi di
manganello o per l’intossicazione da gas irritanti, mentre i diciotto fermati sono stati già
tutti rilasciati, vista l’assenza di specifiche contestazioni a loro carico. Dati forniti dalla coalizione Blockupy, che si è presentata coesa
all’affollata conferenza stampa svoltasi al Teatro Naxos, con l’attiva partecipazione del regista Willy Praml. Per Hannah Eberle della Interventionistische Linke «dobbiamo rallegrarci
del fatto che finalmente una politica di resistenza è arrivata in Germania. E i trentamila
manifestanti dimostrano che molte persone
non sono più disposte a farsi terrorizzare da
questa gestione della crisi». Allo stesso modo
Eberhardt Heise di Attac ha spostato la discussione dalla cronaca degli scontri (e dalla conta
dei danni materiali, quantificati dalla polizia
dell’Assia in «qualche milione di Euro») alle
questioni politiche riportate dalla protesta al
centro della discussione pubblica: «perché
non si parla di violenza, a proposito della crescente precarizzazione dei rapporti sociali,
dello smantellamento dei servizi sociali o delle migliaia di migranti che muoiono affogati
nel Mediterraneo?» Sul terreno della «disobbedienza civile – ha concluso Frederic Wester
della rete Ums Ganze – dopo il successo del
18 marzo, Blockupy va avanti».
E proprio sulle prospettive dell’iniziativa
transnazionale dei movimenti, in relazione
con le esperienze politiche e di governo più
avanzate, che si concentrerà ora il dibattito
all’interno di questa «ibrida coalizione». Già ieri si è svolta all’Università di Francoforte una
prima riunione promossa dagli «strikers» con
l’obiettivo di tradurre sul piano europeo la
suggestione dello sciopero sociale, mentre sta
prendendo quota l’ipotesi di un incontro entro il prossimo giugno ad Atene, come proposto dalle reti solidali elleniche. Con in testa
l’idea che la successiva tappa della mobilitazione potrebbe essere proprio Berlino, sotto
le finestre del governo Merkel. Di certo questo
movimento pan-europeo contro le politiche
di austerity, che a Francoforte ha superato
con successo la sua prima prova di piazza,
non ha l’intenzione di fermarsi proprio ora.
VENERDÌ 20 MARZO 2015
il manifesto
EUROTUNNEL
Atene •
pagina 5
Per la London School of Economics, la Germania grazie alla crisi greca (per la
differenza dei tassi d’interesse) ha guadagnato dal 2009, quasi 80 miliardi di euro
MITI E REALTÀ · La Germania guadagna dal disastro ellenico e i fondi Ue finiscono solo alle banche
I retroscena del pressing Ue
Pavlos Nerantzis
ATENE
N
VAROUFAKIS, L’OSCENO
Digitus impudicus
Dimitri Deliolanes
V
aroufakis aveva ragione.
Non ha mai alzato il digitus impudicus verso la
Germania. È un falso, come aveva sempre detto. Lo hanno confessato i produttori di una trasmissione satirica tedesca. Facendo fare una figura penosa
non solo all’autorevole Bild («Varoufakis è bugiardo, imbroglione, irresponsabile») ma anche alla serissima trasmissione politica in cui il ministro greco era intervenuto domenica, professando (inutilmente) la sua innocenza. Crolla così miseramente
quello che era assurto a simbolo
assoluto dello stato dei rapporti
tra Grecia e Germania (intesa come Europa). Nell’osceno gesto,
il «dramma» dell’eurozona: l’arrogante ministro greco insulta il
suo benefattore e guida spirituale, il suo salvatore e signore. Ingrato, come tutti i greci.
Ma come è stato possibile?
Semplice. Stiamo spettatori di
una grande offensiva mediatica,
a livello europeo. La Grecia, Tsipras, Varoufakis, il Partenone,
l’ouzo e la mussaka debbono essere calunniati sempre e ovunque, bisogna accusarli di tutto,
pedofilia compresa. Altrimenti,
sono capaci - Dio ci salvi! - anche di mettere limiti al predominio tedesco nell’eurozona. Cose
da pazzi. Bisogna fermarli.
Ecco anche i media italiani, se-
ri, serissimi, mettersi in fila per
riprodurre in automatico qualsiasi accusa venga da Berlino o da
Bruxelles, dito di Varoufakis
compreso.
Ieri un altro caso. Il Parlamento greco ha approvato, con una
straordinaria maggioranza dei
due terzi, le misure per sostenere le 300 mila famiglie in emergenza umanitaria, per un costo
di 200 milioni. E subito da Bruxelles un certo Declan Costello
si è affrettato a protestare: «Non
ci avete chiesto il permesso, è
un atto unilaterale».
Cosa fa un giornalista normale quando sente Costello dire
questo? Di solito ride e passa ad
altro. No, in Italia l’atto «unilaterale» è diventato un fatto, l’ennesimo delitto di Atene, citato da
tutti, nel Sole 24 Ore perfino nel
titolo. Ora è chiaro: se avete dei
cittadini che muoiono di fame,
non fate nulla se non chiedete il
permesso prima a Costello, magari anche a Scheuble, per maggiore sicurezza. Se l’Is attacca il
Vaticano che si fa? Si manda a
Costello il preventivo dettagliato del costo dell’intervento delle
forze dell’ordine. Vale anche
per gli incidenti stradali: attenti
a non chiamare l’ambulanza (e
gravare lo stato) senza il suo permesso. Non ci credete? Fate male: così va l’Europa e la stampa
con lei.
ella capitale greca si sapeva
a priori che lo scontro tra
un governo delle sinistre e
l’establishment europeo sarebbe
stato inevitabile. Non tanto perché
«l’altra Europa» a cui fa riferimento
Syriza - gli Stati uniti d’Europa - va
in una direzione diversa rispetto alla struttura attuale dell’Ue, basata
sui Trattati di Maastricht e di Lisbona, dove la logica dei mercati prevale sulla politica, o meglio dominano le politiche neoliberiste.
L’alto livello di tensione tra Atene da una parte e Bruxelles e Berlino dall’altra, presentata come mancanza di fiducia, è inevitabile nel
momento in cui Tsipras, pur presentandosi pragmatico e disposto
ad applicare solo una parte del programma di Salonicco per far fronte
alla crisi umanitaria greca, non é disposto a seguire le politiche precedenti, come vogliono i partner europei. La ristrutturazione del debito
greco è la pietra angolare, l’elemento portante per il risanamento economico della Grecia e per una costruzione europea diversa dall’attuale.
Tutto ció era noto. Ma tutto sommato ad Atene speravano che l’«avversario», ovvero i creditori internazionali, avrebbero rispettato le regole del gioco. A distanza di un mese
e mezzo dallo scrutinio del 25 gennaio, invece, ció che si registra é
una lotta quasi accanita contro il
governo di Alexis Tsipras, il quale rispetta i suoi impegni verso i creditori nonostante i gravi problemi di liquiditá. Visto che l’ aggiustamento
di bilancio greco è stato piú pesante che altrove (i tagli di spesa e le
misure fiscali hanno diminuito del
45% il reddito delle famiglie contro
il 20% del Portogallo e il 15% di Italia e Irlanda), Atene vorrebbe una
soluzione basata per il momento
sull’accordo dell’Eurogruppo del
20 febbraio scorso. Quindi un negoziato a livello politico, un’apertura
di trattativa come ha scritto pochi
giorni fa il vice-premier Yannis Dragasakis sul Financial Times.
I partner europei, invece, non solo non sembrano disposti a dare
tempo e spazio al neogoverno greco, ma sempre di piú c’è la netta impressione che vorrebbero la sua caduta, la messa in angolo di Syriza. E
usano a questo proposito tutti i
mezzi: la Bce che ha chiuso i rubinetti del finanziamento di emergenza (Ela) che tiene in piedi le banche
greche; l’Euroworking group e l’Eurogruppo che chiede dati tecnici
delle finanze greche - che guarda
caso sono sempre negativi o mancanti - come pressuposto per un negoziato politico; e la stampa internazionale che, quando non mente,
diventa perfino più realista del re.
VAROUFAKIS E TSIPRAS. A SINISTRA MARIO DRAGHI/FOTO LA PRESSE-REUTERS
A causa della mancanza di liquiditá nelle casse dello Stato ellenico
tutti, o quasi, parlano del grexident,
cioé di un default non voluto o di
un grexit (Schaeuble addirittura ha
detto a Varoufakis che Berlino sarebbe disposto ad aiutare l’ uscita
della Grecia dall’eurozona); tutti
sottolineano ad ogni occasione i benefici che hanno avuto i greci dagli
aiuti finanziari pari a 240 miliardi
di euro ottenuti nel maggio 2010 e
nell’ ottobre 2011, ma pochi notano che soltanto il 10% di questo
flusso di soldi é stato assorbito per i
fabbisogni interni e veri del paese.
Il resto é servito per ricapitalizzare
le banche greche - le quali peró
non prestano un euro alle imprese
medie e piccole in stato di emergenza - e sopratutto per pagare gli interessi sui capitali dei prestiti ai creditori internazionali. Vale a dire che
la Grecia prende in prestito sempre
di più dai suoi partner (e questo vale per l’ Italia e tutti i paesi) per pagare debiti precedenti. Intanto decine di migliaia di greci fanno la fame, perdono i loro posti di lavoro,
si ammalano, i piú giovani scelgono le vie di migrazione, ecc., ecc. Le
vittime umane, lo sfacelo sociale,
l’annientamento del welfare state e
la perdita del 25% della richezza nazionale in Grecia sono considerate
dall’establishment europeo perdite
collaterali.
Chi viene beneficiato e chi guadagna con la crisi greca? In Germania
ma anche nel resto d’Europa a sentire i media e parte del mondo politico - che non perdono occasione
per disprezzare i Pigs, i paesi del
sud - i contribuenti tedeschi pagano «di tasca loro» per i greci. Ma
questi opinion makers - su cui Wolfang Schauble insiste sempre nei
suoi discorsi - non dicono nulla del
fatto che la Germania grazie alla crisi greca e in specifico alla differenza dei tassi d’interesse ha guadagnato dal 2009, secondo la London
School of Economics, quasi 80 miliardi di euro.
L’economista americano Paul
Krugman (premio Nobel) ha scritto
sul New York Times che «i politici tedeschi non hanno mai spiegato ai
loro cittadini “la matematica”, ma
hanno scelto la via facile del moralismo per l’atteggiamento irresponsabile dei mutuati». Unica eccezione dalla Grande Koalition, Klauss
Regling (Mes), che ha detto: «Fino-
RIPARAZIONI DI GUERRA · Due tedeschi: «Ecco i nostri soldi»
Se la Germania non paga, e anzi i politici tedeschi sembrano inorridire di fronte
alle richieste greche, ci penseremo noi cittadini. Dev’essere questo il pensiero
che ha mosso una coppia tedesca a recarsi in una città greca, Nauplia, consegnando al sindaco 875 euro. Un simbolico risarcimento di guerra «personale»,
in nome dell’amore nei confronti della popolazione greca, secondo quanto dichiarato dai due tedeschi. Si tratta del gesto di Ludwig Zaccaro, di origini italiane e di sua moglie Nina Lange, sessantenni e provenienti da Amburgo. Sono
stati ricevuti con estrema gioia dagli abitanti della cittadina del Peloponneso
nella quale si sono recati. Come scritto dal sito Lettera43, che ha intervistato
Ludwig Zaccaro, ««Erano toccati dalla nostra solidarietà. Ma eravamo stati diverse volte in Grecia, conoscevamo bene questo popolo».
La coppia tedesca ha poi postato un video su youtube, nel quale invita il popolo tedesco a imitarli e il governo tedesco a prendersi le proprie responsabilità
storiche nei confronti delle richieste effettuate dal governo di Alexis Tsipras.
ra i prestiti di salvataggio alla Grecia non sono costati un solo euro al
contribuente tedesco».
Questa campagna diffamatoria
piena di stereotipi («i greci pelandroni», promossa non solo dalla Bild ma anche da quotidiani «autorevoli» italiani) nasconde una realtá
emersa recentemente dall’Office
for National statistics britannico: i
«pigri» greci lavorano molto di piú
rispetto ai «disciplinati» tedeschi
(42,2 ore settimanali i greci, 35,5
ore i tedeschi)». È questa campagna che alimenta il nazionalismo
greco, fino alla minaccia dell’apertura dei confini perché i jihadisti invadano la Germania.
Mercoledì i «18» dell’Eurozona
venivano descritti dalle agenzie internazionali come «irritati perché il
governo di Tsipras si rifiuta di promuovere le riforme», vale a dire gli
impegni presi dai governi precedenti. Costello Declan, il rappresentante della Commissione europea alle
«istituzioni» è contrario (sic) al progetto di legge che facilita i contribuenti greci a pagare i loro debiti allo Stato, nonostante che non influenzi negativamente il bilancio
dello Stato. E poi tutti sono contrari
a Yanis Varoufakis, perció fanno di
Una cosa è certa: la
ricetta della troika
(Fmi, Ue, Bce) ha avuto
conseguenze simili
a quelle di una guerra
tutto per farlo allontanare dalla sua
carica. Il video falso del ministro
delle finanze greco che manda
a quel paese con il dito alzato la
Germania é solo l’ ultimo episodio
di una lunga fila di menzogne.
Il viaggio di Tsipras a Berlino il 23
e l’incontro con i leader europei ai
margini del summit di Bruxelles di
ieri sera e probabilmente anche oggi, dovrebbe servire per distendere il
clima, ma sará dura per premier greco. «La guerra é la continuazione
della politica con altri mezzi... é un
atto di forza che ha lo scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontá» scriveva Karl
von Clausewitz. E Atene, secondo
Berlino, deve sottomettersi alla volontá dei suoi partner. Clausewitz
aveva notato per primo che «la prima vittima di ogni guerra è la veritá». Tante le cose scritte e dette su
come la Grecia sia arrivata a questa
crisi e su chi ne ha la responsabilitá.
Una cosa è certa. La ricetta applicata dalla troika (Fmi, Ue, Bce) per il risanamento economico del Paese ha
avuto conseguenze simili a quelle di
una guerra. E la sensazione che «stiamo vivendo in condizioni di guerra»
e di emergenza permanente ce
l’hanno (quasi) tutti i greci.
pagina 6
il manifesto
UN GIORNO DA PECORA
MAURIZIO LUPI
E MATTEO RENZI
FOTO LAPRESSE
GOVERNO · Maurizio Lupi annuncia a «Porta a Porta» che oggi formalizzerà il suo passo indietro
E il ministro consegnò
le dimissioni a Vespa
Andrea Colombo
M
aurizio Lupi getta la spugna. Non di fronte al Parlamento: quella è una
formalità che espleterà stamattina a Montecitorio. Di fronte a
quella che un tempo veniva chiamata, non tanto ironicamente,
«la terza camera della Repubblica», il salotto di Bruno Vespa, Porta a Porta. Lo fa perché «quando
ti vedi tirato in ballo, non so per
cosa, le decisione migliore è questa». Lo fa perché queste dimissioni «rafforzeranno l’azione di
governo». Lo fa ammettendo un
solo errore, peccatuccio veniale:
«Non me la sono sentita di dire a
mio figlio di restituire il Rolex regalatogli per la laurea. Forse ho
sbagliato».
Questa la linea ufficiale. La realtà è che il ministro delle infrastrutture si è rassegnato quando
ha capito che Matteo Renzi sarebbe andato fino in fondo.
«Non mi ha mai chiesto di dimettermi», ha ripetuto ieri Lupi. Forse è vero. Di certo però Renzi gli
aveva detto che tutto il Pd, non
solo la minoranza, gli avrebbe votato contro. Che a definire la situazione «insostenibile, al netto
di qualsiasi scelta garantista»
non era solo Gianni Cuperlo, che
poco prima aveva tirato la bordata in questione, ma lo stesso stato maggiore renziano. A decidere, insomma, sarebbero stati i deputati. Ma in questi casi si sa come vanno le cose. L’ipotesi che a
ordinare all’intero Pd di reclamare la testa di Lupi sia stato invece
proprio il segretario e presidente
del consiglio è tutt’altro che fantasiosa.
Restava un solo appiglio, e anche quello nel corso della notte
si era rivelato scivolosissimo: la
resistenza dell’Ncd, che appena
24 ore prima aveva minacciato il
passaggio dalla maggioranza
all’appoggio esterno. Con Angelino Alfano e con il suo gruppo dirigente, Matteo Renzi ha adoperato lo schema a cui ricorre sempre in questi casi: la sfida diretta.
Il premier era convinto, a ragione, che di fronte alla minaccia di
una crisi e di elezioni anticipate
che nessuno, neppure lui vuole,
ma che tutti hanno più motivo di
lui di temere, i centristi si sarebbero arresi. Ancora una volta, i
VENERDÌ 20 MARZO 2015
Le ultime resistenze abbandonate di
fronte a un Pd compatto per la sfiducia
e al cedimento di Alfano, messo davanti
alla minaccia di elezioni anticipate.
E ora l’Ncd rischia il dissolvimento
fatti gli hanno dato ragione e la
carta si è dimostrata vincente.
Per Renzi è un successo pieno,
non solo perché è riuscito a disinnescare la bomba prima che de-
flagrasse col voto sulla mozione
di sfiducia che era previsto per
martedì. Il risultato ottenuto con
lo sgombro di Maurizio Lupi dal
ministero delle Infrastrutture è
cospicuo di per sé. Al momento
di formare il governo, l’ex sindaco di Firenze aveva fatto il possibile per sottrarre all’uomo di Comunione e liberazione una delle
poltrone più strategiche che ci siano nel governo. In privato non
aveva nascosto la sua diffidenza,
e proprio per non legare troppo
il suo nome a quello di Lupi aveva evitato di inviare qualcuno
dei suoi uomini di fiducia al ministero, una volta rivelatosi impossibile sottrarlo all’ex forzista.
Chi prenderà ora il suo posto?Il dimissionario argomenta
che, «nell'interesse del governo»,
sarebbe meglio che non andasse
a un esponente del Pd, per evitare che l’esecutivo diventi un monocolore. Forse Renzi lo ascolterà, ma solo per affidare l’incarico
a un suo uomo di fiducia, pur se
tecnico. Raffaele Cantone, per
esempio, o un altro magistrato di
peso e allo stesso tempo di provata affidabilità. Qualcosa in cambio all’Ncd dovrà essere dato,
ma non sarà un dicastero importante. Renzi punta agli Affari regionali. Il partito di Lupi spera in
qualcosa di più succulento: nello
specifico un ministero che ancora non esiste ma che è da un pezzo in gestazione, quello «del
Sud».
Sempre che dell’Ncd si possa
ancora parlare, e i primi a non esserne affatto certi sono proprio i
dirigenti di quel partito, o almeno alcuni di loro. «Il Nuovo centrodestra non esiste più», ammette uno dei più alti in grado. Segue previsione tra le più fosche:
presto un numero congruo di
parlamentari abbandonerà la
scialuppa affondante per tornare
al vascello di capitan Silvio, che
ha dimostrato di resistere alle
tempeste molto meglio del previsto. In questo caso, proprio come è avvenuto con l’elezione del
capo dello Stato, Renzi pagherebbe una vittoria comunque indiscutibile con un aumento dei rischi per la stabilità del suo governo. Lupi, che tra tutti i dirigenti
dell’Ncd è l’unico a vantare un
peso specifico notevole in Lombardia e che ha piazzato i suoi uomini in più o meno tutte le postazioni centrali di Cl, non farà parte dell’eventuale drappello di
ri-transfughi. Non subito almeno. Ma se il dissolvimento
dell’Nuovo centrodestra procederà spedito, difficilmente resterà
in un partito morente.
La scelta di Lupi, per quanto
pochissimo spontanea, è stata accolta da un coro di applausi, tanto fragorosi da rivelare quanto
fondo sia il sospirone di sollievo
che nascondono. Per il Pd è la vicesegretaria Debora Serracchiani a lodare l’alta «sensibilità istituzionale» del quasi ex ministro,
mentre Lorenzo Guerini apprezza il «gesto politico, un atteggiamento ragionevole e serio».
Alfano poi si scompone commosso: «La decisione di un uomo delle istituzioni, onesto e per
bene». Oggi la maggioranza applaudirà Maurizio Lupi in aula,
per rendergli l’onore delle armi.
Ma se l’uomo si accontenterà o
se coverà rancori letali, ci vorrà
un po’ per capirlo.
«OPERAZIONE SISTEMA» · Il ministro chiama Incalza per chiedergli di incontrare il figlio
Quando al telefono i Lupi fanno «uuuuuhh!»
FIRENZE
I
l telefono può essere traditore, non si sa
mai chi può starti a sentire, oltre al tuo interlocutore dall’altro capo della linea. A
volte, dunque, è meglio esprimersi in codice,
per evitare imbarazzi. Anche se il rischio è di
non afferrare il messaggio. Non sembra il caso di Philippe Perotti, figlio di Stefano (l’imprenditore arrestato nell’operazione «Siste-
Nelle intercettazioni agli atti
dell’inchiesta, presunte
«pressioni», nomi in «codice»,
appuntamenti al ministero per
«consulenze e suggerimenti»
ma»), intercettato in una conversazione con
una persona non indagata, Davide Vicini. I
due parlano di lavori per alcune autostrade,
tra cui la Orte-Cesena e Vicini vuole sapere
da Philippe Perotti che ruolo potrebbe avere
qualcuno ma, furbo, senza nominarlo esplicitamente e allora chiede di «quelli che stanno
con uuuuhh!! ... che stanno nel bosco a fare
uuuuhh!!». E Perotti taglia corto: «Ne parliamo a voce comunque, senza parlare troppo
di nomi», ma «il problema è quello che non
possiamo scrivere sulle email».
Il ministro presenta il figlio
Uno di quelli del bosco, Maurizio Lupi in
persona, l’8 gennaio 2014 telefona a Ercole Incalza al ministero: «Se fra un quarto d’ora ti
mando questo che è venuto da Milano a Roma a far due chiacchiere?... nel senso di avere
consulenze e suggerimenti eccetera». Incalza: «Dimmi chi viene ... dimmi!». E Lupi: «Viene mio figlio Luca». «Quando vuoi, ma figurati!, o adesso o alle cinque...». Lupi: «No conviene che venga adesso». Per gli investigatori in
ballo sarebbe proprio il lavoro per Luca. Alle
14.29 Incalza chiama Stefano Perotti e gli
chiede quando può essere a Roma. Perotti:
«Posso arrivare venerdì se vuoi». Poi: «Chi è
questo?». E Incalza: «Il figlio di Maurizio».
«Insisteva, capisci?»
«Con noi ci ha provato... io gli ho tenuto botta pesantemente ma in quel caso lì era Lupi
che insisteva...capisci?». Così l’ex dg della metropolitana di Milano Giuseppe Cozza parla
con Giulio Burchi (indagato nell’inchiesta di
Firenze), di presunte pressioni per far avere
incarichi a Cavallo e Perotti. La telefonata è
del 3 marzo. Burchi dice a Cozza di aver incontrato un giornalista di Report che potrebbe chiamarlo «per chiederti vecchie robe della MM» ma Cozza risponde che non intende
parlare con i giornalisti. Poi, scrive il Ros, chiede se «verrà fuori la notizia dell’assunzione
del figlio di Lupi»: «Sono arrivati a mettere la
mani su questa roba qui?...e la storia di Lupi
non è venuta fuori?...del figlio?». Per Burchi
«sta venendo fuori , il figlio lavora con Perotti,
è addirittura assunto... lavora per una società
di architettura...Mor..lei è la sorella della moglie di Perotti... in queste società si possono
dare gli incarichi l’uno con quell’altro...no
ma lui si è presentato lì...alla riunione...poveretto...ha poi diritto di lavorare anche questo
ragazzo...però è lo schifo di vedere questo monopolio di tutti i lavori di Perotti che poi se li
ruba alla MM li ruba a tutti quelli che girano».
PD ROMA · Orfini: nuove regole contro i« signori delle tessere»
Il Pd di Roma è ostaggio dei «signori delle tessere». Matteo Orfini, il commissario del pd romano inviato da Renzi dopo l’esplosione di «Mafia capitale», commenta i primi risultati che emergono della relazione di Fabrizio Barca sull’inchiesta interna nei circoli dem. Una relazione che, prosegue Orfini, «racconta
la verità di un partito in larga parte infeudato, non al servizio dei cittadini e degli iscritti ma dei signori
delle tessere o delle preferenze, e che per questo rischia di essere pericoloso per la città». Dallo screening emerge «una realtà drammatica in cui una parte non piccola degli iscritti non sono iscritti veri:
uno su 5 ha dei problemi» e alcune persone «non sanno neanche di essere iscritte», c’è chi risulta irrintracciabile «anche se abbiamo nome e cognome, e persone che rientrano in una ’filiera’ e che ti rispondono: ’mi ha iscritto quel parlamentare, quel consigliere regionale, ma io in realtà non ho pagato nulla,
ha fatto tutto lui, non partecipo». Il presidente dell’assemblea del Pd e commissario del partito romano
annuncia che il tesseramento sarà riaperto con regole nuove ed è prevista «una ridefinizione della struttura organizzativa dei circoli che aiuti a smontare questi meccanismi». Ai nuovi iscritti verrà chiesto un
contributo equivalente a un giorno di salario per rendere più difficile la formazione dei «pacchetti di tessere». E, assicura Orfini, «saranno cacciati a pedate tutti quelli che devono essere cacciati».
FALSO IN BILANCIO
L’Anticorruzione
in aula al senato
Dubbi sul «baco»
ROMA
P
assaggio in aula al senato
per il disegno di legge anticorruzione. Alla fine la
conferenza dei capigruppo ha
trovato un piccolo spazio per
salvare le apparenze. La legge
attesa da due anni e ritardata
infine per le divisioni nella
maggioranza si discuterà solo
la prossima settimana. Ma almeno ieri, per mezz’ora, subito dopo la fumata nera per
l’elezione dei giudici costituzionali, si è potuta ascoltare la voce del relatore (il senatore
D’Ascola di Ncd) e si può dire
che la fase finale è cominciata.
Non è detto che sia senza rischi: si teme che nella legge ci
sia un «baco».
Resta infatti il problema
dell’emendamento del governo, che riguarda la non punibilità del falso in bilancio in casi
di particolare tenuità del danno, ma che va a cambiare un
decreto legislativo che il governo ha emanato appena e che
entrerà in vigore solo il prossimo 2 aprile. Si può cambiare
una legge prima che questa sia
applicabile? La commissione
non ha formalmente risposto.
«Il problema c’è, ma riguarderà il presidente del senato
quando il provvedimento verrà votato in aula», ha sostenuto
il presidente della commissione giustizia Nitto Palma, di Forza Italia, accusato dal Pd di fare ostruzionismo. Lui però
l’emendamento l’ha messo in
votazione, anche se convinto
che «richiamando un articolo
non ancora in vigore era privo
di portata normativa, il che mi
avrebbe imposto di dichiararne la inammissibilità». Ma ha
preferito girare la questione al
presidente del senato.
Il ministro della giustizia Orlando ha sostenuto l’opposto.
«Sono schermaglie di carattere
procedurale - ha detto - l’articolo può essere votato, non esiste un problema legato al decreto, ci sono tanti provvedimenti in cui si fa riferimento
ad articoli di legge che non
hanno ancora efficacia». Secondo Orlando «se il tema è la conoscenza da parte dei componenti della commissione, il testo era già stato distribuito. Se
il problema era la pubblicazione del testo in Gazzetta ufficiale, questo è accaduto mercoledì». Ma anche lui sa che il problema è un altro: quella legge
da emendare entrerà in vigore
solo il 2 aprile. «Il tema della vigenza riguarda il testo quando
esce dall’aula dopo il voto finale, non quando arriva in aula»,
replica Orlando, lasciando intendere che quando la legge
anticorruzione e sul falso in bilancio sarà approvata definitivamente - deve ancora passare
per la camera dei deputati - il 2
aprile sarà passato da un pezzo».
Persino più sofisticata la versione del relatore D’Ascola: «È
vero che il decreto sulla tenuità del fatto non è entrato in vigore, ma è vigente, cioè è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
ed è dunque conoscibile. I parlamentari cioè - assicura il senatore del Ncd - sono perfettamente in grado di mettere a
punto dei sub emendamenti visto che la norma è conoscibile
e verificabile». Se ne riparlerà
da mercoledì in aula, al senato.
Sbilanciamo l'Europa
VENERDÌ 20 MARZO 2015 WWW.SBILANCIAMOCI.INFO - N°58
SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO
Nonostante l’ottimismo parolaio di Renzi, le stime del Def parlano chiaro: il Jobs Act inciderà
sul Pil al massimo per lo 0,1%. Per ripartire ci sarebbe bisogno di una politica industriale,
di contratti veri e di investimenti pubblici. Una riforma del lavoro per uscire dall’Ottocento 2.0
U
na volta - per essere competitivi - si svalutava la
moneta, oggi si svaluta il lavoro: meno diritti, meno tutele, meno retribuzione. Le politiche neoliberiste si sono basate in questi decenni su quattro pilastri: la riduzione della spesa pubblica e del ruolo dello Stato; le privatizzazioni e le liberazioni (a partire da quella
della circolazione dei capitali); gli investimenti privati (il
mercato) e la precarizzazione del mercato del lavoro. La
riforma del mercato del lavoro è una di quelle riforme
strutturali cui Renzi affida la speranza di rilanciare l’occupazione e l’economia. In realtà, come sappiamo tutti, in
questi anni l’esistenza di oltre 45 forme di lavoro atipico
Giulio Marcon
non ha incoraggiato ad assumere di più, ma semplicemente a sostituire i contratti di lavoro con tutele con forme di lavoro precario, senza diritti. Non si sono creati posti di lavoro in più, ma solo più lavori precari. Nè queste
riforme hanno avuto effetti salvifici sull’economia. Proprio nel Def si dice che l’impatto del Jobs Act sul Pil sarà
minimo: non più dello 0,1%. Si tratta di previsioni; e quelle del governo in questi vent’anni sono sempre state troppo ottimistiche e poi inevitabilmente corrette al ribasso.
L’assunto dal quale si parte è noto: bisogna mettere le
imprese nelle condizioni di avere meno vincoli e costi
possibile. E così potranno assumere. Solo che, probabilmente, i nuovi assunti saranno assai pochi: la maggior
parte dei nuovi contratti saranno sostitutivi, cioè trasformeranno rapporti di lavoro pre-esistenti più gravosi in
quelli più convenienti introdotti dalla legge di stabilità.
Tutte le agevolazioni fiscali di questi anni, le imprese
non le hanno utilizzate per fare investimenti nell’economia reale, ma in quella finanziaria e speculativa o per arrotondare i loro profitti.
CONTINUA |PAGINA II
La rilettura
La Prima Internazionale e i sindacati
Il capitale è una forza sociale
concentrata, mentre dal canto
suo l’operaio non dispone che
della sua forza riproduttiva individuale. Perciò il contratto
tra capitale e lavoro non può
mai venir stabilito su basi eque
(…). Il solo potere sociale che
possiedono gli operai è il loro
numero. La forza del numero è
annullata dalla disunione.
Quest’ultima tra gli operai è
prodotta e perpetuata dalla
concorrenza inevitabile fra loro stessi. I sindacati originariamente sono nati dagli esperimenti spontanei degli operai
per superare la suddetta concorrenza o per lo meno per attenuarla, per mutare i termini
del contratto (…). L’oggetto immediato dei sindacati è tuttavia limitato alle necessità delle
lotte quotidiane, ai mezzi per
difendersi contro gli attacchi
del capitale, alle questioni sala-
Karl Marx
riali e della durata del lavoro
(…). I sindacati si sono occupati finora troppo esclusivamente
di lotte locali immediate contro il capitale e non hanno avuto sufficiente consapevolezza
del loro potere d’azione contro
il sistema della schiavitù del salariato. Si sono perciò tenuti
troppo lontani dal movimento
generale sociale e politico (…).
I sindacati devono oggi imparare ad agire coscientemente co-
me centri organizzatori della
classe operaia nel grande interesse della sua emancipazione
totale. Devono appoggiare
ogni movimento sociale e politico che proceda in tale direzione (Risoluzioni al Congresso di
Ginevra dell’Associazione internazionale dei lavoratori, 1866,
in «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!» a cura di Marcello
Musto,
Donzelli,
2014,
pp.36-37)
Torniamo
al lavoro
Grazia Naletto
U
n miliardo e 508 milioni di euro. È
l’ammontare dell’evasione di contributi e premi assicurativi verificata da parte del ministero del Lavoro,
Inps e Inail nel 2014 su 221.476 aziende
ispezionate. Il 64,17% (più di una su due)
sono risultate irregolari e dei 181.629 lavoratori impiegati in modo irregolare, il
42,61% (77.387) erano completamente in
nero. I dati sono contenuti nel Rapporto
annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale 2014.
Il Jobs Act riuscirà davvero a migliorare
le condizioni di chi oggi è fuori dal mercato del lavoro o è relegato nel suo segmento invisibile, sommerso e malpagato? E
ammesso che alcune migliaia di disoccupati possano beneficiare della decontribuzione triennale prevista nella legge di stabilità per i neo-assunti nel 2015, cosa succederà loro quando i tre anni saranno finiti?
Libertà di licenziare, demansionamento, mantenimento delle 45 tipologie contrattuali esistenti ed estensione del lavoro
usa e getta sono ricette che rafforzano il
potere delle imprese mettendo sotto scacco e gli uni contro gli altri i lavoratori. Chi
afferma che questo è il prezzo per rilanciare l’economia e uscire dalla crisi, identificando nel costo del lavoro l’unica variabile dipendente per aumentare la produttività e la competitività del nostro paese,
non sbaglia: compie un inganno. Consapevolmente. E lo fa perché assume come
unico punto di vista quello delle imprese.
E allora è utile ribaltare la prospettiva e
riorientare lo sguardo, leggere non solo la
crisi degli ultimi anni e le scelte dell’attuale Governo, ma anche le trasformazioni
dei processi produttivi, del mondo del lavoro e delle politiche economiche dell’ultimo ventennio, attraverso gli effetti che
hanno determinato e determinano sulla
vita delle persone in carne e ossa.
Servirebbe un Workers Act. Cambiare
punto di vista significa innanzitutto fare i
conti con un modello, quello neoliberista,
che ha subordinato i diritti delle persone
(occupate e non) a quelli delle imprese e
ha ridotto progressivamente il ruolo di indirizzo dello Stato in ambito economico.
Significa confrontarsi con modelli produttivi che grazie allo sviluppo tecnologico, alla deterritorializzazione e alla globalizzazione delle imprese consentono di
precarizzare, frammentare e indebolire il
lavoro.
Significa avere il coraggio di constatare
che, senza un forte intervento pubblico finalizzato a creare buona occupazione e
una redistribuzione del lavoro che c’è, migliaia di persone sono destinate a rimanere escluse dal mercato del lavoro.
Significa non rimuovere l’urgenza di garantire un reddito a chi nel mercato del lavoro non riesce ad entrarci o ne è uscito
prima di aver maturato il diritto alla pensione.
Significa infine comprendere a pieno il
nesso stringente tra le contro-riforme del
mercato del lavoro e della scuola, lo smantellamento del welfare e le riforme costituzionali. Sono collegati da un filo spinato
comune: una svolta autoritaria che partendo dalla scuola e dal lavoro intende metterci sotto ricatto ed erodere qualsiasi processo di partecipazione.
Il Jobs Act è approvato e produrrà i suoi
effetti, ma le contraddizioni e i nodi lasciati irrisolti dalla mancanza di una strategia
di lungo respiro, capace di scegliere come
priorità il benessere sociale delle persone,
restano.
Da qui la scelta di Sbilanciamoci! di intrecciare conoscenze e competenze diverse per elaborare un Workers Act. Sarà
pronto tra qualche settimana. Ci piacerebbe che fosse un’occasione per avviare un
dibattito politico e culturale serio sul futuro del lavoro, ma soprattutto delle persone la cui vita è condizionata dal lavoro:
perché ce l’hanno già o perché non lo hanno ancora.
VENERDÌ 20 MARZO 2015
SBILANCIAMO L'EUROPA
N°58 - PAGINA II
Salari e innovazione
per tornare a crescere
È importante il ruolo della contrattazione nazionale, mentre l’Europa
dovrebbe stimolare la domanda interna invece delle esportazioni
Paolo Pini
L
a politica economica continua ad essere ancorata a vecchie ricette i cui
pilastri sono l’austerità fiscale e la
flessibilità del lavoro. Non solo si riducono
dignità e diritti sociali del lavoro, ma si attua con pervicacia la svalutazione salariale
che Commissione Europea e Bce impongono ai paesi europei sulla base della fallace
idea che tutti debbano replicare, ad oltre
più miopi e si trasformano in rentiers.
L’Italia richiede certamente riforme di
struttura, ma certo non quelle imposte dal
pensiero ormai ordo-liberista che questa
Europa germanica del rigore senza crescita ha fatto proprio con la crisi, contribuendo ad aggravarla. Queste si traducono sempre nella ricetta più privatizzazioni e più
flessibilità, come se la competitività del paese fosse un problema risolvibile con meno regole e meno Stato, e più mercato. Il
Jobs Act non muta questo quadro, anzi at-
OCCORRE UNA POLITICA INDUSTRIALE
PUBBLICA PER I SETTORI STRATEGICI,
SIA PER QUELLI TRADIZIONALI E MATURI
CHE PER QUELLI CONSIDERATI INNOVATIVI
quindici anni di distanza, il modello mercantile germanico trainato dalle esportazioni, aggravando gli squilibri commerciali
dentro l’Eurozona che sono con-causa della attuale crisi.
Questa strategia, se aumenta la competitività di costo di breve periodo sui mercati
esteri, produce la contrazione dei mercati
interni. La compressione dei salari reali al
di sotto della già debole crescita della produttività del lavoro mira a ridurre ancor
più la quota del lavoro sul reddito e favorisce i profitti che però per carenza di domanda interna non vengono investiti per
allargare la capacità produttiva, ma riversati nell’economia del debito alla ricerca di
rendimenti speculativi. Gli animal spirits
imprenditoriali di Keynes sono sempre
tua una politica del lavoro che mira alla stagnazione dei salari nominali ed alla deflazione dei salari reali. Null’altro, il resto è solo rumore di fondo: gli outsider saranno
sempre più esclusi e gli insider si trasformeranno in outsider. Non vi è traccia di alcuna politica industriale e dell’innovazione per la quale vi sarebbe necessità di investire risorse pubbliche significative. Recuperare una prospettiva di crescita di medio-lungo periodo richiede azioni integrate di politica economica sui sistemi industriali ed innovativi, per la centralità del lavoro e delle dinamiche retributive. Non
mancano certo proposte per attivare un
meccanismo virtuoso che inneschi e sostenga la crescita della produttività e delle
retribuzioni. Questa politica consentireb-
be di uscire dalla trappola ormai ventennale della stagnazione dell’economia italiana.
Anzitutto, occorre una politica industriale pubblica per i settori strategici, sia quelli
tradizionali e maturi, che per quelli nuovi
ed innovativi. La determinazione della politica industriale implica decidere come e
dove collocare la manifattura italiana nel
mercato globale in termini di contenuto
tecnologico, tipologie di produzioni, soddisfacimento della domanda; inoltre quali
cambiamenti strutturali realizzare nel sistema economico, non solo in termini di crescita quantitativa della domanda, ma cambiamenti nella sua composizione e direzione di sviluppo. È noto che l’innovazione di
prodotto ha un ampio effetto positivo
sull’occupazione; lo stesso effetto non si
presenta invece per l’innovazione di processo e per quella organizzativa. Tuttavia,
l’innovazione di processo ed organizzativa
ha un impatto forte sulle performance economiche delle imprese e sull’innovazione
di prodotto stessa. L’Italia è in grave ritardo per innescare l’innovazione sia tecnologica che organizzativa in modo sinergico,
focalizzata sui cambiamenti nell’organizzazione del lavoro a basata anche su modelli
di partecipazione diretta ed indiretta dei lavoratori, nella manifattura e nei servizi. Un
governo lungimirante e concreto che rifugge dai reiterati annunci dovrebbe sostenere l’innovazione organizzativa volta ad accrescere la partecipazione dei lavoratori
nei processi decisionali delle imprese, accrescendo sia le responsabilità che l’autonomia dei livelli inferiori e riducendo i livelli gerarchici, incentivando pratiche di organizzazione del lavoro che favoriscono lo
sviluppo e la crescita delle competenze dei
lavoratori, percorsi di formazione ed accrescimento dei contenuti dell’attività lavorativa.
Non vi è dubbio che l’obiettivo da perseguire attraverso la contrattazione sia macroeconomico, individuato nella crescita
della produttività e nel recupero di competitività dell’apparato industriale nazionale;
è il sistema nel suo complesso che deve intraprendere un circolo virtuoso. Ciò richiede due pilastri che ripristino le relazioni industriali come strumento di regolazione
del mercato del lavoro e di redistribuzione
del reddito: il contratto nazionale ed il contratto decentrato.
Nell’ambito del sistema contrattuale su
due livelli, quello centrale (nazionale e di
settore) e quello decentrato (aziendale e
territoriale), occorre anzitutto rafforzare il
primo. La contrattazione nazionale e di settore non deve rinunciare a preservare il potere d’acquisto del salario, con meccanismi di tutela del salario rispetto alle dina-
SERVIREBBE UN PIANO STRAORDINARIO
PER CREARE OCCUPAZIONE NELLA LOTTA
AL DISSESTO IDROGEOLOGICO, IN EDILIZIA
SCOLASTICA E NELLE PICCOLE OPERE
Un New Deal
o il disastro
Il governo Renzi non esce fuori dal dogma
del mercato capace di autoregolarsi
Senza politiche pubbliche la crisi non finisce
DALLA PRIMA
Giulio Marcon
La realtà è che i governi occidentali di questi anni (e Renzi,
oggi), rinunciano ad ogni politica pubblica attiva: non c’è una politica
industriale, non c’è una politica degli
investimenti pubblici (che in 20 anni
si sono dimezzati), non c’è una politica del lavoro.
Non c’è più una politica della domanda (di sostegno, programmazione, investimento), ma solo dell’offerta,
dove - per quel che ci riguarda - non è
più nemmeno offerta di lavoro, ma offerta di lavoratori alle condizioni più
vantaggiose per le imprese. Nel frattempo gli ultimi dati Istat ci dicono
che la situazione in Italia continua a
peggiorare. E già questo dovrebbe indurre i governi ad un serio ripensamento delle politiche sin qui seguite.
L’idea di lasciare al mercato la crea-
zione di occupazione non funziona e
non ha funzionato mai, se non per la
produzione di posti di lavoro precari,
effimeri, mal retribuiti, senza tutele.
Ma quale sistema economico e produttivo può pensare di sopravvivere grazie ad una idea di lavoro così retriva e
padronale? Altro che modernità, qui
siamo al ritorno all’ottocento, anche
se 2.0. Un lavoro senza qualità porta
con sè una economia senza futuro.
Senza un investimento nel lavoro (in
termini di risorse, ma anche di formazione, di tutele, ecc.) non ci può essere
alcuna economia di qualità, innovativa, capace di competere. Un’impresa
che si serve del lavoro usa e getta, non
ha speranze, è di bassa qualità, dura
poco: non ’è più impresa, ma solo business di piccolo cabotaggio (anche se
magari di grande ritorno affaristico).
Servirebbe invece una politica pubblica per il lavoro: una sorta di piano
straordinario del lavoro fondato sugli
investimenti pubblici per creare occupazione nella risposta alle grandi emergenze nazionali (lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, piccole
opere, ecc) e nelle frontiere delle nuo-
ve produzioni della cosiddetta Green
Economy (mobilità sostenibile, energie pulite, ecc.). Servirebbe uno Stato
che fosse attivo -indirettamente, ma
anche direttamente- nella creazione
di posti di lavoro, attraverso un’agenzia nazionale come quella (la Works
Progress Administration) che fu creata
da Franklin Delano Roosevelt durante
il New Deal. E servirebbero degli investimenti pazienti (che danno riscontro
sul medio periodo) in settori fondamentali per creare buona economia e
buona occupazione: nell’innovazione
e nella ricerca, nel settore formativo ed
educativo e nella coesione sociale. E
poi, bisognerebbe riprendere un discorso che oggi può sembrare in
controtendenza (sicuramente rispetto alle politiche neoliberiste), ma
quanto mai attuale e necessario: la
riduzione dell’orario di lavoro. Se il
lavoro è poco, bisogna fare in modo
che il lavoro sia redistribuito il più
possibile. Lasciare milioni di persone nella disoccupazione e nell’inattività è economicamente sbagliato,
moralmente disumano e socialmente ingiusto e pericoloso.
miche dei prezzi. Inoltre, la crescita contrattata dei salari non può essere considerata componente residuale che nel tempo
si annulla per lasciare sempre più spazio
ad una ipotetica crescita a livello decentrato lasciata alla discrezione delle imprese.
Il coordinamento delle politiche europee del lavoro dovrebbe perseguire la regola d’oro delle retribuzioni per sostenere
una crescita trainata dalla domanda interna piuttosto che dalle esportazioni. In caso
contrario, i processi di consolidamento fiscale continueranno a deprimere la domanda aggregata ed il mercato interno europeo e ad incrementare la disoccupazione, rendendo sempre più debole la dinamica salariale ed aggravando il circolo vizioso
con la stagnazione della produttività.
(la versione completa è pubblicata su
www.sbilanciamoci.info)
DECLINO
Sulla produttività l’Italia
è ferma agli anni Novanta
Roberto Romano
D
obbiamo aumentare la produttività del lavoro? Sicuramente, come quella del capitale. Tra il 1992 e il 2012 la produttività del
capitale è stata negativa dello 0,7, mentre quella
del lavoro è positiva dello 0,8 (Ocse-Istat). Pochi
altri paesi hanno registrato valori così negativi.
Cosa si nasconde dietro la bassa produttività del
capitale rispetto al lavoro?
Tanto più l’innovazione impatta su lavoro o capitale, tanto più la produttività cambia segno. I liberisti misurano la produttività come un residuo
(differenza) tra l’aumento del prodotto e l’aumento dei fattori produttivi facilmente osservabili. Da
un lato abbiamo la produttività del lavoro calcolata come differenza tra crescita del Pil reale e le
ore lavorate, dall’altra la produttività del capitale
calcolata come differenza tra crescita del Pil reale
e capitale impiegato. Nonostante l’evidente limite statistico del modello, la crescita del Pil dipende da troppi fattori che la funzione di produzione
non considera, la bassa produttività del capitale
italiano non è un fenomeno nuovo. Le imprese
italiane investono in rapporto al Pil più della media europea e, nonostante questo rapporto, la
crescita è molto contenuta. Se occorre una maggiore quota di capitale per ottenere la stessa produzione di altri paesi, per definizione il capitale è
meno produttivo. La pubblicistica sostiene la necessità di aumentare la produttività del lavoro,
ma le ore lavorate per addetto dell’Italia sono oltre la media europea. La debolezza del capitale industriale è attribuibile all’intensità tecnologica
degli stessi.
Mentre il rapporto ricerca e sviluppo/investimenti è cresciuto in tutti i paesi avanzati, l’Italia è
rimasta ferma agli anni novanta. L’Italia ha una
intensità tecnologica per investimento privato
tra il 12-15%, la Germania è prossima al 60%, per
non parlare della Finlandia che traguarda il 75%.
Questa distanza cambia la produttività del lavoro
e del capitale, con una differenza: la produttività
del lavoro è direttamente proporzionale al come
e al che cosa si produce, la produttività del capitale è direttamente proporzionale alla conoscenza
incorporata e riflette la specializzazione produttiva. In altri termini, la produttività dell’Italia è bassa perché produciamo beni e servizi che necessitano di lavoro e capitale dequalificato.
VENERDÌ 20 MARZO 2015
SBILANCIAMO L'EUROPA
N°58 - PAGINA III
Tutele crescenti,
ma solo
per i padroni
L’UNICA COSA CHE CRESCERÀ È IL NUMERO DI DIPENDENTI
ESCLUSI DALLA TUTELA DELL’ARTICOLO 18. IL PIANO GIOVANI
DEL MINISTRO POLETTI SI È RIVELATO UN FLOP E I BUONI LAVORO
SONO ORMAI UTILIZZATI QUASI IN OGNI SETTORE
Reintegrazione solo in casi residuali, indennità
legate all’anzianità, assunzioni a lungo termine
scoraggiate. Cosa cambia con il Jobs Act
Natalia Paci
I
l legislatore manca di rispetto ai cittadini quando usa in modo improprio le
parole, illudendoli che le norme abbiano un significato diverso da quello che
hanno effettivamente. Facciamo un esempio: il Contratto a tutele crescenti, in realtà, non è un contratto, né prevede tutele
crescenti per i lavoratori. Si tratta, invece,
di un’abrogazione camuffata dell’art. 18
dello Statuto dei lavoratori. Per la prima
volta dal 1970, la tutela così detta forte
contro il licenziamento illegittimo (consistente nel diritto alla reintegrazione nel
posto di lavoro ingiustamente cessato e/o
in un risarcimento del danno dignitoso, fino a 24 mensilità), non si applicherà più
ai nuovi assunti a partire dal 7 marzo
2015. L’unica cosa che sarà, quindi, effettivamente crescente nel tempo è il numero
di lavoratori esclusi dalla tutela dell’art.
18. Ma forse si intendevano «tutele crescenti per i datori di lavoro». Allora
l’espressione è giusta.
Con la novella, la reintegrazione nel posto di lavoro si potrà ottenere solo nei residuali casi di licenziamento orale, nullo o
discriminatorio, sempre che si riesca a darne la difficile prova in giudizio. Negli altri
casi si avrà diritto solo ad un’indennità
che non sarà più «risarcitoria» (come invece prevede l’art. 18) in quanto non legata
al danno subito dal lavoratore, ma semplicemente alla sua anzianità di servizio: due
mensilità dell’ultima retribuzione per ogni
anno di servizio, con un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro mensilità
(art. 3, comma 1). Per poter arrivare ad
una somma di 24 mensilità, il lavoratore
dovrà avere un’anzianità di servizio di almeno 12 anni. Ma sarà difficile arrivarci, visto che questo inedito legame del «costo di
separazione» agli anni di servizio, più che
incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, sembra scoraggiare l’investimento a lungo termine sui lavoratori. È probabile che la crisi del settimo anno contagi
anche i rapporti di lavoro, oltre quelli amorosi. Peraltro, sarà più facile licenziare perché per rendere effettiva l’estinzione del
rapporto di lavoro, grazie al Jobs Act (rectius, decreto legislativo n. 23/2015), basta
imputare al lavoratore un fatto qualsiasi,
purché sussistente, non importa se non così grave da giustificare un licenziamento.
La riforma, infatti, preclude al giudice l’indagine sulla proporzionalità tra fatto commesso dal lavoratore e recesso del datore.
E’ quindi possibile che si perda il posto di
lavoro, ad esempio, per essere arrivati al lavoro in ritardo.
Altra novità dal sapore ottocentesco è il
venir meno della previsione (contenuta, invece, nell’art. 18) del diritto alla reintegra
nel caso di illegittimo licenziamento del lavoratore in malattia o infortunio (senza superamento del periodo tutelato, così detto
di comporto), con il rischio che, persino in
questi casi, il licenziamento, seppure illegittimo, resti efficace.
Il datore di lavoro che licenza ingiustamente viene, dalla riforma, persino premiato, come risulta dalla disposizione che
concede allo stesso la possibilità di evitare
il giudizio offrendo al lavoratore una somma non solo dimezzata nell’importo, ma
anche depurata da oneri contributivi. Per
consentire tale tutela del datore che licenzia ingiustamente si dovranno accantona-
re importi crescenti negli anni (ecco le tutele crescenti!) di risorse pubbliche: 2 milioni di euro per l’anno 2015, 7,9 milioni di euro per l’anno 2016, 13,8 milioni di euro per
l’anno 2017, 17,5 milioni di euro per l’anno 2018, 21,2 milioni di euro per l’anno
2019, 24,4 milioni di euro per l’anno 2020,
27,6 milioni di euro per l’anno 2021, 30,8
milioni di euro per l’anno 2022, 34,0 milioni di euro per l’anno 2023 e 37,2 milioni di
euro annui a decorrere dall’anno 2024. Si
noti, infine, che tali risorse verranno attinte da quelle riservate, tra l’altro, agli ammortizzatori sociali, ai servizi per il lavoro
e le politiche attive. In altri termini, mentre i datori di lavoro scorretti vengono premiati, i lavoratori licenziati ingiustamente
vengono penalizzati due volte: prima riducendone la tutela contro l’ingiusto licenziamento, poi riducendo la tutela per la consequenziale disoccupazione.
In questo diritto del lavoro capovolto
in cui il soggetto che il legislatore si preoccupa di tutelare non è più quello debole ma quello forte, in cui la libertà
sindacale ed il controllo giudiziario, invece che garanzia di uguaglianza e democrazia vengono ridotti a fastidiosa limitazione della discrezionalità imprenditoriale, in cui a forza di ridurre le tutele dei lavoratori si è arrivati ad intaccare i diritti fondamentali, non resta che
affidarsi alla Carta Costituzionale e a
quell’art. 1 che ponendo il lavoro a fondamento della Repubblica italiana, ci ricorda che dal lavoro dovrebbero dipendere le politiche economiche e
l’economia. E non viceversa.
Nuove regole,
così si trasforma
il precariato
Dai voucher agli stage pagati con ticket
restaurant, ecco le nuove forme del lavoro
temporaneo. E a volte totalmente gratuito
Rachele Gonnelli
D
ue settimane sono un tempo assai breve, ma i primi segnali
dell’applicazione del primo decreto attuativo del Jobs Act non sono
promettenti, a dispetto degli annunci.
I nuovi licenziamenti facili senza art.
18 hanno provocato come primissimo
effetto un’ondata di licenziamenti collettivi in uno dei settori più fragili del
mercato del lavoro, che già aveva un
costo del lavoro più basso degli altri e
un’occupazione temporanea più alta: nei
call-cen-
ter Almaviva sono stati messi a rischio
7 mila posti di lavoro per poterli sostituire con nuove assunzioni meno tutelate. Ora Tito Boeri, dal suo nuovo seggio dell’Inps, dice che 76 mila aziende
hanno fatto domanda a febbraio di accedere alla decontribuzione per le nuove assunzioni. Con meno enfasi la Fondazione Consulenti del Lavoro fa notare che nell’80% dei casi si tratta di regolarizzazioni di collaborazioni a progetto, partite Iva e altra varia precarietà e
solo nel restante 20% di nuove assunzioni. È da notare che fino ad agosto
l’80% delle nuove assunzioni erano stipulate con contratti atipici e solo un
15% a tempo indeterminato. La differenza è che ora il 100% è escluso
dalla tutela dell’art. 18.
Che dire poi
della coppia di giovani coniugi che a
Cagliari, con il contratto unico fresco
di firma, è corsa in banca a stipulare
un mutuo per la casa dei sogni. Hanno
bussato a 11 istituti di credito, tedeschi, italiani e olandesi, ma nessun direttore ha dato loro credito, nel vero
senso della parola. Non hanno creduto, in assenza di ulteriori garanzie fideiussorie, alla stabilità del loro reddito. Può darsi che la tendenza sarà invertita, che arriveranno le assunzioni
di Melfi a rimpolpare il numero dei
nuovi occupati, ma di certo questi segnali non sono dovuti a intrinseca cattiveria.
Per agevolare le assunzioni con quello che dallo scorso 7 marzo si propone
come il nuovo contratto standard, il governo, tramite la legge di Stabilità, ha
messo sul tavolo un pacchetto di decontribuzione che arriva ad un massimale di 8.060 euro a persona. Il bonus
è alimentato anche dai 1,5 miliardi
stanziati dal piano Youth Guarantee
del Fondo sociale europeo, partito 10
mesi fa con valutazioni ottimistiche
del ministro Poletti: avrebbe portato
all’inserimento lavorativo di 900 mila
giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano nel giro di 24
mesi. Secondo il centro studi Adapt
fondato da Marco Biagi e diretto da
Michele Tiraboschi, su un bacino potenziale di 2.254 mila giovani Neet, gli
iscritti al piano sono soltanto 435.729.
Il flop non si ferma qui. Solo il 48% degli iscritti ha ottenuto un primo colloquio di lavoro e solo l’8,1% ha avuto
una qualche proposta di lavoro, spesso assolutamente generica e senza alcuna formazione o apprendistato.
Del resto, per «avvicinare i giovani al
lavoro», durante l’Expo si farà ampio
ricorso a stage gratuiti o pagati con
qualche ticket-restaurant. Per i non
più tanto giovani e già specializzati invece si farà ampio uso di voucher, strumento che si delinea come nuovo salario d’ingresso.
I buoni-lavoro, concepiti inizialmente come forma di emersione puntiforme del lavoro nero accessorio - baby-sittering e altri lavoretti - hanno
avuto negli anni una progressione
esponenziale. Non per perfida casualità ma perché il loro campo di applicazione è stato progressivamente esteso
con 12 interventi regolativi in 11 anni
di vita dello strumento. Ormai sono utilizzati in quasi ogni settore, dal turismo all’agricoltura stagionale, dalle
aziende familiari alle imprese con fini
di lucro e perfino nelle amministrazioni pubbliche e nei tribunali. Ogni ticket da 10 euro incorpora una minima
contribuzione Inps e Inail e nelle indicazioni si riferisce a una paga oraria,
ma il voucher è un pagamento a prestazione, perciò troppo spesso viene
usato per pagare una attività giornaliera, non necessariamente di otto ore.
Non prevede malattia o nessuna altra
indennità, è una specie di gratta e vinci del lavoro, acquistabile e riscuotibile
anche nelle tabaccherie autorizzate oltre che online grazie a una apposita
carta Poste-pay. L’unico limite è il massimale, ampliato in tre anni da 3 mila a
5.060 euro e ora, nello schema di decreto attuativo, fino a 7 mila euro l’anno.
La bozza di decreto vorrebbe renderlo
più tracciabile, prevedendo la certificazione anagrafica e fiscale del lavoratore da parte dell’utilizzatore, senza ulteriori oneri incluso l’Irap, ed escluderne
l’utilizzo negli appalti, dove si configurerebbe un dumping sociale, cioè concorrenza sleale, ma già c’è chi si oppone a queste regolamentazioni. Nel frattempo si sono perse le tracce del decreto che dovrebbe eliminare i cococo
(sempre possibili tramite accordo
aziendale) e sfoltire la giungla contrattuale di altre due tipologie, il job-sharing e il lavoro a somministrazione.
Tra tagli all’Irap e decontribuzione fiscale pare manchino le coperture. Ora,
se anche si avverassero le previsioni
del ministero dell’Economia sugli effetti del Jobs Act, cioè circa 250 mila nuovi posti di lavoro standard l’anno per
tre anni, è chiaro che sarebbe solo una
goccia nel mare. In più, dal punto di vista di chi cerca un lavoro, dai tirocini
gratuiti fino al punto d’arrivo del contratto unico a fantomatiche tutele crescenti, passando per i voucher, si vede
solo una trappola infinita della precarietà legalizzata.
VENERDÌ 20 MARZO 2015
SBILANCIAMO L'EUROPA
N°58 - PAGINA IV
Disoccupati e inattivi,
problema irrisolto
In Italia nove milioni di persone non lavorano, e con le misure
in campo e la crescita prevista il futuro è di cattiva occupazione
del lavoro: attualmente vi sono 3,4 milioni di working poor (0,8 tra gli autonomi), 2,5 milioni di lavoratori in
part-time involontario (32% femminile), 65% dei nuovi contratti è a tempo
determinato di cui il 46% registra una
durata inferiore al mese. Se non si
modificano le attuali istituzioni e politiche del lavoro, anche la prossima ge-
CI SONO 3,5 MILIONI DI WORKING POOR E
2,5 MILIONI IN PART TIME INVOLONTARIO.
VA RILANCIATO IL RUOLO DELLO STATO
COME OCCUPATORE DI ULTIMA ISTANZA
Claudio Gnesutta
O
ggi in Italia ci sono 3 milioni di
disoccupati ufficiali; se ad essi
si aggiungono i disoccupati
parziali e gli inattivi disponibili si tratta di 9 milioni di persone: una situazione sociale drammatica che il Jobs
Act non affronta. La sua filosofia di
aumentare i posti di lavoro facilitando i licenziamenti e sussidiando le imprese a espandere i contratti a tempo
determinato non è una soluzione. Ba-
sti pensare che il Cnel stima che con
una crescita annua dell’occupazione
dell’1,1% (scenario ritenuto ottimista) solo nel 2020 il tasso di disoccupazione si riporterebbe alla situazione pre-crisi (e a 1,8 milioni di disoccupati). Ma una tale situazione richiederebbe una crescita media della produzione del 2% e non è facile trovare
qualcuno – anche con l’aria nuova di
Cernobbio – disposto a scommetterci. A condizioni sostanzialmente inalterate di disoccupazione si accompagnerebbero condizioni di precarietà
Vent’anni
di precarietà
Dalla flexsecurity danese al Jobs Act, il lavoro
è diventato atipico e l’occupazione è cresciuta
Leopoldo Nasciai
D
agli anni novanta i governi sia
di centrodestra sia di centrosinistra hanno introdotto diversi cambiamenti nel mercato del lavoro: riforma delle pensioni, pacchetto
Treu, legge Biagi, legge Fornero e
Jobs act sono i principali interventi
che, con ottica bipartisan, hanno cambiato il mondo del lavoro. Utilizzando i dati Istat, si nota come l’occupazione - che include i dipendenti a tempo indeterminato, a tempo determinato, gli interinali e i datori di lavoro
che partecipano attivamente nell’impresa ma esclude il lavoro atipico sia cambiata molto nel tempo.
Le oltre 21,5 milioni di posizioni lavorative del 1990, nel 2014 aumentano
di circa un milione di unità, con un incremento complessivo di appena cinque punti percentuali. Il tasso di occupazione negli anni resta costante, registrando una variazione massima nel
2008 (58,6%) rispetto al 1990 (54,9%),
mentre nel 2014 registra un aumento
di un solo punto percentuale (56%).
La maggior presenza di donne e immigrati sono stati i due elementi di novità. I dati mostrano una crescita sostenuta delle donne occupate con un incremento complessivo di oltre venti
punti percentuali fra il 2014 e il 1990.
Invece gli occupati extracomunitari
fra il 2004 e il 2014 passano da 965mila
a oltre 2,3 milioni.
Il tasso di disoccupazione possiede
un andamento discontinuo accelerando nei primi anni novanta fino al picco dell’11,3% nel 1990. Da allora la disoccupazione si riduce fino al 2008
(6,1%) per poi tornare in crescita con
la recessione e le politiche di austerità
che la riportano stabilmente al di so-
pra del 10% con oltre 1,6 milione di
persone in cerca di lavoro. In pochi anni la disoccupazione torna ai valori dei
primi anni novanta, ma con un’occupazione più precaria e con minori garanzie. I contratti di lavoro dipendente
a tempo determinato, liberalizzati dal
secondo governo Berlusconi e i contratti interinali, prendono piede assai
rapidamente e nell’arco di dieci anni
crescono costantemente fino a raggiungere nel 2014 un livello assai maggiore rispetto al 2004 (+56%). Al contrario i contratti a tempo indeterminato
registrano in dieci anni un incremento
assai minore, pari
all’8%. L’occupazione negli anni non
premia né il Mezzogiorno né i giovani.
Dal 1990 gli occupati nel Sud si riducono fino a scendere
nel 2014 dell’8%. Le
donne nel Sud aumentano la loro partecipazione ma con
miglioramenti inferiori alla media nazionale: registrano un picco nel 2012
(+19% rispetto al 1990), che poi nel
2014 si ridimensiona al 12%.
Gli occupati, con età compresa fra i
15 e i 24 anni, diminuiscono ogni anno e nel 2014, il loro livello di occupazione si è ridotto di oltre due terzi rispetto al 1990: i quasi 3 milioni di giovani occupati nel novanta diventano
appena un milione nel 2014.
Anche se i più giovani con gli anni si
riducono di numero per la dinamica
demografica il mercato del lavoro riesce ad assorbirne sempre pochi tanto
che il tasso di disoccupazione per i lavoratori fra i 15 e i 24 anni , pari al 27%
nel 1990, pur subendo qualche riduzio-
nerazione vivrà una situazione di eccesso di offerta di lavoro che estenderà la precarietà alla maggioranza della popolazione attiva. Il futuro di scarsa e cattiva occupazione è il prodotto
di un mercato del lavoro che opera
come meccanismo di ingiustizia e di
immiserimento sociale.
Non c’era certamente bisogno di
un Jobs Act che volutamente consegna le vite dei lavoratori alle scelte socialmente regressive delle imprese.
Vi è invece l’esigenza che di garantire
a tutti un’attività (sia essa dipendente
ne fino al 2008 tocca picchi maggiori
del 40% tra il 2013 e il 2014.
Il fenomeno di meno occupati, meno disoccupati e maggior tasso di disoccupazione fra i giovani si spiega anche per il diffondersi del fenomeno
dei Neet oltre all’affermarsi di forme
di lavoro atipiche non contabilizzate
negli indicatori tradizionali.
Oltre 1,4 milioni di giovani fra i 15 e
i 24 anni e 3,7 milioni fra i 15 e i 34 anni nel 2014 hanno scelto di rimanere
fuori dal mercato del lavoro e dal circuito della formazione e dell’istruzione. La flessibilità non sembra in grado di attrarli e farli tornare attivi: fra il
2004 e il 2014, i numeri ufficiali evidenziano un incremento del 41% dei
Neet con 15-24 anni e del 24% per
quelli con 15 e i 34 anni.
Degli oltre 1,2 milioni di collaboratori attivi nel 2013, circa 600 mila non
possiedono caratteristiche professionali definite, mentre gli altri in gran
parte appartengono agli amministratori di società, e in misura minore a categorie specifiche quali i dottorandi e i
medici specializzandi. Circa 80 mila
giovani fra i 18 e i 24 anni svolgono collaborazioni nel 2013, assieme ad oltre
200 mila ultrasessantenni. Il mondo
del lavoro atipico passa trasversalmente fra le generazioni, facilitando il ritorno nel mondo del lavoro dei pensiona-
TUTTO È COMINCIATO CON IL
PACCHETTO TREU. POI LA LEGGE
BIAGI E COSÌ VIA FINO A OGGI.
NEL SEGNO DEL BIPARTISAN
ti e creando sacche di precariato fra i
giovani. Degli oltre 179 mila collaboratori esclusivi che erano attivi nel 2000,
solo il 36% dopo tredici anni ha raggiunto un contratto a tempo indeterminato, mentre la maggior parte è
uscita dal mondo del lavoro.
Ad oggi tutte le promesse delle riforme del lavoro non sono state mantenute, dalla flexicurity, mai realizzata dal
ministro Fornero, ai sussidi universali,
ventilati a inizio legislatura e oggi sepolti fra le carte del Parlamento. La riforma del Jobs act non sembra far altro
che precarizzare tutti sferrando un nuovo colpo ai diritti dei lavoratori, in attesa della prossima miracolosa riforma.
o indipendente) che assicuri una prospettiva di lavoro e di vita dignitosa. È
in questa direzione che Sbilanciamoci! ritiene necessario proporre un terreno di confronto per elaborare un
Workers Act, un progetto di politica
per il lavoro, che si articoli lungo tre
assi: attivazione di lavori concreti, riduzione dell’orario di lavoro, un welfare universalistico per il lavoro (dipendente e non). In primo luogo, va rilanciato il ruolo dello Stato (e degli enti
pubblici) come occupatore di ultima
istanza (Piani del lavoro, ma anche
Servizio civile nazionale) finalizzando
gli aumenti occupazionali alla creazione di valori socialmente utili. Inoltre
occorre intervenire sugli orari di lavoro poiché - data l’attuale dimensione
della disoccupazione, inoccupazione,
sottoccupazione – è possibile ampliare i posti di lavoro solo riducendo il
tempo medio di lavoro. Per garantire
livelli adeguati di reddito a chi lavora
a orari più ridotti occorre ristrutturare
l’imposizione fiscale e previdenziale
alleggerendola drasticamente su contratti più brevi e accentuandola su
quelli prolungati. Ma anche così è difficile garantire all’intera popolazione
attiva, in particolare a chi svolge un’attività autonoma, la disponibilità di un
reddito. Occorre, terzo punto, ridefinire il sistema di welfare attorno a una
forma di reddito minimo che, fungendo da salario di riserva, contrasti la
pressione al ridimensionamento salariale. Si tratta di pensare a una misu-
ra, universale e incondizionata, che
sia un punto di riferimento per il riassetto delle altre forme esistenti di sostegno del reddito.
Sono temi che richiedono una riflessione impegnativa, ma non tanto per
i molti e importanti aspetti tecnici
che si pongono: a questo livello, le capacità, le competenze e le intelligenze
sono ampiamente disponibili. Quello
che importa è la convinzione che questa prospettiva possa costituire il fondamento della politica economica. A
nessuno sfugge infatti che, per realizzare una tale politica per il lavoro, siano necessari opportuni indirizzi di politica industriale per rafforzare e riorientare la crescita produttiva; che si
richieda una politica fiscale che ne garantisca l’opportuno finanziamento e
una amministrazione pubblica efficiente in grado di controllare e gestire
l’intero processo. Si deve peraltro avere consapevolezza delle difficoltà che
incontra una tale riflessione nell’attuale situazione culturale caratterizzata
da una subordinazione al pensiero dominante che impedisce di pensare a
qualcosa di diverso rispetto alla manutenzione dell’esistente.
Ma, a fronte di una tendenza strutturale che prospetta un futuro difficile per i lavoratori, è doveroso impegnarsi nel costruire un’alternativa altrettanto strutturale, con la consapevolezza che la soluzione non è dietro
all’angolo, ma che è importante scegliere l’angolo sul quale svoltare.
il manifesto
VENERDÌ 20 MARZO 2015
«
pagina 7
ITALIA
Alla giornata della
«Memoria» attese
150 mila persone.
In piazza anche
i familiari delle oltre
15 mila persone
uccise dalla mafia
Giuseppe de Marzo
D
omani a Bologna più di
150 mila persone sfileranno per le vie della città per
chiedere verità e giustizia per le
vittime innocenti delle mafie. Saranno presenti più di 600 familiari
in rappresentanza di un coordinamento di oltre 15 mila persone
che hanno perso un loro caro per
mano della violenza mafiosa.
Anche quest’anno il 21 marzo,
nel primo giorno di Primavera, Libera promuove insieme con Avviso pubblico la ventesima edizione
della «Giornata della Memoria e
dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia», per ricordare e rinnovare l’impegno nella
lotta contro la criminalità organizzata, ma non solo. Alla manifestazione, che partirà alle 9.30 nella zona antistante lo stadio Dall’Ara e
si concluderà a Piazza VIII agosto
con la lettura dei nomi, parteciperanno anche i familiari di vittime
provenienti dal Messico, dall’Argentina, dalla Bosnia. Così come
saranno ricordate, nel loro 35esimo anniversario, le vittime della
strage del 2 agosto della stazione
di Bologna e di Ustica, quelle del
brutale genocidio di Srebrenica,
che ricorre proprio il 20 marzo e le
vittime della banda della Uno
bianca e del rapido 904.
«La verità illumina la giustizia»
è il tema che abbiamo scelto
quest’anno. Il nostro è un paese
di stragi impunite dove ancora
troppe persone attendono verità e
giustizia. Ed è un paese in cui troppe persone muoiono per difendere la democrazia ed a causa dei
suoi vuoti. All’ombra di un potere
solo formalmente democratico,
che in nome delle «ragioni di Sta-
UNA MANIFESTAZIONE
DI LIBERA/
FOTO SINTESI
SOTTO LA FIAT
DI POMIGLIANO/
FOTO LA PRESSE
LIBERA · Domani giornata nazionale a Bologna: «Verità e giustizia per le vittime della criminalità».
Contro le mafie, per i diritti
to» ha spesso cancellato i confini
della democrazia rendendo lecito
l’illecito, sono cresciuti molti dei
mali del nostro paese. L’opacità
del potere ha spesso trovato nel
grigiore delle coscienze un grande
alleato. Le mafie trovano nella corruzione e nella mafiosità diffusa le
leve attraverso le quali perpetrare
i loro affari criminali e non, mentre avvelenano l’anima di un paese in cui la crisi rafforza ulteriormente la ricattabilità dei cittadini
costretti a vivere e spesso a sopravvivere in mezzo a mille difficoltà.
L’aumento delle diseguaglianze è
la causa che produce la crisi, alla
quale le politiche di austerità hanno dato un ulteriore spinta negativa nel corso di questi 7 lunghissimi anni di impoverimento economico, sociale e culturale. È questo
un altro elemento sul quale ci siamo presi le nostre responsabilità e
sul quale siamo impegnati nel corso di questi ultimi anni. C’è evi-
METALMECCANICI/ DIBATTITO UNITARIO CON LANDINI
La svolta Uilm: «Sul contratto
serve recuperare anche la Fiom»
Massimo Franchi
P
rove tecniche di riavvicinamento metalmeccanico. Riunire in un dibattito pubblico i tre segretari generali di Fim, Fiom e Uilm è l’impresa che è riuscita ieri mattina ad Antonello Di Mario,
responsabile dell’ufficio stampa Uilm, per la presentazione del suo libro "Aspettando la crescita". I tre
coinquilini di Corso Trieste 36 sono in litigio perenne dal lontano giugno 2010, quando un appena eletto Maurizio Landini disse "No" al ricatto dell’allora
Fiat. A cinque anni di distanza proprio a giugno è
tempo di piattaforma (o le piattaforme) per il rinnovo del contratto nazionale di categoria che scade a fine anno. «Dal 2001 la Fiom - come ha sottolineato il
neo segretario generale della Fim Cisl Marco Bentivogli - ha firmato solo due contratti, nel 2005 e 2008». La novità
però sta proprio nella posizione
della Uilm guidata da Rocco Palombella: «Se tre anni fa è stato
importante mettere da parte la
Fiom sennò niente contratto nazionale, ora è importante mettere assieme anche la Fiom perché
Confindustria dice: "Non si rinnova il contratto senza certificazione" per avere esigibilità del contratto. Senza contratto avremmo
una situazione terribile, sarebbe il declino della rappresentanza, una posta in gioco troppo alta. Per questo - continua Polombella - ho smosso le acque per
vedere se ci sono le condizioni per presentare non
dico una piattaforma unitaria, ma almeno piattaforme convergenti, partendo da un’autocritica su ciò
che abbiamo fatto in questi anni: pensare più a noi
che ai lavoratori».
Una vera svolta. Che ha messo per prima in difficoltà la stessa Cisl. Che lo stesso Palombella ha chiamato indirettamente in causa: «L’alternativa è la proposta di Confindustria di un anno di moratoria contrattuale che ha già una sponda confederale. E se la
cosa passa tra noi metalmeccanici, la crisi della contrattazione si irrora poi in tutte le categorie». Bentivogli prova a parare il colpo attaccando «il falso totem
dell’unità sindacale: i contratti unitari non sono stati
i migliori che abbiamo firmato. Serve dunque una
piattaforma per firmare il contratto perché il risultato per i lavoratori è negli aumenti in busta paga, no a
piattaforme velleitarie, a scioperi gloriosi ma inconcludenti».
La Fiom si trova dunque nella posizione - impensabile fino a pochi mesi fa - di poter giocare le proprie carte per un puntare a un rinnovo unitario. E
Landini coglie l’occasione: «È una fase inedita per
tanti motivi. E c’è la necessità di vedere se ci sono le
condizioni per unirsi. Colgo il fatto che è iniziato un
confronto. Io non chiederò a voi di cancellare il contratto nazionale che voi avete firmato, ma voi non ci
potete chiedere di riconoscerlo o firmarlo. Il problema è vedere quello che ci può unire e cercare di costruire piattaforme convergenti che guardino al merito dei problemi». Anche qui Landini punta ad allargare il campo: «Sugli aumenti salariali io dico che dovremmo chiedere alle imprese i soldi che hanno avuto dal governo sotto forma
di sgravi Irap e per le assunzioni,
mentre sugli orari possiamo anche lavorare il sabato e la domenica, ma l’orario va ridotto e redistribuito per allargare l’occupazione», strappando l’applauso
della platea Uilm.
A dividere però è ancora la
Fiat. O meglio: il modello Fiat.
«Le imprese e il governo - intima Landini - vogliono
fare come Marchionne, lasciare tutto alla contrattazione aziendale. E allora io dico che se vogliamo riconquistare il contratto bisogna smetterla con le caricature - battibeccando con Bentivogli che lo accusa di «legami stretti con troppi partiti» - e ripartire dagli accordi unitari positivi che abbiamo fatto in questi anni, come quello sull’elezione degli Rls proprio
in Fiat». La replica di Bentivogli è però gelida: «Ma se
a Mantova quell’accordo è già stato disconosciuto
dai tuoi. La Fiom deve riconoscere i contratti come
ha fatto con il testo unico». L’ostacolo infatti sta proprio qui: quell’accordo - inizialmente avversato dalla Fiom - demanda alle categorie la scelta della validazione: voto delle Rsu o di tutti i lavoratori? Qui le
posizioni sono opposte. «Ma il nodo si potrà affrontare dopo la presentazione della piattaforma», chiude l’ecumenico Palombella.
dentemente un nesso tra mafia e
miseria. Quando la disoccupazione giovanile al sud va oltre il 60%,
quando la dispersione scolastica
nel nostro paese diventa la più alta d’Europa (17,6% contro il
13,2%), quando la povertà minorile arriva ad essere la più alta del
continente (1.423.000 di minori in
povertà), quando la precarietà e la
disoccupazione arrivano a coinvolgere milioni di cittadini, quando si taglia il welfare, quando si tagliano i fondi per gli enti locali,
quando molti dei diritti sociali
vengono messi in discussione, è
evidente che le mafie e la corruzione si rafforzano. Lo abbiamo detto spesso che se le mafie sono così
forti è anche perché glielo abbiamo permesso. Aver promosso la
campagna Miseria Ladra insieme
al Gruppo Abele, con il sostegno
fondamentale di oltre 1300 realtà
del sociale e del volontariato laico
e cattolico, è stata ed è la nostra risposta alla crisi ed all’intreccio tra
mafia e povertà (www.miseriala-
dra.it). Ma non basta. Responsabilità ed impegno sono le strade che
abbiamo scelto di seguire, rifiutando tentazioni e scorciatoie che
mettono spesso insieme in questa
fase nuova populismi e trasformismi. Per questo abbiamo un grande bisogno di luce e di verità. Se viviamo una crisi culturale che ha
messo in discussione l’etica individuale e collettiva, il nostro impegno va alla costruzione di un
«noi» capace di rigenerare un pensiero collettivo ancorato ai valori
della Costituzione.
A partire da quel «super valore»
che ha declinato tutto gli altri: la
dignità umana. È questo il lascito
del costituzionalismo del ‘900, in
risposta alla brutalità della guerra
mondiale e alla miseria. Il raggiungimento e riconoscimento della intangibilità della dignità umana sono il fine ultimo delle ragioni della
Carta costituzionale. I diritti sono
lo strumento per renderla prescrittibile e per garantire la giustizia sociale, che oggi come ieri rappre-
senta la precondizione per sconfiggere le mafie. Ed è proprio per
garantire la dignità in un momento in cui le scelte politiche sono
orientate su altre priorità che abbiamo indicato al primo punto
del nostro manifesto di Contromafie la richiesta di istituire il Reddito di Cittadinanza o Minimo. Per
dare seguito al nostro impegno ci
siamo assunti la responsabilità lo
scorso 13 marzo di lanciare la campagna per il Reddito di Dignità
(www.campagnareddito.eu).
La proposta del reddito di dignità, così come le altre frutto della discussione generata nei nostri movimenti e realtà sociali con il manifesto di Contromafie, saranno affrontate nei 18 seminari che il 21
marzo nel pomeriggio dalle 14:30
Nel pomeriggio
seminari
e raccolta di firme
per reddito minimo
o di cittadinanza
alle 17:00, si terranno nel centro di
Bologna (www.memoriaeimpegno.it).
Vogliamo, insieme a tutte quelle realtà da prima di noi impegnate sul tema, raccogliere un milione di firme per chiedere che alla fine dei 100 giorni della campagna
venga calendarizzata e discussa in
Parlamento un legge per istituire
il reddito di cittadinanza, così come previsto in tutti i paesi europei
con la sola esclusione del nostro
paese, della Grecia e della Bulgaria. Una misura urgente e necessaria per contrastare diseguaglianze
e mafie.
* Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie
FINCANTIERI · A Riva Trigoso e Muggiano i lavoratori protestano unitariamente
Scioperi spontanei contro i microchip
Scioperi spontanei contro i microchip negli scarponi per controllare i
lavoratori e la richiesta di oltre 100
ore di straordinario non retribuito.
Nei tanti siti Fincantieri sparsi sulla
penisola la tensione è al massimo.
La trattativa per il rinnovo del contratto integrativo aziendale è vicina
alla rottura. L’azienda guidata
dall’inossidabile boiardo di Stato
Giuseppe Bono - uno che per lunghezza di mandato confermato dai
vari governi farebbe impallidire anche Ercole Incalza, è amministratore delegato del gruppo da 13 ben anni - continua a chiedere flessibilità
esasperata, tagli salariali, esternalizzazioni delle attività di scafo per
quanto riguarda Riva Triogoso e la
separazione del comparto della
meccanica dal resto del cantiere.
E proprio da Riva Trigoso (Genova) è scattato lo sciopero spontaneo dei lavoratori, poi appoggiato
unitariamente da Fim, Fiom e
Uilm. Quelle che dovevano essere
due ore di sciopero per turno di lavoro, con blocco delle portinerie, si
sono trasformate in sciopero ad oltranza. La direzione, secondo i sindacati, propone «esternalizzazioni
delle attività di scafo e la separazione del comparto della meccanica
dal resto del cantiere». «Ci chiedono anche di regalare 104 ore di lavoro per le ex festività o di lavorare gra-
tis per mezz'ora ogni giorno, microchips posizionati nelle scarpe da lavoro», dice Sergio Ghio della Fiom.
Lo sciopero coinvolge gli 800 dipendenti e i 500 addetti delle ditte esterne. «La Rsu ha deciso di proseguire
la lotta impedendo l’entrata ed uscita delle merci dal cantiere proclamando una protesta a oltranza».
Poco dopo la protesta è arrivata
anche alla vicina Muggiano (La Spezia). E oggi in entrambi i siti lo scio-
Ma i sindacati sono
divisi. Piattaforme e
assemblee separate
«Si preparano a firmare
la consegna all’impresa»
pero sarà ripetuto. Probabile che
poi la protesta si estenda anche ad
Ancona, Castellammare, Marghera,
Monfalcone, Sestri Ponente.
La trattativa va avanti da mesi.
Ed è partita con la presentazione di
piattaforme separate. Da una parte
Fim e Uilm, dall’altra la Fiom. Martedì la quasi rottura. Con la Fiom
che ha tentato, senza successo, di ricomporre lo strappo. In una lettera
il responsabile Fiom Bruno Papignani ha chiesto agli altri sindacati
« di indiredue ore di assemblea, un
pacchetto di 12 ore di sciopero e di
sottoporre eventuali ipotesi di accordo al voto vincolante dei lavoratori in tutti i cantieri tramite referendum a voto segreto».
Ma Fim e Uilm hanno risposto
picche. «In tutta Italia abbiamo proclamato 4 ore di sciopero e assemblee - spiega Michele Zanocco della
Fim - . Non siamo nella condizione
di dover riaprire un tavolo visto che
13 e 14 aprile ci rivediamo con
l’azienda. Le distanze sono abissali
sull’aumento orario di 104 ore non
retribuiti, ma la Fiom sta prendendo a pretesto cose smentite da
azienda o regolate dalla legge come
i microchip negli scarponi o la riduzione dei permessi per la legge 104
(assenze per cura dei familiari, Ndr)
dove invece è stato chiesto semplicemente se fosse possibile stabilire
giorni di utilizzo, sotto forma di auspicio e basta. Le assemblee? Le
Fiom le ha già fatte da sole. Il problema è che dal primo di aprile con
la disdetta dell’integrativo precedente i lavoratori potrebbro trovarsi 3500 euro annui di monte salare
in meno», chiude Zanocco.
«Ho paura che la strategia di Fim
e Uilm sia solo un modo per ottenere qualche risultato finto, mentre il
documento in generale consegna il
sindacato e i lavoratori all’impresa», ribatte Papignani. m. fr.
pagina 8
il manifesto
VENERDÌ 20 MARZO 2015
INTERNAZIONALE
USA/ISRAELE · La Casa Bianca risponde alla vittoria di «Bibi»: pronti all’appoggio a risoluzione Onu sui confini del ’67
Obama: «Ora avanti con i due Stati»
NELLA FOTO NETANYAHU PARLA, ALLE SUE SPALLE LE COLONIE. A DESTRA JATSENIUK, PREMIER UCRAINO, SOTTO MADURO LAPRESSE
+Michele Giorgio
GERUSALEMME
Q
ualcuno forse ha riferito a
Benyamin Netanyahu delle congratulazioni che gli
ha fatto il senatore italiano Maurizio Gasparri che ha salutato la
sua vittoria come una umiliazione per Barack Obama «il peggior
presidente della recente storia
americana». Obama, ha notato
l’arguto Gasparri, che sino a qual-
Washington valuta
tutte le opzioni,
per rispondere
al rifiuto
di Netanyahu
che giorno fa non aveva mai fatto sfoggio di una conoscenza
tanto approfondita della politica
internazionale, «ha interferito
nella vita interna di Israele ed è
stato respinto».
In verità dubitiamo che Netanyahu abbia cognizione dell’esistenza di Gasparri. Sa invece che
il «peggior presidente» si prepara
a regolare qualche conto in sospeso con lui. Anche perché non
ha ancora digerito il discorso che
Netanyahu ha pronunciato il 3
marzo a Washington di fronte
al Congresso per ostacolare l’accordo che gli Usa stanno negoziando sul programma nucleare
iraniano.
Naturalmente non sono in vista passi che potrebbero mettere
in forse l’alleanza strategica tra i
due Paesi. E nessuno dimentica
che, nonostante le umiliazioni
che Netanyahu gli ha inflitto in
questi anni, Obama ha comunque protetto gli interessi di Israele ovunque, anche al Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite silurando, solo per fare un esempio recente, la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina.
La Casa Bianca due giorni fa
ha fatto sapere che «valuterà la
strada da seguire per portare
avanti il processo di pace in Medio Oriente, ma si va avanti con
la soluzione dei due Stati», in risposta alle dichiarazioni del primo ministro israeliano che alla vigilia del voto è stato chiaro: finché ci sarà lui non nascerà alcuno Stato palestinese e ogni mezzo sarà lecito per bloccare il programma nucleare dell’Iran (anche la guerra). Netanyahu ieri ha
corretto in parte, in un’intervista
a Msnbc, le sue promesse elettorali affermando «di non volere
una soluzione con uno Stato...voglio una soluzione con due Stati
pacifica e sostenibile, ma per questo le circostanze devono cambia-
re». Parole che non devono aver
fatto piacere ai partiti dell’ultradestra che ritengono di essersi sacrificati in nome della vittoria
elettorale di Netanyahu cedendo
consensi e seggi al Likud e che
ora vedono il primo ministro farsi più vago sulla questione dello
Stato palestinese.
Arutz 7, l’agenzia di informazione dei coloni israeliani, parla
di «punizione» che attende il primo ministro, in riferimento a
quanto scritto dal New York Times, che cita una fonte anonima
della Casa Bianca, su una presunta intenzione dell’Amministrazione Obama di dare il suo appog-
gio a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza per i «Due Stati», basata sui confini del 1967,
quelli precedenti l’occupazione
israeliana di Cisgiordania, Gaza e
Gerusalemme Est.
«Le premesse della nostra posizione a livello internazionale - ha
detto la fonte spiegando l’opposizione a fine 2014 alla risoluzione
sullo Stato di Palestina all’Onu è stata quella di sostenere negoziati diretti tra israeliani e palestinesi». «Ora invece - ha aggiunto siamo in una realtà in cui il governo israeliano non è più a favore
di negoziati diretti». Interessanti
anche i commenti giunti dalla
portavoce del Dipartimento di
Stato Jen Psaki. «Le recenti dichiarazioni del premier (israeliano)
mettono in dubbio il suo impegno per una soluzione a Due Stati... ma questo non significa che
abbiamo preso la decisione di
cambiare la nostra posizione rispetto alle Nazioni Unite».
Per alcuni è sufficiente solo il riferimento al veto Usa sulla Palestina al Consiglio di Sicurezza
per indicare che a Washington si
stanno valutando tutte le opzioni, nessuna esclusa, per rispondere al rifiuto di Netanyahu della soluzione dei Due Stati. Tra gli analisti israeliani si tende, per ora, a
ridimensionare l’importanza dei
passi che potrebbe muovere la
Casa Bianca in risposta alla posizioni espresse da Netanyahu in
campagna elettorale.
«La tensione tra Netanyahu e
Obama esiste da anni ed è salita
ancora di più da quando il primo
ministro ha parlato al Congresso.
Tuttavia mi riesce difficile immaginare che gli Stati uniti arrivino
a modificare totalmente le loro
posizioni sul conflitto israelo-palestinese al punto da sostenere
una proclamazione unilaterale
dello Stato di Palestina», ci ha detto ieri Oded Eran, analista
dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale di Tel Aviv.
Ciò non toglie, ha aggiunto Eran,
che si faranno persino più difficili le relazioni tra Obama e Netanyahu negli ultimi due anni di
mandato del presidente americano. Di recente, peraltro, è stato
nominato coordinatore della politica della Casa Bianca in Medio
Oriente, Nord Africa e la regione
del Golfo, proprio Robert Malley,
un esperto statunitense di Vicino
Oriente preso di mira qualche anno fa da Israele per i suoi contatti
con Hamas e per le sue critiche alla politica di Tel Aviv.
Gli Usa con ogni probabilità faranno conoscere meglio le loro
reali intenzioni dopo la formazione del governo al quale sta lavorando il premier che tra qualche
giorno riceverà l’incarico dal capo dello stato Rivlin. Nel frattempo lo scrutinio degli ultimi 200
mila voti rimasti in sospeso, quelli di soldati, diplomatici e di altri
israeliani che risiedono all’estero, ha reso ancora più netta la vittoria del Likud di Netanyahu, che
è salito da 29 a 30 seggi e danneggiato la Lista Araba Unita passata
da 14 a 13 seggi (resta comunque
il terzo gruppo alla Knesset), La lista Campo Sionista, avversaria
principale del Likud, è ferma a 24
seggi mentre a sinistra ottiene un
deputato in più il Meretz, passato da 4 a 5 seggi.
VENEZUELA · La diplomazia di pace dell’America latina si mobilita contro il decreto Obama
L’Alba fronteggia gli Stati uniti
Geraldina Colotti
L’
Alleanza bolivariana per i popoli
della Nostra America (Alba) ha respinto compatta le sanzioni degli
Usa contro il Venezuela. Il documento finale, prodotto dal vertice straordinario che si
è tenuto a Caracas, ha esplicitato le ragioni
del sostegno al governo di Nicolas Maduro, definito da Obama «una minaccia straordinaria alla sicurezza degli Stati uniti».
L’Alba chiede agli Usa di «astenersi» dall’intervenire negli affari interni degli altri paesi, e invita Obama a riannodare il dialogo.
Per questo, propone un «gruppo di facilitatori del nostro emisfero e delle sue istituzioni (Celac, Unasur, Alba-Tcp e Caricom) per
alleviare le tensioni e garantire una risoluzione amichevole». Un gruppo subito operativo, coordinato dal ministro degli Esteri
ecuadoriano Ricardo Patiño. I presidenti
dell’Alba (Cuba, Venezuela, Ecuador, Bolivia,
Nicaragua, Dominica, Granada, San Cristobal e Nieves, Saint Vincent e Grenadine, Antigua e Barbuda, Suriname e Santa Lucia) ribadiscono il loro fermo appoggio al Venezuela
bolivariano «che non costituisce una minaccia per nessun paese, ma è una nazione solidale che ha dimostrato la sua volontà di cooperazione con i popoli e i governi di tutta la regione, e rappresenta una garanzia per la pace
sociale e la stabilità del nostro continente».
L’Alba denuncia anche la «feroce campagna
mediatica internazionale» tesa a screditare la
rivoluzione bolivariana, con l’obiettivo di «creare le condizioni per un intervento sempre
più marcato e lontano dalla soluzione pacifica dei contenziosi».
Una campagna che si inserisce nel più generale attacco dei poteri forti contro l’intero
campo progressista del Latinoamerica, per
cui il blocco regionale esprime il proprio appoggio anche al Brasile di Dilma Rousseff e
all’Argentina di Cristina Kirchner. «l’America latina e i Caraibi - dice il documento - sono Zona di pace, uno spazio in cui le nazioni promuovono processi di integrazione e
Il blocco regionale
sostiene il governo
Maduro e crea un
gruppo di mediatori
Oggi, un twit mondiale
relazioni di amicizia, con l’obbiettivo di perseguire ulteriormente la massima felicità
possibile dei nostri popoli» come auspicato
dal Libertador Simon Bolivar. L’Alba chiama perciò alla mobilitazione «i movimenti
sociali, operai, studenti, contadini, indigeni, donne» affinché spieghino «al mondo e
ai popoli della Nostra America che il Venezuela e il governo legittimamente eletto
del presidente Nicolas Maduro non sono soli e che una nuova aggressione imperiale
avrebbe conseguenze nefaste per la stabilità della regione».
Gli Stati uniti - ha affermato in quella sede
il presidente cubano Raul Castro - «devono
capire che è impossibile sedurre o comprare
Cuba o intimidire il Venezuela. La nostra unità è indistruttibile». E suo fratello Fidel ha inviato per l’occasione una seconda lettera a
Maduro, lodandone il coraggio per aver imposto a sua volta sanzioni ai funzionari Usa
in base all’effetto di reciprocità. Uno scoglio
non da poco nei negoziati in corso tra l’Ava-
na e Washington in vista di un possibile «disgelo». Una questione aperta sul prossimo
vertice delle Americhe, che si terrà a Panama
il 10 aprile. E mentre molti intellettuali e movimenti invitano i paesi progressisti a disertarlo, il campo legato agli Stati uniti vorrebbe
espungere la questione dal summit, mentre
la diplomazia dell’Alba e degli altri blocchi regionali solidali col Venezuela spinge per far
rientrare il decreto Obama. Un altro segnale
di dialogo, potrebbe provenire dall’elezione
dell’uruguayano Luis Almagro (Frente Amplio) alla direzione dell’Organizzazione degli
stati americani (Osa).
Apparentemente, le sanzioni sono rivolte
a un gruppo di funzionari che avrebbero
«violato i diritti umani dell’opposizione». I
media della destra venezuelana hanno però fornito un lungo elenco già prima che arrivassero le sanzioni e prospettato un disegno ben più ampio, fino all’intervento armato. Alcune clausole contenute nel dispositivo potrebbero aprire la porta a un blocco economico che mira alle attività delle raffinerie venezuelane Cigto in Nordamerica.
In modo diretto o indiretto, si potrebbe
complicare o impedire anche l’invio di farmaci e alimenti. Diversi opinionisti, tra i
quali Ignacio Ramonet, temono uno spostamento del fallimentare blocco Usa contro
Cuba sul Venezuela.
Ieri, nel paese, è cominciata la raccolta di firme «Obama ritira subito il decreto», che si propone di raggiungere 10 milioni di adesioni.
Una petizione analoga circola già su change.org e per oggi è previsto un twitt mondiale
di solidarietà. In Venezuela, tutte le categorie
sociali hanno risposto all’appello dell’Alba, a
cominciare dagli operai del settore petrolifero. E manifestazioni per chiedere a Obama il
ritiro del decreto si stanno svolgendo in diversi continenti. Anche in Siria centinaia di manifestanti hanno sfilato per sostenere il governo
bolivariano e, negli Stati uniti, il Bronx - i cui
poveri si scaldano con il combustibile erogato
gratuitamente dal Venezuela attraverso Cigto
- è tornato a innalzare i cartelli pro Maduro.
UCRAINA
Economia disastrosa
e le destre chiedono
la testa di Jatsenjuk
Fabrizio Poggi
A
rsenij Jatsenjuk ha chiesto a Francois Hollande e Angela Merkel di
aiutare l'Ucraina a chiudere la parte di frontiera con la Russia (circa 400
km) non controllata da Kiev, nelle regioni
di Donetsk e Lugansk, i cui territori la Rada suprema ha definito «temporaneamente occupati».
Il giorno precedente, Jatsenjuk aveva
dichiarato che il governo inizierà quanto
prima la costruzione di una «linea di sicurezza» alla frontiera con la Russia, stanziando la cifra occorrente (circa 40 milioni di dollari) dai fondi di riserva statali e
aveva chiesto al Ministero della difesa e a
quello delle finanze di anticipare dal 3° al
1-2° trimestre 2015 gli stanziamenti per
l’acquisto di mezzi militari. Di fronte a
tanta sollecitudine per obiettivi che non
sembrano proprio seguire le linee di un
processo di pace, c’è da chiedersi quali
mezzi finanziari Kiev possa dirottarvi, tenuto conto della situazione economica vicina al tracollo. Tanto vicina che nei giorni scorsi, alla Rada, il deputato del partito
ultranazionalista Svoboda, Mikhail Golovko – certamente non spinto da preoccupazioni pacifiste - ha chiesto né più né
meno che le dimissioni dello stesso Jatsenjuk per «incompetenza come capo del
gabinetto dei ministri» e ha proposto che
si ponga all’ordine del giorno un cambio
di governo.
Non sono nati ora i conflitti intestini
tra le forze nazionaliste e apertamente fasciste che, dentro e fuori la Rada, sostengono il governo e la sua politica di confronto armato con le regioni separatiste
del Donbass, ma è probabile che il precipitare della situazione economica e il drastico peggioramento delle condizioni di
vita della larghissima maggioranza della
popolazione, sia accompagnato da una
crisi sociale interna che potrebbe mettere
in seria difficoltà, anche di fronte ai suoi
sponsor occidentali, l'attuale dirigenza
ucraina. Se in passato si è assistito, a
Kiev, alle dimostrazioni dei battaglioni neonazisti, scontenti della politica a loro dire «accomodante» del presidente Poroshenko nei confronti del Donbass, non è
escluso che si possa ora andare incontro
a una sorta di edizione ucraina della «crisi del fascismo», allorché quello che è stato il suo relativo «consenso di massa» (nelle regioni occidentali del paese) si trasformi in legittime proteste di carattere rivendicativo, anche semplicemente contro il
prezzo del pane aumentato di quasi sei
volte. E non mancano nemmeno lotte interne tra le stesse formazioni neonaziste,
come accaduto nei giorni scorsi con la filiale locale di Pravij sektor a Zaporozhe,
per accaparrarsi il controllo su alcune industrie locali.
Ma la guerra è guerra e non sono pochi
coloro che vedono negli accordi di Minsk
dello scorso 12 febbraio solo un’ulteriore
possibilità di rimettere in sesto l’esercito
e prepararlo a una nuova offensiva: secondo l'intelligence del Donbass, alcuni
concentramenti di forze governative potrebbero preludere a un attacco nel giro
di due settimane. E non sono quindi del
tutto casuali le notizie di ieri a proposito
dei militari britannici che hanno già iniziato l’addestramento dei soldati ucraini
e degli istruttori Usa che si occupano della preparazione della Guardia nazionale
di Kiev. Per quanto riguarda i consiglieri
di Sua maestà, la cui missione era stata
annunciata la settimana scorsa dal primo
ministro David Cameron, un contingente
di 35 istruttori sarebbe già di stanza a
Nikolaev, dove rimarrà due mesi. La preparazione di circa 800 Guardie nazionali
ucraine da parte statunitense, è stata confermata l'altro ieri nel corso di una conversazione telefonica tra Petro Poroshenko e il vice presidente Usa Joe Biden, mentre per fine mese si attende
l'arrivo dei primi veicoli militari forniti
a Kiev dagli Stati Uniti. Non si è fatta attendere la reazione di Mosca; il Ministro degli esteri Serghej Lavrov ha detto
che Washington sta incitando Kiev a
uno scenario di guerra.
VENERDÌ 20 MARZO 2015
il manifesto
VISIONI
pagina 9
Intervista • Lo scrittore, sceneggiatore e regista francese Emmanuel Carrère
è protagonista al festival di Locarno di un programma fatto di proiezioni e incontri
Isabella Mattazzi
D
i Emmanuel Carrère in quanto
scrittore, in Italia nei giorni scorsi
per presentare il suo nuovo romanzo Il Regno appena uscito per Adelphi, sappiamo pressoché tutto. Meno nota invece è la sua passione per il cinema,
così come la sua attività di regista. Il festival di Locarno L’immagine e la parola
(19-22 marzo) gli ha chiesto di comporre
un programma fatto di proiezioni e incontri che siano in qualche modo significative del suo immaginario.
Il cinema è stato da sempre un centro
di interesse molto forte per lei. Ha pubblicato una monografia su Werner Herzog, all’inizio della sua carriera ha lavorato come critico cinematografico per
la rivista Positif e ha scritto diverse sceneggiature per la televisione. Nel 2003
ha deciso di girare un suo primo film Ritorno a Kotelnich, cosa niente affatto
scontata per chi scrive e si occupa di cinema, per quale motivo ha sentito il bisogno di passare dall’altra parte dello
schermo?
A dire la verità l’idea di fare un film
non è nata da una volontà precisa. Nel
2000, appena pubblicato L’Avversario, mi
sono trovato in un periodo abbastanza caotico della mia vita, ero completamente
svuotato. Mi hanno proposto un soggetto
per un reportage - la storia di un soldato
ungherese fatto prigioniero in Russia e rimasto lì per 55 anni dopo la guerra, una
specie di Kaspar Hauser rinchiuso in un
ospedale psichiatrico in un paesino a 800
km da Mosca – e ho accettato. Il reportage non sarebbe stato qualcosa di scritto,
ma un breve documentario per una trasmissione televisiva. È stato così che sono partito per Kotelnich con un cameraman e un fonico per un paio di settimane
e ho scoperto che lavorare in équipe –
«Girando film ho scoperto
che lavorare in equipe per me abituato
alla solitudine
della scrittura - piaceva»
per me da sempre abituato alla solitudine della scrittura – mi piaceva moltissimo. Nella vita degli abitanti di Kotelnich
c’era qualcosa che mi attirava, qualcosa
di non ben definito, ma che mi era immediatamente sembrato importante cogliere, una sorta di «materiale romanzesco».
La cosa che ho trovato in Ritorno a Kotelnich più toccante è la sua voce. Ci
sono ampie sezioni in cui lei parla di fatti estremamente intimi, personali, e le
immagini scorrono come se fossero un
puro e semplice accompagnamento alla parola. Che funzione ha per lei l’immagine?
Anche se da sempre sono un grande
amante del cinema, non credo di essere
una persona profondamente visuale e
non credo neppure che la mia scrittura
sia troppo visiva, descrittiva. Durante le riprese a Kotelnich ho deciso di non controllare l’immagine. Fin dall’inizio ho lasciato che il mio cameraman si occupasse in tutto e per tutto delle riprese, che decidesse lui cosa e come filmare. Il mio
Intorno alla parola,
l’immaginario filmato
compito era quello di creare situazioni,
decidere dove andare e chi incontrare,
ma riguardo al risultato concreto sulla
pellicola volevo in un certo senso poter disporre di immagini di cui allo stesso tempo non ero responsabile e che non mi appartenevano. In questo film c’è una specie di rinuncia al controllo. Il controllo, la
mia parte ordinatrice interviene soltanto
durante il montaggio, una volta che tutti
UN PRIMO
PIANO DI
EMMANUEL
CARRERE,
IN ALTO
UN’IMMAGINE
TRATTA
DA «RITORNO
A KOTELNICH»
gli elementi cinematografici sono già stati prodotti. Un discorso simile si potrebbe fare anche per la scrittura, più vado
avanti e più mi accorgo che sulla pagina
lascio che le cose accadano, cerco di esercitare il minor controllo, la minor censura possibile.
Nel 2005 ha realizzato un secondo film,
«L’amore sospetto», trasposizione cinematografica del suo romanzo «Baffi».
Perché la scelta di un testo letterario?
E quali problemi ha comportato portare
sullo schermo un testo così ambiguo,
tutto giocato sul confine sottile tra la
realtà e la sua distorsione percettiva?
Tanto sono profondamente attaccato
a Ritorno a Kotelnich, quanto L’amore sospetto non ha più di tanta importanza per
me. Certo, sono contento di averlo fatto,
ma non è il genere di cinema che preferisco. L’esperienza di Ritorno a Kotelnich
era stata talmente entusiasmante per tutte le persone che vi avevano preso parte
che insieme alla produttrice del film, Anne-Dominique Toussaint, abbiamo deciso di ripetere l’esperimento: questa volta
si sarebbe trattato di una fiction. Fare un
film vero e proprio è sempre stato il mio
sogno di adolescente e all’improvviso mi
veniva offerto dal destino questo regalo
inaspettato. L’unico problema è che non
avevo alcuna idea su che cosa volessi fil-
mare. Mi è venuto in mente che all’uscita
di Baffi, in parecchi avevano tentato una
trasposizione cinematografica del libro
senza riuscirci è mi è sembrato abbastanza naturale cercare di provarci anche io.
In fondo i diritti del libro erano miei, mia
la storia, era un po’ come giocare in casa.
Ben presto però, durante le riprese, ci siamo trovati di fronte a un ostacolo non da
LE GIORNATE · Fedeltà, tradimento e adattamento
L'immagine e la parola, spin off primaverile del Festival di Locarno, voluto dal suo direttore, Carlo Chatrian, nasce per indagare un rapporto complesso e stratificato: Il
passaggio dalla pagina scritta all'immagine. Non è certo solo questione di adattamento, anzi in alcuni casi il tradimento dell'originale produce capolavori assoluti a differenza della pedissequa fedeltà al testo. In gioco vi è ovviamente l'interpretazione pensiamo a «Inherent Vice», il romanzo di Pynchon nel film di P.T.Anderson trova una
diversa ma sempre potente libertà - e la traduzione e molto altro. L'edizione 2015 si
affida a una guest star quale Emmanuel Carrère, scrittore oggi tra i più celebrati, sceneggiatore spesso dei suoi romanzi, regista egli stesso con passione per il cinema
tout court. E una possibilità, la più diretta, e non l'unica per esplorare un rapporto
che a ogni passaggio si pone sempre come una nuova scommessa. Tra gli altri ospiti
di spicco della rassegna anche l’attrice e regista italiana Valeria Golino, il cui film
«Miele» sarà mostrato domenica 22 marzo. La Golino incontrerà Carrère per una «lettura scenica» sempre domenica 22 marzo alle 17. Venerdì 20 e sabato 21 saranno
proiettati tre film di Pawel Pawlikowski. Il regista polacco ha appena vinto l’Oscar con
il suo «Ida». Saranno proposti anche due suoi documentari di inizio carriera.
Pawlikowski converserà con Carrère e con il pubblico sabato 21 marzo alle 18.
INCONTRI · Francesco Cafiso pubblica il 24 marzo tre nuovi album dove ha coinvolto oltre 100 artisti
«Così ho messo in musica i miei stati d’animo»
Stefano Crippa
È
uno dei talenti precoci della
scena del jazz italiano Francesco Cafiso. Un curriculum infinito di collaborazioni, una carriera messa in moto nel 2002 dall’incontro fatale con Wynton Marsalis
– rimasto folgorato dall’allora appena dodicenne sassofonista siciliano
in una sua esibizione al Pescara jazz
festival. L’anno dopo lo porta con
sè in un tour europeo e sarà poi
un’ininterrotta sequenza di concerti, incisioni in giro per il mondo.
Ora Cafiso tenta una sfida da far tremare i polsi, tre dischi pubblicati
contemporaneamente – già disponibili in digital download e dal 24 marzo anche in versione fisica – prodotti e arrangiati a quattro mani con Alfredo Lo Faro per Made in Sicily e in-
titolati rispettivamente Contemplation, La banda e 20 cents per note.
«L’intero progetto – racconta Cafiso
– nasce da un’esigenza artistica.
Sentivo la necessità di lavorare su
brani scritti da me e che rispecchiassero quello che sono oggi, l’eteroge-
«Ogni persona
è stata scelta, ogni
figura rappresenta
un tassello preciso
del mosaico»
neità rappresenta il mio modo di vivere e sentire la musica. Come se
fossero dei tasselli di un puzzle che
si è ricomposto secondo la mia personalità». Un progetto bulimico...:
«Sì ne sono consapevole, ma insieme al produttore ci siamo detti che
non avrebbe avuto senso uscire distanziati nel tempo perché è tutta
musica nuova. È stato uno sforzo
enorme, puoi chiamarla anche follia se vuoi, ho dovuto frenare l’attività concertistica per coordinare tutto, ma ne sono orgoglioso».
Il triplo disco lo ha visto impegnato in studio in Italia e poi a Londra,
New York e Los Angeles per tre anni, e ha coinvolto 100 artisti di cui –
33 – membri della London Symphony Orchestra oltre a Mauro
Schiavone e Giuseppe Vassapolli
che hanno arrangiato con lui tutte
le musiche. «Ogni persona è stata
scelta, ogni figura professionale rappresenta un tassello del mosaico
senza i quali l’opera oggi sarebbe incompiuta». Ogni raccolta rappre-
poco. L’immagine necessariamente «autentifica» le cose. Al cinema ci sono momenti in cui siamo obbligati a mostrare, a
fare vedere la realtà. Cosa che per quanto
riguarda una storia come quella di Baffi,
in cui ogni cosa può essere anche il suo
contrario, si è rivelata estremamente
complessa da realizzare cinematograficamente. È forse per questo che alla fine il
film non mi ha convinto più di tanto, e se
gli sono grato è solo per un particolare
tecnico. Il libro è scritto interamente dal
punto di vista del personaggio maschile e
giocato su minime sottigliezze di tipo psicologico, cosa che mi ha imposto un
estremo rigore nella messa in scena e mi
ha fortunatamente evitato di cadere in
tutti quegli eccessi, quella magniloquenza di inquadrature barocche tipica di chi
è alle prime armi dietro una telecamera.
«L’amore sospetto» è una riproposizione del romanzo estremamente fedele
tranne che per un unico elemento: il finale è tragico nel libro e di segno diametralmente opposto nel film.
La questione del finale cambiato riguarda due diversi fattori. Il primo di ordine
pratico. Letteralmente non sapevo come poter filmare il suicidio del protagonista senza che venisse fuori una sorta
di ridicola scena granguignolesca. E
neppure si poteva realizzare il suicidio
attraverso un’ellissi, qualcosa di allusivo. Nel libro è una scena molto forte,
molto violenta, risulta davvero impossibile edulcorarla. C’è un’altra ragione però, più profonda: quando ho girato il
film avevo vent’anni di più e in realtà
non avevo più voglia di raccontare una
spirale di follia e di disperazione, ma mi
interessava rappresentare la storia di
una coppia e il modo in cui, malgrado
tutto, arriva a uscire da una crisi, da un
disaccordo assoluto sulla realtà. Alla fine del film entrambi i protagonisti sanno che da quel momento in poi la loro
vita si reggerà su un compromesso, che
il terreno è minato e fragilissimo, ma
che ciononostante è stata loro offerta
una soluzione per rimanere in piedi. O
meglio, lui ha coscienza di tutto questo,
perché di lei non sappiamo nulla, la sua
logica rimane per noi del tutto opaca.
Nel film ho voluto dare una seconda
chance al protagonista, perché in un
certo senso ho sentito il bisogno di dare
una seconda chance alla mia vita.
senta una fonte d’ispirazione e uno
stato d’animo di Cafiso: «Contemplation racconta un po’ la mia concezione intima dell’esistenza. Tutto
è partito da un test a cui mi ha sottoposto un’amica psicologa, mi ha
chiesto cosa avrei fatto se mi fossi
trovato davanti a un muro. Le ho
detto che lo avrei dipinto e secondo
lei questo rappresenta la mia idea
di idealizzare la morte, vedendola
non come la fine ma come l’inizio
di qualcos’altro. Lì è iniziato il percorso di Contemplation, che parte
proprio con In front of a wall e si
chiude con The Wall I painted, il
muro che ho dipinto...».
La banda è quasi un omaggio alla
sua terra, la Sicilia: «Sì, è la sicilianità , ma la banda non è musica popolare ma è il pretesto per riportarci a
una cosa più complessa che è la mu-
so non si limitano all’ambito jazz, in passato la sua
strada e quella di artisti
come Jovanotti, Gualazzi
e Ruggiero si sono incrociate...: «Non voglio etichettare la musica: è bella
o è brutta. Non lo dico io
ma lo diceva Duke Ellington. In me c’è la voglia
di varcare i confini».
La crisi del settore musica è conclamata. Eppure crescono in maniera
esponenziale i talenti...:
«Vero, il livello medio si è
innalzato tantissimo. Anche grazie alla tecnologia
e a internet puoi studiare
FRANCESCO CAFISO/FOTO ROSELLINA GARBO
e confrontarti con i musisica jazz, inciso in formazione da secisti di tutto il mondo, girando su
stetto». 20 cents per note, nove moviyoutube ho scoperto una quantità
menti realizzati con un quartetto badi ragazzi bravissimi. C’è quindi più
se: «Qui ripercorro le tappe fondacompetizione e altrettanta difficoltà
mentali della mia vita. Questo è un
di emergere. A fronte della mia espedisco jazz ma c’è anche molto
rienza posso suggerire di lavorare
swing, la musica di cui mi sono insodo ma soprattutto trovare
namorato e con cui sono nato e creun’identità che ti permetta di non
sciuto». Gli incontri musicali di Cafipassare inosservato».
pagina 10
il manifesto
VENERDÌ 20 MARZO 2015
CULTURE
ALICE CERESA
Alessandra Pigliaru
D
i Alice Ceresa, scomparsa il
22 dicembre del 2001 a Roma all’età di 78 anni, rimangono alcuni fra gli scritti più taglienti e adamantini che la letteratura italiana abbia conosciuto. «Il carattere
del secolo si è distillato in lei senza
nessuna ombra».
È ciò che pensa Patrizia Zappa
Mulas a proposito di Alice Ceresa,
scrittrice nomade e imprendibile
nata a Basilea, trasferitasi dal 1950 a
Roma, «la sua si potrebbe considerare una fenomenologia poetica di
alcune emozioni e affezioni di base». Il carattere del secolo prende
così le sembianze di una figura minuta, sfuggente la mondanità e i cliché dei salotti letterari a lei contemporanei, e si orienta in una parola
severa, esplosiva e senza piaggerie.
Laboriose mappature del Novecento letterario e politico, i pochi testi
che sono stati pubblicati mostrano
che a essere distillata è la rappresentazione di un mondo da rovesciare
nella piena assunzione di alcune e
precise idee, principalmente incarnate dalla propria differenza sessuale. Muoversi nel teatro della coscienza, operazione complessa e
difficile, ha significato così per Alice
Ceresa costanti contrattazioni anzitutto con se stessa, «nata già emigrata» come si definiva lei stessa e capace di abitare magistralmente sia
la lingua italiana sia quella tedesca.
La separazione
dal latte paterno
Una giornata dedicata alla scrittrice svizzera e alle sue opere
letterarie, tutte dedicate alla questione femminile.
Con la «figlia prodiga» mise in scena la parabola di una rivoluzione
che puntava allo smascheramento del sistema patriarcale.
Oltre la famiglia borghese
Quando nel 1967 viene pubblicato
La figlia prodiga che inaugura la collana di ricerca letteraria di Einaudi
diretta da Guido Davico Bonino,
Giorgio Manganelli e Edoardo Sanguineti, Ceresa ha già al suo attivo
diversi articoli e interventi per esempio in Die Weltwoche, Tempo pre-
I suoi testi sono
laboriose mappature
del ’900, che rovesciano
la cartografia
delle relazioni umane
sente, Botteghe oscure, Tuttestorie.
Le sue interlocuzioni, da Maria Corti a Luigi Comencini, Franco Fortini, Toti Scialoja, Italo Calvino, Giorgio Parise ed Elio Vittorini, ma anche il Gruppo ’63, stanno a indicare
un profilo letterario composito e
cruciale.
Eppure è stato l’interesse verso il
femminismo, continuamente perimetrato, che le ha posto gli interrogativi sostanziali. Andare al cuore
della struttura letteraria e della
struttura socio-politica per Alice Ceresa sono state due parti di uno stesso fondamentale ragionamento
che ha preso avvio da una critica alla famiglia borghese e patriarcale.
Come nel libro del 1967 (premio
Viareggio Opera Prima), anche nel
lungo racconto La morte del padre,
apparso nel 1979 in Nuovi Argomenti (e nel 2013 per et al.) e Bambine
(Einaudi, 1990) – tutti e tre ristampati nel 2004 in un unico volume
per La Tartaruga - il punto critico è
sempre la famiglia, in cui i nomi
propri lasciano il posto ai posizionamenti relazionali all’interno di essa.
Decostruzione sontuosa da parte di
una parola sediziosa che attenta ai
luoghi comuni concettuali della società e della letteratura, quella della
figlia prodiga è parabola di rivoluzione che punta allo smascheramento del sistema patriarcale. Per
farlo fuori, definitivamente. La dilapidazione del patrimonio è dunque
il rifiuto massimo dell’ordine costituito, della coercizione alla scelta
impositiva di acquisire identità avariate d’accatto e seguire strade servili e moderate già percorse.
La figlia prodiga non è un romanzo, non è neanche un saggio, è piuttosto un’anomalia da meditare con
cura, una sperimentazione in cui la
protagonista «sperpera un patrimonio di secoli e di effettive ricchezze,
rimanendo a mani vuote, vale a dire senza più un «posto» codificato
nella società. Il libro è la descrizione dettagliata – benché astratta – di
questo sperpero… vale a dire che il
personaggio è consapevole della
ambiguità e malvagità del lavoro di
detrazione che compie. Con le proprie formule la società le pone automaticamente un aut aut: o entrare
nel gioco contentandosi di «non essere» come entità autonoma, pensante e soggettiva, oppure passare
alla rivolta necessariamente subdola, interiore e solitaria».
La prodigalità ceresiana ha anticipato ciò che da lì a poco sarebbe accaduto, gli anni settanta insieme alla lotta di molte altre figlie prodighe
e la successiva scelta della libertà a
dispetto del copione che si sarebbe
dovuto interpretare.
Relazioni pericolose
Al cuore della famiglia che «infine
esploderà» punta anche La morte
del padre, racconto scritto quasi di
getto nella casa d’infanzia di Cama
nei giorni successivi alla morte del
padre della scrittrice, lo stesso padre a cui nel 1940 invia una lettera
in cui dichiara il proprio amore nei
confronti della letteratura. Il congedo dal padre è tuttavia anche il pretesto per indagare il territorio della
perdita, della trasformazione dei
corpi e dell’ossessione che Ceresa
aveva nei confronti delle singole
pieghe del divenire altro.
Così il lutto per lo stordimento affettivo lascia immediatamente il posto a una più alta – e magnifica – dislocazione che assume un senso
politico. Quando cioè si trova il coraggio per dire a se stesse «Che cosa è mai un padre se non una imposizione di comportamenti, recepito conseguenzialmente e senza alcuna particolare attenzione: eppure è con questi vuoti connotati che
si trasferisce senza ricorso nella vita dei figli».
In questo senso andrebbe riletto
anche Bambine, imperdibile spaccato delle dinamiche relazionali e
in particolar modo familiari. E anche il Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile (Nottetempo
2007) pubblicato postumo a cura di
Tatiana Crivelli con la postfazione
di Jacqueline Risset. In quel lavoro,
cominciato agli inizi degli anni settanta e mai portato a termine, si vorrebbe rendere conto di un abbecedario politicamente parlante. Come ricorda Crivelli infatti sono la
fragilità e il potere di ogni codificazione fissa, legislativa, sessuale, familiare, che Ceresa avrebbe voluto
scardinare «mettendo a nudo gli inganni della funzione definitoria della lingua, utilizzando dunque proprio un dizionario, il definitore per
eccellenza, per smascherare la vuota concettosità della normatività linguistica».
Il fondo privato delle numerosissime carte, edite e inedite, di Alice
Ceresa - il cui lascito è curato da
Barbara Fittipaldi - è conservato
presso l’Archivio svizzero di Letteratura della Biblioteca di Berna.
CASA INTERNAZIONALE DELLE DONNE
CORRISPONDENZE · La lettera che Toti Scialoja le spedì, dopo aver letto «Bambine»
Parole, film e reading
dedicati all’autrice
«Il tuo libro si colloca nel cielo della Tragedia»
Sabato 21 marzo, dalle ore 10 alle 19,
presso la Casa internazionale delle donne di Roma (Sala Simonetta Tosi), la
Società Italiana delle Letterate, con
l’adesione e il sostegno di Archivia e
della Casa internazionale delle Donne
di Roma e il patrocinio dell’Ambasciata
di Svizzera in Italia, promuove per il 21
marzo un incontro dedicato a Alice Ceresa, dal titolo «La scrittrice prodiga. Le
parole di Alice Ceresa». Con la presenza di Barbara Fittipaldi, interventi di Anna Maria Crispino, Maria Rosa Cutrufelli, Annetta Ganzoni, Maria Teresa Grillo,
Francesca Maffioli, Laura Marzi, Gianna
Mazzini, Loredana Rotondo, Nadia Setti, Patrizia Zappa Mulas. Ci sarà anche
la proiezione del video «Alice Ceresa.
Se tu sapessi» (del 2006) e verrà proposta una lettura dell’attrice Ottavia Fusco de «La morte del padre», con l’accompagnamento dell’arpista Ornella
Bartolozzi. Per info:
www.societadelleletterate.it; aliceceresa.sil@gmail.com
ara Ceresa,
è più di quarant’anni che ci siamo conosciuti, io allora amavo moltissimo certe tue pagine, ora ne ho un ricordo confuso. Debbo scriverti questa lettera. Non ti ho trovato sull’elenco telefonico, ma sono riuscito a pescare il tuo indirizzo.
Debbo dirti che ho letto Bambine. Ne
ho ricevuto un’emozione violentissima,
sconvolgente. Debbo dirti che il tuo libro è un capolavoro. Lo paragono a pochissimi altri del nostro novecento; alla
Coscienza di Zeno, a Tre croci, a Se questo è un uomo, a La cognizione del dolore, a Casa d’altri, a Quattro novelle sulle
apparenze (forse).
Le tue Bambine non ripercorrono le lamentazioni rassegnate dell’Ecclesiaste.
Non mettono in gioco la polvere, la vanità del nostro esistere, piuttosto il disgusto
che noi proviamo per questa polvere, per
questa vanità. L’orrore che ne prova la nostra anima moderna.
C
Il tuo libro rappresenta mirabilmente
due orrori: quello di qualunque umana vita, ripugnante per il suo anonimo e incosciente condizionamento – una vita priva
persino di impennate o alibi psicologici e
fondata unicamente sull’ingombro momentaneo e insensato del suo esserci – e
l’orrore di volerne parlare con i mezzi di
una sintassi aulicamente codificata.
La «bella prosa» crea, già di per se stessa, consolazione (ved il Cantico del Gallo
Silvestre). Quindi la tua è una scrittura
nauseata di se stessa – un periodare sconnesso e come preso in prestito, costruito
su una serie di subordinate alla deriva,
tra il verbale di contravvenzione, l’elenco
giudiziario, la relazione notarile, ecc. Una
lingua che tu inventi, impastata di malagrazia, di sarcasmo, di improvvisi lampeggiamenti.
Insomma il tuo libro mi ha spaccato in
due. Si colloca nel cielo della Tragedia,
ben lontano dalla dimensione servile
dell’attuale letteratura patria. L’impossibilità a vivere, il dolore e il rancore che io
ne provo, tu me lo hai raccontato in questo libro. Di questo ti sarò sempre grato.
Seguita a scrivere, te ne prego.
tuo,
Toti Scialoja
Roma, 4 maggio 1990
VENERDÌ 20 MARZO 2015
CULTURE
oltre
ALTAMIRA VA CONSERVATA, NON RIAPERTA
Le pitture rupestri delle cave di Altamira, i giacimenti
archeologici in Cantabria, patrimonio dell'Umanità, potrebbero
essere messe compromesse a causa della riapertura al
pubblico del sito. A lanciare l'allarme, gli esperti del
tutto
Dipartimento di Preistoria dell'Università Complutense di
Madrid che, in una lettera all'Unesco hanno criticato la
gestione delle cave: «il programma del ministero di Cultura
della Spagna, un piano che comporta l'apertura delle cave ai
visitatori, pone mette a rischio una fragile eredità, di enorme
OLAFUR ELIASSON, «THE WEATHER PROJECT», TATE MODERN, 2003/04
Finiti gli occhiali
per osservare
l’oscuramento
del sole.
Gli scienziati
propongono
una planetaria
esperienza
di «citizen
science»
Andrea Capocci
L’
eclisse di sole è una festa
per grandi e piccini. Nessuno vorrà perdersi lo
spettacolo del sole nero a metà,
che oggi, tra le nove del mattino e
mezzogiorno, con il picco alle dieci e mezza, sarà visibile anche in
Italia. Come tutti gli eventi astronomici rari, anche l’eclisse sta generando una discreta psicosi dal
sapore millenaristico.
In Inghilterra, dove la luce solare calerà anche del 90 per cento
in piena ora di punta, le autorità
stanno diffondendo l’allarme tra
gli automobilisti affinché non tolgano gli occhi dalla strada per godersi lo show. In Francia, invece,
le autorità sanitarie hanno allertato addirittura i presidi. Di conseguenza, gli alunni delle scuole
elementari parigine non potranno uscire all’aperto perché guardare il sole, sia pur dimezzato,
senza protezione può provocare
danni gravi alla vista.
L’eclisse, infatti, ha preso di sorpresa (si fa per dire) i produttori
degli occhiali speciali necessari
per guardare il sole in sicurezza e
gli stock sono esauriti in tutto il
continente. Eppure, la scienza della previsione delle eclissi dovrebbe essere assai sviluppata proprio
il manifesto
ASTRONOMIA · Oggi l’eclisse di sole. Crescono i piccoli business della paura
Conto alla rovescia
per il black out del cielo
in Cina, dove la maggior parte di
questi occhiali sono fabbricati: già
nel 2100 a.C. l’imperatore Zhong
Khang fece decapitare gli astrologi di corte, rei di non aver previsto
un’eclisse. Qualcuno ne sta approfittando per incrementare i suoi
guadagni: su Ebay, occhialini di
cartone da due o tre euro vanno
all’asta per prezzi dieci volte superiori. In mancanza di lenti adegua-
te, quindi, è meglio rimanere in
classe con le tapparelle chiuse (in
Francia funzionano).
Anche gli scienziati stavolta approfitteranno dell’eccitazione popolare per raccogliere dati scientifici. In effetti, l’eclisse solare è tuttora un intrigante campo di ricerca, sebbene sia studiato sin
dall’antichità.
L’università di Reading propo-
ne a cittadini più o meno esperti
di partecipare ad un esperimento di citizen science (scienza partecipata). L’obiettivo del «National Eclipse Weather Experiment» è quello di documentare
con termometri e anemometri
di uso domestico un fenomeno
molto raccontato ma poco accertato, il «vento di eclisse»: una folata di aria fredda determinato
importanza, per la comprensione della società paleolitica». Il
giacimento, chiuso al pubblico dal 2002, dal 2012 è stato
riaperto a visite per sorteggio, di gruppi di cinque persone più
una guida. E prossimamente si dovrà decidere se proseguire a
tempo indeterminato.
dall’oscuramento del sole.
Durante le eclissi totali, inoltre,
diventa possibile osservare la corona solare, l’alone di materia rarefatta che circonda il Sole e normalmente invisibile per la fortissima
luminosità della stella. La corona
è ancor oggi un oggetto misterioso: le particelle che la compongono hanno una temperatura di
uno-due milioni di gradi, molto
più elevata rispetto alla superficie
solare nonostante quest’ultima
sia più vicina alla fonte del calore
(le reazioni nucleari al centro della stella).
Il motivo non è ancora chiarito
del tutto, anche se il campo magnetico del sole, in grado accelerare le particelle cariche, potrebbe
essere la causa di questo apparente paradosso energetico. Proprio
per osservare la corona, diverse
équipe di scienziati hanno trasferito per tempo i loro telescopi alle
isole Svalbard, uno dei pochissimi
luoghi abitati d’Europa in cui
l’eclisse sarà totale.
Tra tante paure immaginarie,
per una volta, chi teme davvero è
la Germania, il paese al mondo
che più si affida all’energia solare
per produrre elettricità. I pannelli
fotovoltaici tedeschi generano
quasi la metà dell’intera potenza
installata in Europa (40 gigawatt
su 89: oltre il doppio del secondo
classificato, l’Italia).
L’eclissi sarà un vero stress
test. Il problema non sarà tanto
l’assenza del sole, evento piuttosto frequente nel grigio cielo tedesco, quanto la repentina variazione di luminosità. Secondo uno
studio del Fraunhofer Institute di
Friburgo, con il bel tempo l’effetto dell’eclissi sarà equivalente allo spegnimento di 12 grandi centrali (un calo di 23 GW) e al successivo riavviamento di altre 19,
tutto nel giro di tre ore. Per affrontare le fluttuazioni dell’energia solare, la rete tedesca è abituata a rispondere con altre fonti alla domanda di potenza e le simulazioni svolte finora non inducono
particolari timori. Ma la voglia di
gufare contro i primi della classe
è tanta.
SAGGI · «Il sindacato al tempo della crisi» di Massimo Franchi
MOSTRE
Un deficit di rappresentanza
nell’epoca del «lavoro atipico»
«Il Medioevo in viaggio»,
al museo Bargello
di Firenze, dai reliquari
alle miniature e vetrate
Roberto Ciccarelli
N
ella coalizione sociale Landini vede
l’occasione di riformare la Cgil. Senza questa riforma, aggiunge il segretario della Fiom, il sindacato rischia di scomparire. Per capire i contenuti della battaglia
politico-culturale in corso è opportuno leggere il libro di Massimo Franchi pubblicato
in maniera tempestiva da Ediesse: Il sindacato al tempo della crisi (pp.176, euro 12). In
un libro che contiene interviste ai segretari
dei confederali, a sociologi come Giuseppe
De Rita o Aldo Bonomi, precari freelance e
partite Iva, Franchi delinea il campo interno
ai sindacati, e in particolare alla Cgil, dov’è
emersa la necessità di un’autoriforma. La dedica del libro a Davide Imola, uno dei più
sensibili e attrezzati sindacalisti della sua generazione, oggi purtroppo scomparso, è indicativa. Come Imola mostrò nella sua azione, per avere un futuro il sindacato deve imparare a rappresentare il «quinto stato»: il lavoro autonomo, precario e povero, insieme
a chi vive nella zona grigia tra le attività autonome ed eterodirette, ma non è riconoscibile nel perimetro del lavoro subordinato.
«Il numero di questi lavoratori aumenta
costantemente e sostituirà buona parte dei
lavoratori dipendenti – spiega Franchi –
Queste persone hanno un’incredibile necessità di essere tutelati e, sebbene molti non lo
riconoscano, di essere rappresentati». In
questa cornice parlare di «coalizione sociale» non significa evocare un «nuovo soggetto politico di sinistra», come sostengono la
Cgil e molte delle sue federazioni contro
Landini e la Fiom. Al contrario, significa riconoscere l’attuale incapacità del sindacato a
rappresentare il vasto continente del quinto
stato ma, allo stesso tempo, lanciarlo in una
nuova battaglia politica. «Considerare le tutele dei lavoratori autonomi e precari come
diritti di cittadinanza – aggiunge Franchi – E
la contrattazione sindacale come strumento
per ottenerla».
Free lance, precari, «autonomi»
di seconda e terza generazione.
La presa di contatto
per le costellazioni ignorate
dei senza diritti
Questa definizione di «contrattazione sindacale» come strumento per estendere i «diritti di cittadinanza» Franchi la intuisce a
partire dalle esperienze di community e labour organizing negli Stati Uniti o di coalizione sociale in India raccontati da Valery Alzaga, Kim Moody o Arijun Appadurai. Paesi
dove i sindacati tradizionali si sono coalizzati – e certo non in maniera né lineare né pacifica, considerata la loro natura «manageriale» o corporativa – con le esperienze di autorganizzazione per il salario minimo, le leghe
di resistenza, le Ong in lotta contro la povertà, i movimenti anti-razzisti e le organizzazioni territoriali. «Bisogna aggiornare la definizione di alleanza dei produttori di Trentin
– aggiunge -. Serve un’alleanza dei deboli,
degli sfruttati, dei subordinati di chi pur essendo formalmente autonomo dipende da
imprese che impongono diminuzione di diritti e tagli dei compensi».
Allargare la rappresentanza significa ampliare la base sociale e professionale del sindacato. Un’esigenza fondamentale dopo la
rottura del collateralismo tra Cgil e Pd, mentre l’affermazione di Renzi ha reso il sindacato un corpo sociale senza referente politico.
Fare coalizione è un modo di costruire una
base politica diversa che richiama le origini
inclusive del movimento operaio, quando
l’azione sindacale era una pratica di cittadinanza, mentre la contrattazione era il risultato di una negoziazione politica sulla base di
una lotta di classe. «Oggi è necessaria una
lotta di resistenza che riporti il sindacato alle sue radici per farlo ripartire da nuove basi» conclude Franchi.
Così intesa, si capisce perché la «coalizione» allarmi gli attori della spoliticizzazione
italiana: il Pd, la sua «sinistra» chiacchierona, la maggioranza della Cgil, oltre che i Cinque Stelle. All’unisono hanno iniziato a cannoneggiare Landini perché vedono in questa pratica di cittadinanza uno degli strumenti per mobilitare la società in vista
dell’unificazione dei lavori e della conquista
dei diritti fondamentali, tra cui c’è quello alla coalizione. Se questo dibattito resterà confinato nelle stanze della Cgil, sarà una sconfitta per tutti, e non solo di Landini. Qualora
rimanesse ostaggio degli zombie della politica istituzionale sarebbe una tragedia. Questa è l’ultima possibilità per tornare a fare
politica. Dopo c’è solo la restaurazione dello
status quo, aspirazione insignificante per
chi ieri come oggi non ha più nulla.
pagina 11
A Firenze, presso il Museo nazionale
del Bargello (da oggi e fino al 21 giugno prossimo) sarà visitabile la mostra «Il Meioevo in viaggio». Offerta in
prima battuta al pubblico parigino al
Musée de Cluny tra l’ottobre 2014 e
il febbraio scorso, questa rassegna
approda ora al Bargello con il medesimo percorso espositivo, seppure rimodulato con alcune varianti dettate da
motivi di spazio e dalla necessaria
rotazione dei materiali più delicati.
All’insegna dell’Età di Mezzo e di una
comune cultura europea, l’esposizione presenta oltre cento opere d’arte,
in un «itinerario» simbolico e reale,
attraverso pitture su tavola, sculture
in pietra, miniature, manufatti in avorio, vetrate, placchette di metallo più
o meno pregiato e poi antiche carte
geografiche e strumenti usati dai navigatori, come pure sigilli o reliquiari. Il
percorso è costituito anche da rarissimi oggetti di uso quotidiano conservatisi fino ai nostri giorni, quali scarpe,
borse da messaggero, lettere o cofanetti da viaggio: tutte testimonianze
della cosiddetta «cultura materiale»,
cioè oggetti realizzati in materiali poveri, ma ugualmente preziosi proprio
per la loro rarità.
La rassegna è strutturata in cinque
sezioni tematiche connesse ad altrettanti tipi di viaggiatori in età medievale: si va da una selezione di carte e
piante geografiche, all’idea di pellegrinaggio fino alle figure di crociati, cavalieri, mercanti. La mostra è curata
come il catalogo (edito da Giunti) da
Benedetta Chiesi, Ilaria Ciseri e Beatrice Paolozzi Strozzi,
SCAFFALE
Gino Belloni,
un taccuino
di segni libertari
Ernesto Milanesi
A
mano libera, perfino sulle buste squartate. Con
un tratto inconfondibile, poco accademico e molto
artistico. Senza interruzioni,
attraverso i decenni. Gino Belloni non è stato solo ordinario
di Letteratura italiana, ma si è
«rilassato» in punta di penna
o matita fino a produrre un vero e proprio catalogo originale dell’Ateneo di Venezia.
Caricature e ritratti (a cura
di Riccardo Drusi e Sergio Marinelli, Scripta edizioni, pp.
112, euro 14) mette in fila le
opere artistiche di Belloni.
Dal volto del padre Piero che
risale al 1969 fino alla rappresentazione «goliardica» di
Gianfranco Folena, Mario
Isnenghi, Marino Berengo o
Umberto Galimberti, tutti immortalati durante le loro sedute accademiche. Disegni
tutt’altro che amatoriali come
quelli di Alberto Moravia,
Chiara Frugoni e Mario Geymonat. Ma anche scorribande libertarie, nel caso della
«crocifissione» con l’autore
nella parte del «ladrone da sinistra, mona».
Un centinaio di ritratti originali che sono anche esposti fino al 12 aprile all’interno del
Dipartimento di Studi Umanistici di Ca’ Foscari. Rappresentano l’omaggio dell’Università allo studioso appassionato
soprattutto di Petrarca e tuttavia consentono di andare a
caccia dell’altro Belloni, quello che non rinuncia mai ad
uno sguardo innocente e spassionato.
«La galleria che ne sortisce
si vorrebbe rappresentativa
d’un ambiente umano e un
clima culturale nella sua lunga evoluzione. Ciascuno, secondo età anagrafica o progressione di carriera, identificherà o meno gli effigiati, e in
essi talvolta si riconoscerà (o
meno), con reazione diversa e
libera così come diversi sono
stati gli spunti all’origine dei
disegni, e libera la mano e l’intenzione di chi li ha realizzati»
spiegano i promotori dell’iniziativa.
Il «catalogo» restituisce già
la costanza artistica di Gino
Belloni che rispecchia in un
guizzo tante personalità:
Franco Fortini è immortalato sul foglio volante con il logo della piccola azienda grafica di provincia; Emanuele
Severino con il profilo del
suo essere parmenideo; Bepi
Mazzariol addirittura solo di
spalle; Laura Memmo accigliata e concentrata sul fluire della penna.
Una pubblicazione che accompagna la mostra di palazzo Malcanton Marcorà, ma
che sembra inaugurare la stagione filologica dedicata a Gino Belloni, in arte professore.
pagina 12
il manifesto
VENERDÌ 20 MARZO 2015
ULTIMA
Giovanotto
storie
ASPETTA E SPERA
Maurizio Franco
ROMA
L
e prime ore del giorno si riversano plumbee sul quartiere Garbatella. Il teatro Palladium e le cataste di cemento. Il 5 marzo e le 9:30 del
mattino. Quasi a fagocitare le casupole,
i ghirigori, le viuzze, l'intero rione operaio, la mastodontica sede della Regione
Lazio si incaglia su via Cristoforo Colombo. Saranno stati una cinquantina
davanti ai cancelli, tutti aderenti alla
piattaforma Garantiamoci un futuro.
No al business sulla disoccupazione giovanile, lo striscione tra le mani, infagottati, ombrelli puntati, le braccia incrociate, volti anonimi su carta bianca. Garanzia Giovani è una scatola vuota! Noi
vogliamo reddito e diritti!
La pioggia batte sull'asfalto, cade
scrosciante sui vetri delle macchine per
le strade di una Roma appena stiracchiata. «Abbiamo ottenuto un incontro
– esordisce Natascia, neolaureata, facoltà di Lettere e Filosofia – abbiamo strappato un tavolo di confronto con l'assessorato al Lavoro, per discutere, criticare
e dimostrare l'inefficacia e l'inadeguatezza del programma Garanzia Giovani». Sciarpa attorcigliata sul collo, «le nostre rivendicazioni sono chiare. Chiediamo all'amministrazione regionale di
ascoltare le esigenze di chi vive da anni
la precarietà e non solo le voci di chi
specula sul nostro disagio».
La Garanzia Giovani è un programma europeo avviato in tutta Italia il
1°maggio 2014 per offrire ai giovani tra i
UNA RECENTE
15 e i 29 anni diverse opportunità di
PROTESTA
orientamento, formazione ed inseriDI GIOVANI
mento nel mondo del lavoro nei paesi
DISOCCUPATI
membri con tassi di disoccupazione gioDAVANTI ALLA
vanile superiore al 25%. L'obiettivo
REGIONE LAZIO
esplicito non è creare occupazione ma
GARANZIA GIOVANI
I dati di un fallimento: un’offerta
di lavoro solo per 12.273 under 29
Il 12 marzo i «Neet» under 29 registrati alla «Garanzia giovani» erano 453.729 (+12 mila rispetto alla settimana precedente), pari all'81% del bacino di riferimento rappresentato da 560 mila che dovrebbero essere raggiunti dal programma europeo contro la disoccupazione giovanile. Le
risorse stanziate sono 957 milioni di euro, pari al 63,3%
del miliardo e mezzo complessivo stanziato. Due le novità
emerse nell’ultimo report: al 12 marzo si sono cancellati
dal programma 58.278 giovani, dall’11 settembre 2014 lo
hanno fatto in 93.365. Un dato dovuto a molteplici fattori,
tra i quali c’è la rinuncia soggettiva. La platea complessiva
dei «Neet» a cui inizialmente il programma era rivolto, era
di oltre 1 milione 565 mila under 29 su 2 milioni e 254
mila. Oggi è stata ridotta di due terzi. A febbraio i giovani
«presi in carico» erano 218 mila. A febbraio 12.273 hanno
ricevuto un’offerta di lavoro: il 3%. Il governo Renzi sta cercando di tappare le falle. Il 2 marzo il ministero del Lavoro
ha modificato i criteri di «profilazione» dei giovani iscritti e
le regole sul «bonus assunzioni». Nella speranza di rendere
più «appetibili» gli incentivi stanziati per le imprese.
l'obbligo di svolgere qualsiasi attività lavorativa proposta. La gran parte del
1,5 miliardi di euro si focalizza nella
formazione, tirocini e bonus occupazionali per le imprese. «Un ruolo decisivo ora spetta al sistema imprenditoriale - ha scritto Poletti - Sono le imprese il vero motore dello sviluppo; sono le imprese che creano lavoro». Alla
luce dei dati, al momento non sembrano molto interessate.
Torniamo al presidio. Il caffè bollente sul bancone. Un goccio d'acqua. L'accento lucano è inconfondibile. «La Garanzia Giovani è l'esemplificazione delle profonde trasformazioni del mondo
del lavoro – afferma Salvatore, lo zucchero e la tazzina, il bar che da subito
sulla strada - si accede all'offerta di qualsiasi opportunità o beneficio solo attraverso l'accettazione dell'obbligo a rendersi disponibile a farsi formare, ricollocare, ad accettare un eventuale posto di
lavoro, tante volte lontano anni luce rispetto alla propria formazione, pena la
perdita della possibilità di essere immesso nel mercato del lavoro. L'organizzazione e la gestione della forza-lavoro di riserva non viene privatizzata, ri-
La «Garanzia Giovani»
nel Lazio. Viaggio
nella protesta contro
il «nuovo business
della disoccupazione»
incentivare l'occupabilità: aumentare
la possibilità per i cosiddetti «Neet» acronimo per: Not (engaged) in Education, Employment or Training - di essere assorbiti nel mercato del lavoro. «Un
cambio di paradigma: dalla piena occupazione alla disoccupazione strutturale
e quindi all'occupabilità – persevera Natascia - Tutto questo trova la sua prima
vera applicazione nazionale nel programma Garanzia Giovani – e poi ad
elencare – nel ruolo delle politiche attive del lavoro, i nuovi ammortizzatori sociali, nel passaggio dalla contrattazione
nazionale a quella aziendale, il ruolo
della formazione professionale».
Il presidio rumoreggia davanti ai cancelli. Il ticchettio frenetico della pioggia
rintocca i secondi, i minuti, le ore immobili. Una delegazione è appena salita negli uffici dell'assessore. Le scale a
chioccia pregne d'acqua. Antonietta
pensierosa fissa il telefono. «Il Programma si concretizza – esordisce sovrappensiero – come un vero e proprio business sulla disoccupazione per agenzie
del lavoro interinali, enti di formazione
e orientamento, oltre che per le imprese interessate a bonus occupazionali, lavoro gratuito e tirocini finanziati con i
fondi pubblici”. La pioggia scandisce le
parole. «Sono clamorosi i ritardi e le
inefficienze: sono due mesi che non mi
pagano. Lavoro, uno stage di 150 ore
per 400 euro mensile. Stipendio, contratto, una possibile assunzione? Tutto
quello che mi garantiscono è un rimbor-
so spese e la speranza. Dicono che sia
un soggetto in perenne formazione: acquisisco credenziali, punti sul curriculum, sempre a disposizione, pronta a
scapicollarmi, a girare, anche a confondermi, ma sempre disposta e disponibile. L'intero sistema è fondato sull'economia della speranza».
Tutt’altra realtà emerge dalla descrizione del programma fornita dal ministro del lavoro Giuliano Poletti: «Per la
prima volta nel nostro Paese si attiva
un'azione sistematica per offrire a
un'ampia platea di giovani un ventaglio
di opportunità per aiutarli a entrare nel
mondo del lavoro - ha scritto - È una sfida complessa, che è indispensabile affrontare con il massimo impegno di tutti i soggetti coinvolti a partire, naturalmente, dal ministero del Lavoro, cui
spetta la regia del Piano: dalle Regioni,
che dovranno assicurare l'attuazione
degli interventi sul territorio; dai centri
per l'impiego e dalle Agenzie private accreditate che dovranno concretamente
seguire i giovani».
Per capire lo stato delle cose, bisogna
ricorrere ai dati aggiornati dell’ultimo
rapporto. I finanziamenti concessi per
la Garanzia Giovani sono all'incirca di
1,5 miliardi di euro: 1,134 miliardi
dall‘Europa +380 milioni di finanziamento nazionale. I giovani registrati il
12 marzo al Programma erano 453.729,
tutti tra i 15 e 29 anni. La Rilevazione
Continua sulle Forze di Lavoro stima
che in Italia i «Neet» siano oltre 2 milio-
ni 254 mila. Garanzia giovani aveva delimitato la platea a 1.565 milioni giovani:
disoccupati ed inattivi ma in grado di lavorare. Oggi la platea è stata ridotta a
560 mila. I giovani presi in carico nel
frattempo sono solo 218 mila, poco meno della metà dei registrati. Secondo i
dati Adapt i partecipanti che hanno ricevuto una proposta di politica attiva sono erano a febbraio 12.273, poco più
del 3% di quelli «presi in carico». È necessario sottolineare che ogni iscritto è
tenuto a firmare il Patto di servizio e la
DID (Dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro) con cui sottoscrive
sulterebbe troppo onerosa per i privati,
ma si avvia un'immediata sinergia tra
pubblico e privato». «Il Programma Garanzia Giovani non fa altro che anticipare quanto oggi è in fase di discussione e
stesura con i decreti attuativi del Jobs
Act. È definitivo il passaggio dalle politiche di welfare a quelle di workfare».
È mezzogiorno quando la delegazione riemerge, nonostante la pioggia non
abbia mai cessato, nonostante il tempo
si sia arenato e una velatura grigia abbia inquinato l'aria umida. «Abbiamo
vinto e ottenuto dal tavolo lo sblocco
immediato dei pagamenti dei tirocini
già attivati – spiega Tiziano di «Garantiamoci un futuro» – e la rassicurazione
che l'indennità o il rimborso si alzi a
600 euro per il Lazio. Il nostro fine però
è che i soldi vengano equamente ridistribuiti ai reali beneficiari, senza che vi
siano ulteriori speculazioni, garantendo un salario minimo o un reddito di
base alle decine e decine di migliaia di
giovani precari che in questa regione
non hanno un lavoro e non possono accedere a nessun ammortizzatore sociale». L’impegno continua. Appumento
alla regione Lazio, nel quartiere Garbatella, mercoledì 25 marzo per uno «speakers’ corner» di neet, disoccupati e precari. «Questa volta non ci accontenteremo di un tavolo a porte chiuse».
SCIOPERO SOCIALE · A Roma c’è #Garantiamociunfuturo
Il coordinamento #Garantiamociunfuturo nasce per denunciare l'inadeguatezza del
programma europeo Garanzia Giovani e per organizzare in ogni regione i migliaia di
beneficiari su degli obiettivi rivendicativi fondamentali da declinare in ogni territorio,
a seconda delle specificità regionali: salario minimo, reddito di base, universalizzazione dei diritti e degli ammortizzatori sociali. Nella regione Lazio, al termine della mobilitazione sul lavoro gratuito presso il centro per l'impiego Porta Futuro lo scorso 7 novembre, il coordinamento ha stilato una serie di punti da contrapporre alle insufficienze del Programma e della sua attuazione: dall'innalzamento dei rimborsi in relazione
al tetto massimo previsto per legge, da 400 a 600 euro, alla loro erogazione mensile,
fino ad arrivare alla trasparenza nella gestione dei fondi investiti su tirocini e stage e
al monitoraggio delle aziende che aderiscono al Progetto. Inoltre #Garantiamociunfuturo è uno dei tasselli della rete politico-sociale dello strike meeting e del percorso
dello sciopero sociale, che vede nella connessione, nella cooperazione e nel mutualismo delle lotte dei precari, degli studenti, dei disoccupati, dei professionisti atipici,
dei lavoratori e delle lavoratrici, il punto di partenza per la costruzione di un'opposizione sociale nel Paese.