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CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 2,00
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento
postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004
n.46) art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/23/2013
ANNO XLV . N. 115 . GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015
OGGI CON LE MONDE DIPLOMATIQUE A EURO 3,50
MIGRANTI
WAR ACT
Tommaso Di Francesco
S
e non fosse tragica l’immagine che Renzi e Mister Pesc
Mogherini danno di sé sul
dramma dei migranti e sull’ ennesimo intervento militare in Libia,
diremmo che ricordano «Oltre il
giardino». La differenza è che nel
film il protagonista era simpatico,
per l’interpretazione di Peter Sellers e la trama di fraintendimenti
che fanno di uno sprovveduto un
profeta della finanza e un modello
di vita. Renzi e Mogherini sfiorano
invece il ridicolo, per un governo
italiano che si vende - per i sondaggi, le elezioni o un twitter? l’incredibile «non decisione»
dell’Ue di ripartire le quote dei migranti fra i 28 Paesi membri: in tutto 20 mila e già presenti nei campi, per un costo di 50milioni di euro. Sarebbe questa la svolta di una
Unione europea chiusa dentro la
fortezza del Pil più bello d’Occidente? Eppure il presidente Juncker aveva riconosciuto «l’errore di
cancellare l’operazione Mare Nostrum». Ma a guardar bene il
«grandioso» annuncio altro non è
che pura chiacchiera. Perché i 28
paesi dell’Ue nonostante la meschinità della proposta, sono divisi: mezza Europa con in testa la
Gran Bretagna dice no alle quote,
come tutti i paesi dell’Est.
Ma il piatto forte è che, a fronte
di questo vuoto dopo migliaia di
morti nel Mediterraneo, avanza la
proposta di una nuova guerra come soluzione definitiva. E grazie a
The Guardian che ha raccontato
le 19 pagine del piano «strategico»
presentato da Mogherini all’Onu,
ecco la conferma: l’obiettivo sono
gli «scafisti». Se milioni di esseri
umani fuggono dalle guerre e dalla miseria delle quali siamo partecipi interessati, il nodo di fondo
possono mai essere gli scafisti,
che certo gestendo un traffico malavitoso, purtroppo sono i soli a
corrispondere a questo disperato
bisogno di fuga?
Nero su bianco, sta scritto che
faremo la guerra con una «vasta
gamma di capacità aeree, marittime e terrestri» con «intelligence,
sorveglianza e ricognizione bombardamenti, squadre d’imbarco,
unità di pattuglia, forze speciali».
Previste anche «vittime innocenti». Una guerra da mare, cielo e terra con effetti collaterali. Che sarà
«da terra» Mogherini lo smentisce, ma pare confermato visto che
Cina e Russia agitano il veto in sede Onu sui raid aerei, mancando,
finora, l’accordo con il Paese interessato; stessa questione per l’intervento via mare che entrerà nelle acque territoriali libiche.
CONTINUA |PAGINA 2
L’Europa si divide sui profughi,
E la Libia avverte: pronti a reagire
L
a Commissione europea vuole imporre delle «quote» obbligatorie agli stati membri per
dividersi con maggiore solidarietà i rifugiati,
per far fronte alla situazione di emergenza nei paesi di «prima linea», in particolare in Italia: il sistema della relocation è proposto da Bruxelles
nell’Agenda europea sull’immigrazione, approvata ieri dal collegio dei commissari, con qualche anticipo rispetto al previsto, ma dalla proposta del
commissario Avramopoulos hanno già preso le distanze Inghilterra, Irlanda e Danimarca. Intanto il
governo di Tobruk avverte l’Europa: «Non tollereremo navi la cui presenza non è stata autorizzata».
ACCONCIA, LANIA, MERLO |PAGINA 2,3
www.ilmanifesto.info
BIANI
INTERVISTA
Carlotta Sami (Unhcr)
promuove le quote Ue:
«È cambio di marcia,
ma attenti ai ritardi»
LUCA FAZIO |PAGINA 2
Alla vigilia della discussione della riforma alla camera e con i sindacati sul piede di guerra, Matteo Renzi
sale in cattedra e spiega, in un video di 16 minuti, la sua «buona scuola» agli italiani. Un grande spot,
in stile berlusconiano, che rivela le difficoltà del premier-segretario a pochi giorni dalle regionali PAGINA 5
DAL VIDEO DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO
Il gran maestro
STORICO ACCORDO | PAGINA 7
PENSIONI | PAGINA 6
SALONE DEL LIBRO
Nello sciame
dell’homo digitalis
Il decreto non c’è
Proteste e ricorsi sì
Consulta inascoltata
DOTTI, MAZZEO, PIGLIARU, VECCHI l PAG. 10,11
NO ITALICUM | PAGINA 4
CANNES 68
Sinfonia giapponese
per Hirokazu Kore-Eda
CRISTINA PICCINO l PAG. 12
Concordato al via
tra la Palestina
e il Vaticano
In attesa dell’incontro tra papa Francesco e
abu Mazen, primo storico negoziato. Israele
reagisce duramente: «È stata una delusione»
Civati, due referendum
per provare a partire
BURUNDI | PAGINA 7
Dopo le proteste,
l’annuncio dei militari:
«È un colpo di Stato»
SPECIALE TV | ALL’INTERNO
Indietro tutta,
la vecchia frontiera
del governo tweet
Informazione, talk, fiction, ascolti, piattaforme.
Piccola mappa dell’alto e del basso dello schermo italiano tra generalista e pay.
pagina 2
il manifesto
GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015
QUANTI ANCORA
Bruxelles •
Presentata l’agenda Ue. I migranti verranno divisi per quote ripartite in
base alla popolazione, Pil e disoccupazione dei Paesi che li ospiteranno
Europa divisa sulle (poche)
Solo ventimila profughi verranno
divisi tra gli Stati membri. Ma non
tutti accettano: Inghilterra, Irlanda
e Danimarca si tirano fuori
Anna Maria Merlo
PARIGI
L
a Commissione europea vuole imporre delle «quote» obbligatorie
agli stati membri per dividersi
con maggiore solidarietà i rifugiati, per
far fronte alla situazione di emergenza
nei paesi di «prima linea», in particolare in Italia: il sistema della relocation è
proposto da Bruxelles nell’Agenda europea sull’immigrazione, approvata ieri
dal collegio dei commissari, con qualche anticipo rispetto al previsto.
La proposta, in applicazione dell’articolo 78 comma 3 del Trattato di Lisbona, riguarda solo 20mila persone in due
anni, mentre l’Onu aveva chiesto all’Europa di assicurare un’accoglienza di almeno 20mila l’anno, comunque una
sproporzione visto che gli arrivi in Europa sfiorano ormai i 200mila solo negli
ultimi mesi e sono stati 300mila nel
2014. Per salvarsi l’anima di fronte alla
vergogna dei morti nel Mediterraneo,
Bruxelles presenta un testo di «raccomandazione» agli stati membri, che dovrà però ancora passare il vaglio del voto del Consiglio (a maggioranza qualificata) ed essere discussa all’Europarlamento. Le reticenze sono forti. La Commissione ha già stabilito due tabelle,
una per la ripartizione delle relocation
(ricollocamenti) e una per quella del resettlement (reinsediamento), sempre su
base di quote per paese, questione di
più lungo periodo che verrà precisata
entro fine maggio. I criteri che guidano
la redistribuzione sono quattro: il pil
del paese (che pesa al 40% sulla decisione), la popolazione (40%), il tasso di disoccupazione (10%) e la presenza di richiedenti asilo già accolti si base volontaria (10%). Con questi criteri, la Germania dovrà accogliere il 18,4% dei rifugiati, la Francia il 14,1%, l’Italia l’11,8%, (e
in seguito il 9,9% per i reinsediamenti,
1989 persone), la Spagna il 9,1%, la Svezia il 2,9%. Questo sistema di «quote» è
DALLA PRIMA
Tommaso Di Francesco
Ora è risaputo che di «governi»
in Libia ce ne sono quattro: a
Tripoli degli islamisti, a Tobruk del generale filo-occidentale Haftar che farà «come con il cargo turco»,
a Bengasi è caos, a Derna c’è il Califfato, tutti legati ad aree petrolifere e a Paesi arabi contrapposti. Quale governo
si presterà all’intervento militare che
già definiscono «un’aggressione»? Già
prepariamo provvigioni - ieri a Roma i
rappresentanti di Banca libica e Fondo
d’investimenti libici hanno riottenuto i
fondi sovrani delle quote di Unicredit
già dello Stato guidato da Gheddafi.
Chi saranno i perdenti del nuovo
protagonismo bellico italiano? Soprattutto i profughi che già il governo di
Tripoli comincia ad arrestare a centinaia e per i quali si preparano nuovi campi di concentramento. Non è valso a
nulla dunque l’insegnamento della
guerra Nato del 2011: fuggirono tutti
gli immigrati che nel paese lavorava-
studiato per correggere la situazione attuale, dove, ha spiegato il vice-presidente della Commissione, Frans Timmermans, «il 72% dell’asilo è concesso da 5
paesi» (Germania, Gran Bretagna, Francia, Svezia e Italia). Per Timmermans, si
tratta di un sistema «oggettivo, equo,
trasparente, basato su dati comprensibili ad ogni cittadino».
Ma la Commissione ha fatto i conti
senza l’oste. Intanto, tre paesi possono
rifiutare di partecipare, la Gran Bretagna e l’Irlanda, che godono di un opt-in
(opzione di adesione all’iniziativa) e la
Danimarca (che ha un opt-out, un’opzione di ritiro preventivo). Ieri, Londra
ha detto tutto il male che pensa
dell’idea delle quote di Jean-Claude Juncker: la ministra degli Interni, Theresa
May, vuole piuttosto «un programma
attivo di ritorni» e prende le distanze da
Lady Pesc, Federica Mogherini, rifiutando l’idea che «non un singolo rifugiato
o migrante intercettato in mare sarà respinto contro la sua volontà».
L’Ungheria, la Slovacchia e la Repubblica Ceca hanno detto «no» alle quote
obbligatorie. Anche la Polonia è contraria all’obbligatorietà e propone «sforzi
in funzione dei mezzi», facendo valere
che Varsavia già accoglie molti ucraini.
Per la Polonia, che al massimo accetterebbe qualche rifugiato di religione cattolica, sono i paesi con un passato coloniale che devono farsi carico dei migranti. Timmermans ha comunque precisato che le «quote» riguarderanno sono «casi specifici» (come la Siria o l’Eritrea) e che «ogni stato potrà continuare
a determinare se accorda o meno l’asilo», anche nel caso di relocation d’emergenza. Siamo lontani dall’interpretazione di Mogherini, secondo la quale «finalmente» è arrivata «una risposta europea, una risposta globale, che coglie tutti gli aspetti del problema».
L’Agenda sull’immigrazione della
Commissione avrebbe l’ambizione di rifondare la politica migratoria della Ue.
Ma questo progetto di Juncker viene
contestato da molti stati, che non vogliono intrecci tra asilo e immigrazione
economica. La proposta di Bruxelles
contiene non solo un incitamento a definire una politica di asilo comune (resettlement) e l’ipotesi per il 2016 di una
revisione del regolamento di Dublino
(che obbliga il paese di arrivo ad esaminare la domanda d’asilo), ma si concen-
no, un milione e mezzo di persone,
più i migranti africani intrappolati nel
conflitto. Né crea problemi a Renzi e
Mogherini che il conflitto in Libia sia
stato uno smacco per Obama - con
l’uccisione l’11 settembre 2012 da parte degli jihadisti ex alleati Usa dell’ambasciatore Chris Stevens - che ora non
a caso li manda avanti da soli, fino a
concedere la guida militare della missione. Uno smacco per cui si dimisero
il segretario di Stato Hillary Clinton e il
capo della Cia David Petraeus.
In Italia male che vada, siccome
l’obiettivo è «distruggere i barconi», la
nuova guerra gliela voterà perfino Salvini che ha inventato il target. Ed è possibile che ricompatterà le anime del
Pd. In fondo non è stato D’Alema, con
la Nato nel 1999, a fare, con tanti effetti
collaterali sugli innocenti, la prima
guerra «umanitaria»? Definimmo quella scelta come «costituente»: bisognava dare prova internazionale che «la sinistra» al governo sapeva anche fare
una guerra. Stavolta s’aggiunge alle
tante nefandezze del governo Renzi solo come «war act».
tra anche sulla lotta all’immigrazione
clandestina, la guerra ai trafficanti e la
securizzazione delle frontiere esterne.
Nel 2013, secondo i dati Eurostat, su
425mila rifiuti del diritto di asilo, solo
167mila persone hanno lasciato il territorio europeo. Gli altri sono rimasti come clandestini. Prossimamente ci sarà
un vertice a Malta, con i paesi di origine
della migrazione e quelli di transito, per
affrontare le cause della decisione di
emigrare e la repressione dei traffici di
esseri umani. Sul tavolo c’è anche
un’«opzione navale», ha precisato Mogherini, che secondo il Guardian potrebbe anche passare per l’invio di forze di terra in Libia per distruggere i barconi. L’opzione sarà discussa al vertice
dei ministri degli esteri della Ue di lunedì 18 maggio.
Intervista /LA PORTAVOCE CARLOTTA SAMI: È UNA SVOLTA MA BISOGNA FARE SUBITO
L’Unhcr promuove l’agenda Ue:
«Impensabile qualche mese fa»
Luca Fazio
P
er Carlotta Sami, portavoce dell’Alto commissariato per i rifugiati
dell’Onu (Unhcr), l’agenda per l’immigrazione approvata dalla Commissione Ue è un buon testo: «Impensabile
qualche mese fa».
Federica Mogherini ha detto che si tratta di una giornata storica per l’Italia.
Anche lei la pensa così?
Si tratta di una svolta molto importante
nell’approccio, un cambio di marcia deciso: per la prima volta si prende atto che la
crisi epocale che investe il Mediterraneo
può essere affrontata solo se tutti i paesi
europei agiscono insieme. Il punto fondamentale è che questa nuova politica deve
essere messa in atto da subito, non si possono più avere esitazioni.
La Ue ha fissato la quota di rifugiati da
distribuire in Europa. Si parla di 20 mila
profughi che attualmente risiedono nei
campi (1 ogni 25 mila abitanti). Meno
di 2 mila saranno assegnati all’Italia
(9,94% del totale). Non sono numeri
drammaticamente sottostimati?
Non è così. Noi avevamo chiesto di allargare le quote fino a 20 mila persone, stiamo parlando di profughi che sono già nei
campi, come i siriani per esempio. Per
quelli che invece sono già in territorio europeo sono stati stabiliti nuovi criteri per
la ripartizione, ed è molto positivo che si
siano messi d’accordo su questo punto
controverso. L’Italia dovrebbe essere fuori da queste quote perché è già uno dei
paesi più esposti alle ondate migratorie.
Anche questo è un principio importante.
In più nel testo sono previste altre misure
positive, come l’ampliamento delle quote previste per l’immigrazione legale. Inoltre si fa riferimento a un maggiore sforzo
per il salvataggio delle persone che rischiano il naufragio, con l’aumento dei
fondi e l’ampliamento geografico del pattugliamento in mare.
Duemila persone sulle nostre coste arrivano in due giorni di sbarchi, e l’anno
scorso ne sono arrivate 200 mila. Che
ne sarà dei nuovi arrivi?
Dovrebbero rientrare in questo sistema,
quelli che richiedono asilo potranno restare in Europa, e per alcune nazionalità
sono previste procedure più veloci, per
esempio per i siriani.
In teoria quasi tutte le persone che
sbarcano fuggendo da guerre e povertà
possiedono i requisiti per presentare
domanda di asilo.
Non proprio, l’anno scorso su 200 mila
sono state circa il 50%.
Quindi per l’Unhcr la nuova agenda europea sull’immigrazione non presenta
alcuna criticità?
La nostra valutazione in questo momento è positiva, dico solo che qualche mese
fa un documento di questo tipo era del
tutto impensabile.
Secondo il Guardian, anche se Mogherini ha smentito, l’Europa avrebbe previsto un attacco di terra in Libia. In ogni
caso, le sembra sensata un’operazione
militare contro gli scafisti? Bombardar-
li con gli aerei o con le navi non rischia
di peggiorare le condizioni dei migranti
che sono trattenuti come prigionieri?
Non c’è un riferimento esplicito al bombardamento e in ogni caso qualunque
azione dell’Europa dovrà compiersi con
il riconoscimento del diritto internazionale. Resta il fatto che nelle acque internazionali ogni intervento sulle barche avrà
sempre lo scopo di salvare le persone.
Ma per distruggere le barche senza un
intervento di terra bisognerà pur bombardarle.
Su questa questione molto complessa i
contorni non sono ancora chiari. Tecnicamente non ho ancora capito come sarà
possibile intervenire per distruggere le
barche dei trafficanti. Il consiglio di sicurezza dell’Onu non si è ancora espresso,
lunedì prossimo i ministri degli esteri
dell’Europa devono decidere. Naturalmente, qualunque siano le decisioni prese, bisogna garantire la sicurezza dei migranti che sono già vittime.
Inghilterra, ma anche Repubblica Ceca
e Slovacchia, non accettano la politica
della distribuzione dei migranti in tutti i
paesi. Non rischia di fallire anche questa opzione che sembra essere la più
sensata?
No. Alcuni paesi possono anche rifiutarsi
di accogliere i profughi ma il documento
verrà comunque adottato.
GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015
il manifesto
QUANTI ANCORA
Tobruk •
Il governo avverte l’Europa: «Non tollereremo navi la cui presenza non è
stata autorizzata. In caso contrario pronti a bombardarle»
quote
TURCHIA, 7 MORTI DI IPOTERMIA Una tragedia
senza fine, e non nelle fosse del Mediterraneo, ma per la
disperazione di chi fugge via terra, come accadde 20
giorni fa in Macedonia per dieci migranti africani falciat
da un treno. È accaduto ieri al confine tra la Turchia e
l’Iran. E la morte è avvenuta per ipotermia, ed è toccato
a 6 bambini e ad una donna di nazionalità afghana.
Tentavano tutti di entrare clandestinamente in Turchia a
piedi nel percorso impervio che porta ad attraversare la
rischiosa frontiera iraniana. La tragica notizia è stata
riportata dall’agenzia turca ufficiale Anadolu. Altri 13
migranti dello stesso gruppo, in fuga dalla guerra e dalla
miseria afghana, sono stati ricoverati e cinque di loro
versano in gravi condizioni. Il gruppo di clandestini, 33 in
tutto, sono stati trovati dai militari turchi nei pressi della
cittadina di Caldiran, al confine con l'Iran. Anche
l’agenzia privata Dogan, ha voluto sottolineare che i
migranti sono tutti di nazionalità afghana.
BRUXELLES · Lunedì verrà presentato il piano per contrastare gli scafisti
«Previsti interventi a terra»
del Consiglio di sicurezza Onu, anche a
Cina, Russia e Stati uniti, Paesi dei quali
occorre il via libera se si vuole che dal
Palazzo di vetro esca una risoluzione
che dia una cornice di legalità internazionale a qualunque intervento si pensi
di fare in acque libiche. Non a caso proprio Mogherini nelle scorse settimane si
è recata a Pechino, Mosca e New York
per spiegare quanto accade ogni giorno
nel canale di Sicilia.
Il sospetto che la lotta contro gli scafisti si trasformi in un pericolosissimo pretesto per mettere «gli stivali sul terreno»
del caos libico, resta comunque sullo
sfondo e viene anzi alimentato dallo sco-
FEDERICA MOGHERINI FOTO LAPRESSE
ROMA
D
a Bruxelles Federica Mogherini
smentisce
categoricamente:
«Non stiamo programmando alcuna operazione di terra il Libia». Eppure le anticipazioni fatte ieri mattina dal
Guardian secondo le quali la missione
europea contro gli scafisti non escluderebbe la possibilità di un intervento sul
suolo libico, hanno fatto scalpore e creato un certo imbarazzo negli uffici
dell’Unione europea. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue ha aggiunto di aver già chiarito all’Onu che
quella che si sta mettendo a punto in
questi giorni è «un’operazione navale».
Escluso l’utilizzo di aerei quindi e, soprattutto, l’impiego di truppe a terra.
Per sapere chi ha ragione tra il quotidiano inglese - solitamente bene informato sulle vicende europee - e Lady
Pesc basterà aspettare cinque giorni. Salvo rinvii è infatti fissata per lunedì prossimo, 18 maggio, la data in cui proprio
la Mogherini presenterà al Consiglio degli Esteri dei 28 il piano messo a punto
contro le organizzazioni criminali che
gestiscono il traffico di uomini nel Mediterraneo. Piano limato al centimetro
per renderlo accettabile oltre che a Francia e Gran Bretagna, membri europei
Il documento
pubblicato dal
Guardian non esclude
«operazioni in Libia».
Mogherini smentisce
op del Guardian. Il giornale cita un documento di 19 pagine in cui vengono
riassunti i termini della missione senza
escludere un intervento a terra. «Una
presenza a terra può essere presa in considerazione se viene raggiunto un accordo con le autorità competenti», è scritto
nel documento in cui si spiega anche come la missione «dovrebbe richiedere
una vasta gamma di capacità aeree, marittime e terrestri. Queste potrebbero includere: intelligence, sorveglianza e ricognizione, squadre di imbarco, unità di
pattuglia (aeree e marittime), interventi
con forze speciali». Il tutto comprendendo anche «azioni lungo la costa, in por-
FOTO LAPRESSE
Libia/ LE SCELTE DELLA UE PREMIANO IL PARLAMENTO DI TRIPOLI, TOBRUK INSORGE
Haftar: «Bombarderemo
le navi non autorizzate»
Giuseppe Acconcia
I
l piano per gestire l’incremento del flusso di migranti che raggiungono le coste italiane e greche, varato ieri
dall’Unione europea, segna un punto a favore del parlamento di Tripoli. Prima di
tutto, allontana le possibilità di un attacco
contro la Libia che fino a qualche giorno fa
pareva imminente, come ha ieri confermato l’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini. E poi dà
credito al pur discutibile piano in cinque
punti, annunciato dal governo tripolino,
che tra le altre cose prevede l’arresto dei
migranti in territorio libico prima che tentino di imbarcarsi ma non parla della caccia
a fuorilegge, scafisti e contrabbandieri che
infestano le coste libiche.
Per questo le mire espansionistiche
dell’ex generale Khalifa Haftar sulla Tripolitania sembrano per il momento ridimensionate. Sono bastati così gli annunci di ieri per innalzare l’allerta lungo le coste della
Cirenaica. Se il piano Ue prevede anche la
possibilità di valicare le acque territoriali libiche per distruggere i barconi o fermare i
contrabbandieri, Haftar ha subito minacciato di bombardare le navi che si avvicineranno alla Libia. «Bombarderemo le navi
non autorizzate», si fa sapere dalla marina
dell’operazione Dignità (Karama) che ha
appoggiato il tentato golpe di Haftar. «Non
esiteranno a proteggere frontiere e acque
territoriali con tutta la forza di cui disponiamo», si legge in un comunicato diffuso ieri.
pagina 3
I militari pro-Haftar si sono già dati da fare bombardando il cargo turco Tuna lo
scorso lunedì. «Non ci hanno assolutamente avvertito. Quello che intendono per avvertimento è probabilmente il primo bombardamento» da terra, ha specificato Zafer
Kalayci, il secondo ufficiale del cargo. Kalayci, ferito nel corso dell’attacco, ha così
smentito gli avvertimenti annunciati da Tobruk prima che venisse
sferrato l’attacco.
I militari filo-Haftar avevano denunciato il presunto tentativo di rifornire i jihadisti asserragliati a Derna da parte del cargo turco. Eppure, secondo le ricostruzioni fornite
ieri da Ankara, il secondo bombardamento contro il cargo avrebbe
avuto luogo addirittura quando la
nave già aveva lasciato le acque territoriali libiche.
Haftar ha anche avvertito che qualora il
piano dell’Ue per i flussi migratori venisse
attuato accreditando le politiche della Tripolitania, da dove la maggioranza dei migranti parte, anche i jihadisti di Derna e Sirte arriverebbero sui barconi di migranti diretti in Europa. Queste dichiarazioni, ormai consuete, confermano soprattutto fino a che punto l’ex agente Cia, manovrato
dal Cairo, usi la questione del terrorismo
per portare avanti la sua strategia, nonostante una profonda debolezza dei militari
che lo appoggiano.
Proprio ieri la Corte penale internazionale ha annunciato di voler indagare sui presunti crimini commessi in Libia dallo Stato
islamico. I militanti dell’Isis hanno rivendicato numerosi attacchi di alto profilo in Libia, tra cui la decapitazione di 21 cristiani
egiziani nel mese di febbraio e di 28 copti
etiopi a marzo.
Ma Tobruk non ci sta a vedere la bilancia pendere in favore di Tripoli. E così le
minacce all’Italia si fanno sempre più suadenti. Il ministro dell’Informazione del governo di Tobruk, Omar al Gawari, ha puntato il dito contro il governo italiano per il
mancato sostegno al parlamento della Cirenaica, minacciando di aprire le porte
agli investimenti russi se la politica estera
italiana, a suo dire al momento accondiscendente verso Tripoli, non dovesse cam-
biare.
A dare respiro alle casse della Banca centrale libica che fin qui si è mantenuta neutrale nella distribuzione degli introiti dalla
vendita del petrolio, seppur a prezzi stracciati per la crisi che sconvolge il paese, sono arrivati però ieri gli annunci dei soci libici in Unicredit. I vertici di Unicredit, il presidente Giuseppe Vita e l’amministratore
delegato Federico Ghizzoni, hanno incontrato a Roma il presidente della Banca centrale libica, Saddek Omar El Kaber e il presidente della Lia (Libyan investment authority), Abdulrahman Benyezza auspicando
una rinnovata presenza del gruppo in Libia. La Lia ha legami stabili con il governo
di Tobruk.
to o in rada». Eventuali azioni a terra potrebbe servire per distruggere le navi dei
contrabbandieri e i depositi di carburante senza escludere, specifica il documento, la possibilità che si verifichino vittime innocenti: «L’abbordaggio delle navi
dei trafficanti in presenza di migranti sarebbe scritto nel documento secondo
il Guardian - presenta un alto rischio di
effetti collaterali, inclusa la perdita di vite».
Quello che accadrà nelle prossime settimane dipende in gran parte dalle decisioni che verranno prese nei prossimi
giorni dall’Onu. Sempre per lunedì prossimo, infatti, è attesa la risoluzione del
Consiglio di sicurezza e dai suoi contenuti si capiranno i margini di azione della missione europea e come si pensa di
distruggere i barconi degli scafisti, particolare ancora poco chiaro. Nel frattempo i segnali che arrivano dalla Libia non
sono incoraggianti, con il governo di Tobruk che mette le mani avanti e avverte
l’Europa «a non toccare la sovranità delo Stato», avvertendo «tutte le imbarcazioni a non entrare nelle acque territoriali libiche se non dopo u coordinamento con gli organi competenti» Altrimenti, è la minaccia, il governo provvisorio
«reagirà con bombardamenti come
quelli contro il cargo turco». c.l.
LE REAZIONI
Per Renzi e M5s
«passi in avanti»
critico Salvini
A. Po.
M
atteo Renzi ieri ha affidato l’analisi politica
a un tweet: «Giornata
di passi in avanti su flessibilità,
immigrazione Ue, crescita economica. C’è ancora molto da
fare, ma non si molla». La distribuzione dei migranti proposta
da Bruxelles piace al premier.
Matteo Salvini non si è fatto
contagiare dall’entusiasmo e
ha replicato: «Accordo europeo sull’immigrazione? Per dirla con Fantozzi, una ’cagata
pazzesca’. Da domani altri
sbarchi, altri clandestini da
mantenere in albergo. Grazie
Renzi, Alfano e Mogherini.
Non ritengo che i finanziamenti ricevuti dall’Italia dal fondo
Frontex negli anni passati possano rappresentare una sorta
di do ut des rispetto all’accoglienza sfrenata alla quale stiamo assistendo» insiste Salvini.
Finale profetico: «Il ministro libico Omar al Gawari ha dichiarato che nelle prossime settimane arriveranno in Italia terroristi dell’Isis a bordo dei barconi dei migranti. Renzi e Alfano, pericolosi incapaci, fermate gli sbarchi subito se non volete essere corresponsabili e
complici di eventuali attentati
in Italia».
Per il ministro Alfano invece
è «un segnale di solidarietà concreta nei confronti dell’Italia».
All’insegna del ’meglio tardi
che mai’ il commento del sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini: «L’Europa ha capito che
l’emergenza umanitaria in atto
è una questione europea. È vergognoso che questo accada dopo 23mila morti. Credo che
Junker debba ottenere molto
di più dagli stati». Nicolini indica alcuni nodi aperti: «Attivare
forme sicure e legali d’ingresso
dei profughi, oltre che un dovere morale, è anche l’unico modo serio per contrastare la tratta di esseri umani. Le quote di
resettlement sono invece una
risibile risposta all’emergenza
umanitaria in atto. 20 mila profughi all’anno da distribuire in
Europa sono persino meno dei
23 mila morti sepolti dal mare.
Di fronte ai 170 mila arrivati
nel 2014, sono un affronto per
l’Italia».
Segnali di apertura dai parlamentari pentastellati: «L’inserimento delle quote è una proposta del M5s contenuta in una
mozione che il 18 dicembre
scorso ha ottenuto l’approvazione nel parlamento italiano.
Quello dell’Europa è solo un
primo passo, per quanto importante, che non può prescindere dal superamento del Trattato Dublino III e il principio di
chi primo accoglie poi gestisce. Le nostre proposte in tema di immigrazione prevedono anche di istituire un testo
unico europeo in materia di
asilo, concordare con i paesi di
provenienza e transito un piano comune di gestione dei flussi, istituire il mutuo riconoscimento: ovvero chi gestisce l’immigrato e lo regolarizza lo fa a
nome di tutti i paesi europei
che si impegnano quindi a riconoscerlo».
Per Save the children si tratterebbe di un primo passo: «Attendiamo di verificare la volontà di ogni stato membro di farsi carico della protezione e del
supporto dei migranti più vulnerabili. La responsabilità degli stati Ue inizia ancora prima
che i migranti raggiungano le
nostre frontiere».
pagina 4
il manifesto
GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015
POLITICA
In molti studiano il
modo di portare la
nuova legge davanti
agli elettori, l’ex
deputato del Pd fa
il primo passo. Ma
il M5S si sfila subito
DEMOCRACK
Domenico Cirillo
ROMA
Minoranza sempre
più divisa verso
la resa dei conti
C
ivati fa il primo passo, sicuro
che anche chi oggi si mostra
prudente seguirà. Il deputato
da poco uscito dal Pd ha annunciato
ieri due quesiti referendari per abrogare due tra gli aspetti peggiori della
nuova legge elettorale, in Gazzetta ufficiale da nemmeno una settimana.
Il primo referendum punta a eliminare i capilista bloccati e pluri-candidabili in dieci collegi. Il secondo vuole
far sparire il turno di ballottaggio: se
una lista riesce a conquistare il 40%
al primo turno avrà il premio «di
maggioranza» (15% di seggi in più).
Altrimenti l’Italicum funzionerà come una legge elettorale proporzionale con sbarramento al 3%, molto simile al Consultellum lasciato in piedi dalla sentenza con cui la Corte costituzionale ha abbattuto il Porcelluma (ma lì c’erano sbarramenti più alti e una sola preferenza invece di
due). «Arrivare con il referendum a
un sistema uninominale partendo
dall’Italicum non è possibile, dobbiamo fare i conti con la brutta legge
che ci ha dato il parlamento», ha spiegato intervenendo a un seminario organizzato dall’associazione civatiana
«è possibile» il costituzionalista Andrea Pertici, che ha lavorato sui quesiti.
Il passaggio dei referendum alla
Corte costituzionale - previsto solo
dopo che saranno state raccolte le
500mila firme necessarie - si presenta stretto. La giurisprudenza della
Consulta in materia è molto rigorosa, i quesiti che puntano ad abrogare
delle specifiche disposizioni devono
contemporaneamente essere «omogenei» e «unitari», il che è assai complicato essendo necessario tagliare
via dalla legge tutte le disposizioni
collegate - in questo caso - ai capilista e al ballottaggio. In più la normativa di risulta deve essere «coerente e
immediatamente applicabile», ed è
questa la ragione per la quale non è
percorribile la strada di un referendum di totale abrogazione. Anche se
l’Italicum è una legge elettorale assai
particolare visto che resta «sospesa»
fino al 1° luglio del 2016, dunque in
teoria non ci sarebbe alcun danno a
farla cadere completamente entro
quella data - resterebbe in piedi il
Consultellum che la stessa Corte ha
battezzato. Purtroppo è molto difficile. Per riuscirci l’ufficio centrale per il
Maria Teresa Accardo
ROMA
S
ITALICUM · Civati presenta i quesiti contro i capilista e il ballottaggio: vediamo chi ci sta
Due referendum, per partire
referendum dovrebbe ricevere la richiesta entro settembre di quest’anno: anche nel caso fosse possibile
partire subito - e non è ancora questa la situazione - le firme andrebbero raccolto durante l’estate. Arduo.
Oltre a Civati, ha annunciato di volersi muovere - con qualche cautela
in più - anche il Coordinamento per
la democrazia costituzionale costituito da associazioni, sindacati, parlamentari e costituzionalisti. Mentre
l’avvocato Felice Besostri che con
l’avvocato Aldo Bozzi è riuscito a portare il Porcellum davanti ai giudici
costituzionali e a farlo bocciare, sta
studiando analoghi ricorsi per sottoporre anche l’Italicum al giudizio di
legittimità. Contro l’Italicum, dopo
Prodi, ieri si è pronunciato anche il
politologo Giovanni Sartori: «È uno
schifo costruito da persone che non
sanno nulla di leggi elettorali, hanno
costruito le soglie di maggioranza sulle prospettive di voto del Pd».
Ma quale potrebbe essere il fronte
del Sì a uno o più referendum abrogativi dell’Italicum? Ieri nel corso del
seminario romano si è sostanzialmente sfilato il Movimento 5 Stelle.
Il deputato Danilo Toninelli ha detto
che non essendo possibile un referendum totalmente abrogativo e meglio lasciar perdere, perché l’Italicum resterebbe comunque una pessima legge. ««Meglio concentrarsi
REGIONALI · Gli uomini di Scajola oggi con Paita
Pastorino: «Invotabili Pd
ci sono anche in Liguria»
GENOVA
A
nche in Liguria il Pd ha infarcito le liste di invotabili. Lo
dice Luca Pastorino, candidato presidente della Rete a sinistra, in questi giorni bersaglio privilegiato, si fa per dire, degli attacchi
di Matteo Renzi che lo ha definito
«la sinistra masochista», quella
«che vuole sempre perdere». Pastorino è un deputato civatiano che
ha lasciato il Pd prima di Civati ed
ora corre contro il suo ex partito rischiando di portarsi via con sé consensi preziosi per la burlandiana
Paita, in cima ai sondaggi ma di misura. E la preoccupazione di Renzi
si capisce, spiega Pastorino: anche
in Liguria le liste del Pd hanno nomi inguardabili, proprio come in
Campania e nella Puglia. «Nel Ponente ligure assistiamo alla trasformazione dello scajolismo in paitanesimo, lo hanno notato tutti. Nelle liste di Imperia e Savona, Imperia in particolare, ci sono nomi che
sono espressione del mondo scajoliano che si sono rinnovate nelle liste a sostegno di Raffaella Paita. Se
a questo si aggiunge tutto quello
che era a contorno dell’alleanza,
poi interrotta, con Area Popolare, è
chiaro che al Pd ligure sta succedendo qualcosa, esattamente come a quello campano e quello pugliese. Quei nomi in lista sono frutto di una scelta politica». Altro che
rottamazione, prosegue il candidato presidente: «Renzi ama rottamare? E allora perché ha rifatto la carrozzeria di Burlando (il presidente
uscente, ndr) proponendo la Paita? Perché ha consentito che le primarie diventassero un pericoloso
sberleffo delle regole? Perché ha
umiliato Sergio Cofferati e il sindacato? Perché non è stato chiaro
con le alleanze al centro e a destra?
Non sono domande e basta, sono
accuse precise perché noi non abbiamo paura di guardare in faccia
la realtà».
CORTE COSTITUZIONALE
Che fine ha fatto il ricorso
sulle legge per le europee?
Che gli attacchi ripetuti del presidente del
Consiglio ai giudici della Corte Costituzionale
dopo la sentenza sulle pensioni abbiano cominciato a fare effetto? Se lo chiedono in
molti, visto che si fa attendere la decisione
della Consulta sulla legge elettorale per le
europee. La causa è stata discussa in udienza pubblica un mese fa, il 14 aprile. La questione di non manifesta incostituzionalità
riguarda lo sbarramento al 4% che non sembrerebbe trovare alcuna spiegazione logica visto che nella scelta degli europarlamentari non si presentato esigenze di «governabilità». L’avvocato dello
stato ha difeso, per conto del governo, la legittimità della legge italiana (in
Germania la soglia di sbarramento, più bassa, è invece caduta da oltre un
anno proprio davanti ai giudici costituzionali). Ma ha anche chiesto in subordine che i giudici salvino almeno i risultati delle europee dell’anno scorso. È
sembrato un modo di prepararsi al peggio, praticabile fino a un certo punto
dal momento che un paio di liste - Fratelli d’Italia e Verdi - hanno impugnato i risultati. Cinque eurodeputati tra Pd, Pdl e M5S possono rischiare. Ma
la Corte, ancora a ranghi ridotti (mancano due giudici da eleggere in parlamento), può andare incontro alla situazione di parità che si sarebbe già verificata nel caso delle pensioni. E non ha ancora deciso. a. fab.
sul referendum confermativo della riforma costituzionale, lì non c’è quorum e in un solo colpo potremmo abbattere sia la riforma che l’Italicum»,
ha detto. Contraria al referendum anche la senatrice di Forza Italia Anna
Maria Bernini, che pure ha garantito
che il suo partito voterà contro la riforma al senato, ma nei giorni scorsi
altri esponenti del terremotato partito berlusconiano si erano detti favorevoli. Mentre la deputata di Sel Celeste Costantino ha detto che bisognerà studiare con grande attenzione i
quesiti. «È chiaro che da solo non faccio un referendum - ha detto Civati ma se c’è un riscontro politico e i partiti lo sostengono, se lo sostengono
quelli del Pd che hanno detto di essere contro l’Italicum, allora non ci sono problemi né organizzativi né di
numeri». E poi rivolto ai 5 Stelle ha
aggiunto: «È sbagliato mettere da
parte questo referendum adesso possibile, per parlare già di quello sulle
riforma costituzionale che non è ancora stata approvata. Evitiamo di aiutare Renzi, la legge costituzionale deve ancora portarla a casa».
Campania/ LO SCRITTORE AVEVA ATTACCATO LE LISTE PD
Impresentabili, De Luca tira dritto:
su di me Saviano dice sciocchezze
Adriana Pollice
NAPOLI
«N
el Pd e nelle liste c’è tutto il sistema di
Gomorra, indipendentemente se ci
sono o meno le volontà dei boss. Il
Pd nel Sud Italia non ha avuto alcuna intenzione di interrompere una tradizione consolidata.
E cioè alla politica ci si rivolge per ottenere diritti: il lavoro, un posto in ospedale... Il diritto non
esiste». Roberto Saviano la scorsa settimana è
intervenuto a testa bassa nella campagna elettorale per le regionali del sindaco decaduto di Salerno, la polemica prosegue da allora. «Le liste
di De Luca non sono affatto liste con nomi nuovi e in nessun caso trasformano il modo di fare
politica in Campania. Direi che ricalcano le solite vecchie logiche di clientele», la conclusione
dello scrittore.
Tirato in ballo, l’aspirante governatore ha replicato, in un crescendo: quello che succede nelle altre liste non è mia responsabilità, con me
persone per bene, sono io l'anticamorra.
Non è servito a voltare pagina così ieri Vincenzo De Luca ha replicato a muso duro: «Saviano?
Sulle liste ha detto un’altra enorme sciocchezza. Ha già fatto un errore enorme quando ha
fatto appello al popolo campano per non andare a votare alle primarie e il popolo campano se
ne è infischiato andando a votare in massa. Ho
la sensazione che si stia avvitando nella sua immagine, perché quando comincia a dire che
Raffaele Cantone è un’operazione di immagine, che Franco Roberti non serve a niente, siamo al paradosso».
Stoccata finale: «Vorrei chiedere con molto
garbo a Saviano di non confondere la battaglia
contro la camorra con l’offesa alla dignità di altre persone che la pensano diversamente da lui
e che non sono disponibili, per la vita che hanno
alle spalle, ad accettare nessuna lezione sul versante della lotta alla camorra. Io qualche lezione
potrei darla, non accettarla, anche a Saviano».
Naturalmente ce n’è anche per il governatore uscente e suo competitor, Stefano Caldoro,
definito «l’unico impresentabile in Campania,
eletto dal sistema di potere di Nicola Cosentino e che oggi sta facendo campagna elettorale
appoggiandosi sul sistema di potere di Luigi
Cesaro».
Tuttavia una piccola autocritica sui nomi al
centro del ciclone Vincenzo De Luca pure l’ha
fatta, a mezza bocca, durante il suo tour elettorale: «Arrabbiato? No, sono proprio incazzato.
Che devo dire che è colpa di Nello Mastursi e
di chi lavorava alle liste? Io sono un uomo, oltre ad essere il candidato, quindi sono io che
mi prendo la responsabilità».
Persino l’ex sindaco di Napoli, Rosa Russo
Iervolino, affonda il colpo: «Non ci si collega
con gli impresentabili, è l’abc dell’etica della
politica». Alessandra Mussolini, capolista in regione per Forza Italia, ci va proprio a nozze:
«Nel centrosinistra non hanno capito perché
Saviano ha sparato a zero contro le liste del
Pd, non capiscono perché Cantone, messo da
Renzi sulla legalità, spara a zero contro le liste
di De Luca e non si capisce perché Guerini, da
braccio destro di Renzi, dica che non si può fare campagna elettorale con gli impresentabili.
Ma il primo degli impresentabili è Vincenzino.
L’avessimo fatto noi sarebbe sceso Mattarella
a Napoli per dirci che non lo potevamo fare,
non li potevamo candidare».
e Matteo Renzi mena come un
fabbro contro la sua minoranza
interna, «la sinistra masochista
che vuole sempre perderee», nella minoranza interna del Pd sta per arrivare al redde rationem. E cioè il tempo
del chiarimento finale fra i «responsabili», ovvero quelli che fanno la stampella sinistra del governo, e il gruppo
dei dissenzienti che sulla scuola si
stanno già orientando a votare contro
il testo del governo.
Succederà dopo le regionali, quando con ogni probabilità ci saranno
nuovi addii al Pd. Fra i dem per l’area
critica tira un’ariacci. Ma è durissimo
anche il mestiere dei responsabili, il
gruppo di ex bersianiani che, per fare
un esempio, alla camera ha accettato
di votare il jobs act giurando, come
aveva fatto l’ex Fiom Cesare Damiano, di essere «soddisfatto per la nuova formulazione dell’art.18» dello statuto dei lavoratori, salvo poi essere
smentito dallo stesso Renzi che martedì ha rivendicato di aver «abolito
l’art.18» come «hanno fatto Schroeder e Blair».
Ieri mattina il gruppo dei «responsabili», che sarebbero una quarantina, si è riunito alla camera per ribadire la collocazione «non renziana» ma
la disponibilità a non far mancare i voti al governo. Assente il ministro
dell’agricoltura Maurizio Martina, impegnatissimo sul fronte Expo ma anche determinato a buttarsi alle spalle
l’ex padre politico Pier Luigi Bersani
perché «la sfida di Renzi è la nostra sfida». Presenti invece Cesare Damiano,
Matteo Mauri, Enzo Amendola, Micaela Campana, Dario Ginefra e i sottosegretari Teresa Bellanova e Umberto
Del Basso De Caro. All’uscita alle
agenzie hanno spiegato che rivendicano «di agire in continuità con i due
principi ispiratori di Area riformista:
responsabilità e autonomia. C’è uno
spazio nel Pd per chi non è renziano
acritico o antirenziano cronico, è uno
spazio di politica e buonsenso che si
può esercitare sui diversi provvedimenti del governo». Sulla ddl scuola
«lavoriamo perché sia migliorata il
più possibile», ma sia chiaro da subito che «quel lavoro in parte è stato già
fatto in commissione e che la riforma
della scuola non deve diventare l’oggetto di una discussione strumentale
alle dinamiche interne al Pd». La precisazione è cruciale perché nell’area
dei dissenzienti c’è invece chi ha fissato nel disegno di legge la propria linea
del Piave. È il caso di Stefano Fassina,
che ormai tutti danno in uscita dal Pd
proprio sull’onda delle contestazioni
degli insegnanti e degli studenti.
A parole i responsabili dicono che
cercheranno di ricomporre la frattura
con i quasi quaranta deputati che
non hanno votato l’Italicumo. «Ferma restando», spiega un deputato, «la
linea di responsabilità che ci porta a
dire no allo scontro frontale e sì al dialogo costruttivo». Altra partita però, a
Montecitorio, è quella dell’elezione
del nuovo capogruppo, dopo le dimissioni di Roberto Speranza. Il candidato ’naturale’ è Ettore Rosato, da sempre riferimento dell’ala renziana. Ma
il voto è segreto, e ora che le minoranze hanno perso la presidenza, il loro
sì sarà «responsabile» ma non gratis.
Più complicato il puzzle dem di Palazzo Madama. Dopo le regionali si
riaprirà la partita delle riforme costituzionali sulle quali Renzi dice di voler
trattare. Lì la minoranza è formata da
un nucleo di 24 senatori che, almeno
al momento, sono fermamente decisi
a cambiare il nuovo senato e ne propongono l’eleggibilità. Se Renzi volesse assicurare comunque la maggioranza alle riforme, dovrebbe rimpiazzarli con un nuovo gruppo di «responsabili» ex Fi. Che però dovrebbe avere
quegli stessi numeri.
GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015
il manifesto
IL GRAN MAESTRO
pagina 5
RIFORMA· Un video e una lettera per spiegare i contenuti del ddl scuola e risollevare i consensi prima delle regionali
Lo spot del preside del consiglio
ccendi il video, c’è Matteo
Renzi che risponde sulla riforma della scuola. Con gessetti colorati e lavagna ieri il presidente del consiglio Renzi ha esposto in un video di 18 minuti caricato sul sito di palazzo Chigi uno dei
principi-cardine della riforma sulla quale il suo governo si sta giocando la faccia alle elezioni di fine
mese: «Il principio di fondo è dare
più soldi a chi li merita». Si parla
dei 500 euro annui a testa per i
«consumi culturali» dei docenti e
dei 200 milioni di euro assegnati
solo al 5% dei docenti direttamente dai «presidi-manager», la nuova
figura dell’azienda-scuola istituita
dal Ddl oggi in aula alla Camera. Il
voto finale è slittato a mercoledì
20 maggio.
confacenti alla sua idea triennale
di scuola. «Contro il Ddl useremo
ogni mezzo, il Ddl va ritirato» assicura Sel. Battaglieroil Movimento
5 Stelle che con un video di Di Battista ieri ha risposto a Renzi invitando a partecipare al sit-in di protesta dei sindacati e degli studenti
il 18 e19 maggio a Montecitorio.
Sel, M5S e Lega presenteranno
una relazione di minoranza alla
Camera.
Nel video e nella lettera il «preside del Consiglio» Renzi ha rivendicato l’assunzione dei 100 mila precari (un terzo di quelli esistenti) e
ha stigmatizzato la protesta contro i quiz Invalsi e la paventata
astensione dagli scrutini dei sindacati: «Così non si fa un servizio alla
scuola o ai ragazzi» ha detto. Una
reazione che prova quanto il governo sia stato colpito dal succes-
«Per gli insegnanti
non vale più
il principio
per cui nessuno
mi può giudicare»
Il testo oggi alla
Camera. Continua
la mobilitazione:
il 18 e 19 sit-in
a Montecitorio
Roberto Ciccarelli
A
Con il consenso in ribasso tra la
sua base elettorale (gli insegnanti)
il capo del governo rilancia la vecchia ricetta ispirata dai cantori della «meritocrazia»: chi si oppone alla sua riforma non vuole essere
«valutato»: «In questo momento ha detto Renzi - non può valere il
principio nessuno mi può giudicare».Nessun dubbio sul fatto che
sia proprio il modello di valutazione scelto dall’esecutivo ad essere
aspramente criticato, insieme al sistema decisionale spiccatamente
autoritario che esso comporta.
Renzi sembra avere dimenticato che una parte determinante della sua riforma della scuola, gli
«scatti di merito» e la cancellazione del contratto nazionale degli insegnanti, è stata bocciato dal 60%
dei partecipanti alla consultazione online sulla «Buona Scuola». La
versione della riforma giunta ormai allo stadio finale è il risultato
di un compromesso che ha affidato il riconoscimento del «merito»
all’arbitrio di una sola persona: il
preside. Su questo punto, le modifiche al Ddl sono state minime, diversamente da quanto il presidente del Consiglio ha detto. Sentito il
parere di una commissione eletta
dal collegio docenti, il dirigente
scolastico deciderà da solo il docente «meritevole» a cui riconoscere un aumento.
I problemi di questo nuovo assetto della scuola italiana non sono stati minimamente affrontati
dallo spot pomeridiano diffuso da
palazzo Chigi. Renzi, invece, ha
evocato una presunta maggioranza dei docenti che si lamentano
dei colleghi scansafatiche. Premiarne il «merito» significa per lui
restituire il «prestigio sociale» venuto meno anche a causa della
«nuova generazione dei genitori».
Considerata l’esiguità delle risorse
stanziate, e l’arbitrarietà del sistema proposto, queste velleità sembrano invece l’antefatto ideale per
moltiplicare la competizione tra i
docenti e i torti reciproci.
Un proposito ribadito in una lettera ai docenti di 120 righe diffusa
nel tardo pomeriggio di ieri: «La
nostra proposta non è »prendere
o lasciare» - ha scritto Renzi- Siamo pronti a confrontarci. La Buona Scuola non la inventa il Governo: la buona scuola c'è già. Siete
voi. O meglio: siete molti tra voi,
non tutti voi». Parole che confermano la volontà di superare il sistema della contrattazione e una
residuale idea di collegialità nella
scuola. Gli attacchi feroci ai sindacati rivolti dai suoi fedelissimi rientrano in una strategia che vuole re-
UN FOTOGRAMMA DEL VIDEO DI MATTEO RENZI. A DESTRA, LA MINISTRA DELL’ISTRUZIONE GIANNINI
alizzare a tutti i costi una macchina educativa neoliberista. L’aria è
quella di uno scontro finale.
In questo modo il governo intende dare continuità alla riforma di
centro-sinistra Berlinguer-Zecchino sull’«autonomia». Su questo andrà alla guerra contro tutti. Il video di Renzi è chiarissimo su questo punto. C’è tuttavia un problema: nella sua riforma l’«autonomia» è di uno solo: il preside. Tutti
gli altri dovranno eseguire i suoi ordini. Per Renzi è fondamentale far
passare questo principio politico.
Il preside selezionerà i docenti dagli «albi» e stabilirà gli aumenti di
stipendio come un capo azienda
(o di governo). È l’elemento rende
EMPOLI
Scuola in fiamme,
180 studenti evacuati
Un incendio provocato da un corto-circuito ha fatto evacuare ieri
l'Istituto professionale Ferraris-Brunelleschi di Empoli (Firenze). Dentro c'erano 180 studenti. Nessuno
è rimasto intossicato o ferito. I vigili del fuoco hanno evacuato l’intera
scuola. Il prefabbricato è stato costruito nel settembre 2008 e fa parte di un più grande plesso scolastico, che risale ai primi anni Settanta. La parte colpita dall'incendio «è
un edificio dotato delle necessarie
certificazioni». La vicenda ha suscitato apprensione fra studenti e genitori e ha sollevato le polemiche
dei sindacati. «Mentre il Governo
annuncia a parole stanziamenti per
risanare le scuole italiane - ha commentato l'associazione di consumatori Codacons - nei fatti la questione della sicurezza degli istituti rimane una emergenza». Per l’Unione
degli Studenti era «evitabile. Sappiamo che gli studenti hanno denunciato le condizioni indegne in
cui erano costretti a fare lezione
ma le loro denunce sono rimaste
inascoltate. Il Governo utilizza strumentalmente la tematica dell'edilizia scolastica per elaborare le ennesime promesse che non si traducono in interventi concreti». tavolo
tecnico che si è riunito in municipio a Empoli ha trovato una soluzione temporanea. La situazione è seguita da Laura Galimberti - coordinatrice della Struttura di Missione
per l'edilizia scolastica di Palazzo
Chigi.
la riforma indigeribile e Renzi ne è
consapevole. Questa è la critica di
fondo rivolta dal mondo della
scuola, e non solo dai sindacati, a
una riforma che accentra il potere
decisionale in una figura ricavata
su quella del premier («il preside
del Consiglio» ha titolato tempo fa
Il Manifesto).
«Abbiamo ampiamente dimostrato che i 500 euro per la formazione e i 200 milioni per il merito
sarebbero stati meglio impiegati
per un contratto nazionale che da
7 anni i docenti attendono - ha risposto a caldo Rino Di meglio della Gilda - Renzi è in difficoltà, non
parla della chiamata diretta dei docenti da parte dei presidi». Tra le
proteste dei renziani, ieri Vendola
(Sel) ha ricordato che tale figura rischia di generare clientele, nepotismi e raccomandazioni quando
dovrà «selezionare» mediante «auto-candidatura» uno dei 100.701
precari assunti a settembre più
so delle proteste e sottovaluta la libera volontà degli studenti, e dei
docenti ad opporsi al suo progetto. Questo, in fondo, è il motore
dell’opposizione a Renzi in questo
momento. «Il governo ci vuole
strumentalizzare» ha detto Danilo
Lampis (Uds) al termine di un incontro a Palazzo Chigi con il governo e altre rappresentanze studentesche. La mobilitazione continua
«insieme a insegnanti e genitori,
compreso il blocco degli scrutini».
Intervista IL SEGRETARIO CISL SCUOLA FRANCESCO SCRIMA
«L’unità sindacale non cederà.
Blocco degli scrutini extrema ratio»
A
lcuni la considerano la vera strategia di Renzi:
assunzioni. Ma la vostra confederazione ieri parlatrattare con il sindacato per rompere il fronte
va invece di un piano pluriennale, non di decreto.
finora unitario. E l’anello debole della catena
Il decreto lo vogliamo tutti. Così come tutti pensiaè da tutti considerata la Cisl. L’unica confederazione
mo che il decreto non risolva il problema del precache non ha scioperato contro il Jobs act, quella che
riato. E quindi tutti chiediamo un piano pluriennale
storicamente ritiene qualsiasi tavolo come lo strudi assunzioni. Mi spiego meglio: dati i tempi brevi
mento per arrivare ad un accordo, ad un comproper la discussione della riforma abbiamo chiesto un
messo. Le parole di apertura al dialogo di Annamaprovvedimento di urgenza per assicurare le 100mila
ria Furlan all’uscita dall’incontro di palazzo Chigi soassunzioni per l’inizio del prossimo anno scolastico.
no suonate come un campanello d’allarme per gli alMa il solo decreto non basta. Dobbiamo dare rispotri sindacati. Ma da via Po confermano che la deciste agli abilitati, agli Ata e ai supplenti che dopo la
sione su come muoversi ora e su possibili nuove prosentenza della Corte europea hanno diritto all’asteste «spetta alla categoria».
sunzione. E lo si può fare in due-tre anni.
Francesco Scrima, segretario della Cisl Scuola da
Lo sforzo di equilibrismo però andrà misurato con
10 anni. Il fronte unitario dei sindacati della scuole risposte del governo. Quali punti dovranno essela terrà o siete pronti a romre soddisfatti per accettare
pere appena Renzi farà qualuna mediazione e ritirate le
che piccola concessione?
proteste?
Secondo me non c’è il rischio
I punti prioritari delle nostre ridella tenuta. Perché a palazzo
chieste di modifica sono tre:
Chigi noi sindacati della scuoprecariato, super poteri dei
la ci siamo presentati con una
presidi e contratto. Sul precapiattaforma comune che noi
riato ho già detto. Sui poteri
abbiamo esplicitato assieme
dei presidi siamo contrari al
a tutti gli altri.
fatto che possano decidere
Però Annamaria Furlan non
chi assumere, con gli assurdi
vuol sentir parlare di blocco
albi territoriali, e chi premiadegli scrutini. Dice che colre. In più la modifica fatta dalpirebbero solo famiglie e rala commissione è folle: per togazzi.
gliere potere a loro si è deciso
Il blocco degli scrutini è una
che la valutazione degli inseextrema ratio. Capisco voi
la fanno anche studenLa categoria minimizza le gnanti
giornalisti che cercate il titolo
ti e genitori. Infine c’è il tema
ma concentrare tutto su quedel contratto bloccato da sette
differenze con la Furlan
sta forma di protesta è sbagliaanni e del fatto che solo la con«Chiediamo tre modifiche, trattazione può trattare del sato. Questa non è la prima vertenza che faccio unitariamenlario accessorio e dei premi.
se non ci ascoltano
te. E le posso dire che un conSta dicendo che se non vercontinueremo la protesta»
to sono le dichiarazioni che alranno accettati tutti e tre le
cuni sindacalisti fanno fuori
proteste andranno avanti?
da palazzo Chigi e un conto sono quello che dicono
Sto dicendo che se i risultati ottenuti non saranno
dentro.
considerati soddisfacenti tutti assieme e unitariaÈ un’accusa grave.
mente decideremo cosa fare.
Non mi permetto di giudicare il comportamento deQuindi non esclude il blocco degli scrutini e un
gli altri sindacati. Dico semplicemente che noi della
nuovo sciopero?
Cisl, che siamo un sindacato contrattualista, diciaRipeto: il blocco degli scrutini è l’extrema ratio. Non
mo sempre le stesse cose sia al governo che ai giorgridiamo al tuono prima di vedere il lampo. La renalisti. Inoltre mi lasci dire una cosa: la sinistra è
sponsabilità ora è nelle mani del governo che deve
sempre stata contraria al blocco degli scrutini, era
modificare ampiamente la riforma. E per ora non lo
una cosa da sindacati autonomi o corporativi.
ha certamente fatto in modo soddisfacente. Siamo
Il blocco degli scrutini e un nuovo sciopero è stato
in attesa di una convocazione per discutere con il
annunciato in caso di mancato accoglimento delministro Giannini. Vedremo come andrà e poi decila vostra piattaforma. E quindi sul merito dei proderemo il da farsi. Senza anticipare le reazioni. Perblemi. A partire dalla richiesta di un decreto sulle
ché diversamente è inutile sedersi al tavolo.
VALUTAZIONE
La legittima
protesta contro
i quiz Invalsi
Anna Angelucci
«I
naccettabile», ha commentato irritata la Ministra linguista Stefania Giannini.
«Indecente» ha twittato il sottosegretario Faraone che, non laureato, ci pare la persona giusta per
contribuire alla riforma della scuola (a proposito di meritocrazia). E
ancora, «anacronistico, parasovietico, negazionista, luddista», ha tuonato con pittoresco climax il vicepresidente dell’Associazione Nazionale Presidi Mario Rusconi, nelle
sue dichiarazioni a La Stampa.
Questa la variegata sfilza di epiteti con cui è stato bollato l’atteggiamento degli insegnanti italiani che
ieri si sono sottratti all’operazione
Invalsi. Ovvero di quei docenti che
hanno legittimamente scioperato
per tutta la giornata, oppure effettuato lo sciopero della mansione
astenendosi dal somministrare i
test, o semplicemente non hanno
corretto i fascicoli, attività aggiuntiva e dunque non obbligatoria. Forme di dissenso e di protesta previste e tutelate dalla legge, ma proditoriamente definite «boicottaggio»
e «sabotaggio» su tutti i media e sui
social.
Siamo all’ennesima, insopportabile manipolazione delle parole.
Da parte di esponenti di un governo in calo di consenso culturale e
politico, che reagisce all’evidente
difficoltà in cui si trova esasperando la proterva imposizione di un
modello di scuola, e di società, che
il mondo della scuola, e la società,
stanno strenuamente respingendo. A meno che non si vogliano
convincere 60 milioni di italiani
che tutti i docenti, tutti gli studenti
e tutti i genitori mostratisi solidali
nella protesta di ieri contro i test Invalsi siano minus habentes manipolati dai sindacati.
Quello di ieri non è stato un sabotaggio. Chiamiamo le cose con il
loro nome. Quello di ieri è stato,
per i docenti che hanno espresso
la loro posizione critica in piena autonomia, il legittimo e doveroso
esercizio critico delle loro competenze tecniche in merito ad un
aspetto fondamentale della didattica, cioè la valutazione. Che è e deve essere sempre articolata e multidimensionale e non può essere circoscritta ad un unico strumento, il
test standardizzato, peraltro basato sull’applicazione di un modello
probabilistico, quello di Rasch, ampiamente criticato a livello internazionale. Sono anni che docenti e
studenti si cimentano con i test Invalsi, fin dalle elementari, sperimentandone ogni volta i limiti, le
incongruenze, la millantata oggettività che li costringe nei binari del
pensiero unico, della risposta unilaterale, della negazione oppressiva di ogni capacità di comprensione e di formulazione divergente.
La letteratura scientifica contemporanea in ambito docimologico e
sociologico, unitamente allo studio dei casi delle diverse applicazioni in Europa e in America della
pratica del test per misurare gli apprendimenti degli alunni, inducono molta cautela nella difesa a spada tratta di uno strumento impreciso, imperfetto, culturalmente riduzionistico e del tutto incongruo rispetto alle attività realmente svolte
con gli studenti nelle nostre scuole. E, non ultimo, troppo spesso
piegato a esigenze politiche altre, e
non per eterogenesi dei fini.
Riflettere su questi aspetti della
valutazione, sul legame stringente
che c’è e che ci deve essere con i
processi di insegnamento e apprendimento, nella loro costante
dimensione relazionale, e farlo insieme agli studenti e alle loro famiglie non è boicottaggio. È cultura.
pagina 6
il manifesto
GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015
ECONOMIA
PENSIONI · I sindacati chiedono «rimborsi subito», e i dirigenti annunciano ricorso. Il decreto dovrebbe arrivare lunedì
Dai manager alla Cisl, tutti contro
Pil in ripresa: +0,3
Cgil e Uil: «Ma
manca il lavoro»
Antonio Sciotto
D
L’
ai manager fino alla Cisl,
sulla questione pensioni
è tutto un ribollire, e per il
momento le rassicurazioni del governo - si farà in fretta, entro lunedì prossimo hanno fatto sapere
da Palazzo Chigi - non calmano
nessuno. I più preoccupati appaiono Federmanager e Manageritalia, visto che l’aria che tira è
quella di rimborsi parziali e che
escluderanno quasi certamente
le fasce di reddito più alte. Le associazioni, che tra l’altro sono autrici di uno dei ricorsi che poi ha
dato luogo alla sentenza della
Consulta, sono decise a impugnare, se non saranno soddisfatte
Si stanzierebbe una
cifra non oltre i 3-5
miliardi, il resto
si rinvierebbe alla
legge di stabilità
dalla soluzione individuata
dall’esecutivo. E intanto la Fnp
Cisl annuncia «mobilitazioni».
«Salvo la restituzione totale a
tutti, non esiste un intervento a rischio zero. Qualsiasi misura che
prevedesse un rimborso solo ad
alcune fasce di pensionati o una
graduazione nei rimborsi, facendo scattare restituzioni parziali,
sarebbe illegittimo. E le categorie
promotrici dell’azione da cui è
scaturita la decisione della Corte
Costituzionale, sono pronte a fare ricorso», annuncia l’avvocato
Riccardo Troiano, legale di Federmanager e Manageritalia.
Interessante, per tutta la platea
dei pensionati danneggiata dal
blocco deciso dal governo Monti
(adeguamento 2012 e 2013), le
spiegazione dell’avvocato Troiano: «Una graduazione dei rimborsi è, in teoria e in pratica, impossibile - spiega - La sentenza della
Consulta, dal giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, è
efficace e la norma dichiarata incostituzionale non è più in vigore. Quindi, tutti quelli che percepiscono un trattamento superiore a tre volte il minimo sono legittimati a chiedere il rimborso della rivalutazione non corrisposta
2012-2013 e gli arretrati relativi a
2014 e 2015 che vanno rivalutati
alla luce dei maggiori importi dei
due anni precedenti. Di per sé,
un intervento del legislatore non
è indispensabile: la sentenza è autosufficiente». «Questo - prosegue il legale - non vuol dire che ci
sia un divieto di legiferare: Parlamento e governo possono, nella
loro discrezionalità, intervenire
sia sulla platea degli aventi diritto
sia sulla modalità e i tempi della
restituzione. Ma a quel punto si
dovrà valutare se l’intervento è in
linea con il dettato costituzionale
come interpretato dalla sentenza. E la sentenza non ha detto, né
poteva farlo, che si possa intervenire restituendo solo a determinate fasce di reddito».
I sindacati aspettano ancora
una convocazione: era stata ri-
il manifesto
DIR. RESPONSABILE Norma Rangeri
CONDIRETTORE Tommaso Di Francesco
DESK
Matteo Bartocci, Marco Boccitto, Micaela Bongi,
Massimo Giannetti, Giulia Sbarigia
CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE
Benedetto Vecchi (presidente),
Matteo Bartocci, Norma Rangeri,
Silvana Silvestri
FOTO REUTERS
chiesta due giorni fa da Susanna
Camusso (Cgil), e in effetti il ministro del Welfare Giuliano Poletti
si era impegnato a fissarne una
dopo insistenti richieste di Spi,
Fnp e Uilpensionati, ma finora
tutto tace. Quindi ieri la Fnp Cisl
ha preso carta e penna: «Il governo applichi immediatamente la
sentenza della Corte Costituzionale e ci convochi urgentemente
per stabilire i tempi e i modi
ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha fissato l’approdo
del decreto per il consiglio dei ministri di lunedì (rinviando quindi
l’appuntamento già annunciato
per domani, venerdì), ma non determinando nessun ordine del
giorno per lasciarsi mano libera:
anche per un ulteriore rinvio. Incombono infatti le elezioni.
Ci sono varie ipotesi sul tappeto: una parla del rimborso di solo
un anno dei due di blocco, un’altra di rimborsi progressivi per gli
assegni a partire da tre volte il minimo fino a un tetto tra i 2.500 e i
3.500 euro lordi, rimandando la
soluzione per gli anni a venire,
con le relative coperture, alla legge di stabilità in autunno.
In ogni caso, si parla di interventi massimi tra i 3 e i 5 miliardi
di euro, non oltre al momento,
perché i conti non reggerebbero.
SENTENZA INTERPRETATA · Governo «di parte» sul precedente del 2007
vare a giorni il tema della solidarietà non c’è. E ancor di meno si prevede che il blocco delle rivalutazioni - sebbene solo per le pensioni
sopra 8 volte il minimo - sia utilizzato all’interno del sistema pensionistico. Magari per innalzare le
pensioni da fame dei giovani che
tutti dicono di voler aiutare. Ma
nessuno - a partire dalla Fornero ha mai aiutato.
Ecco dunque che un decreto
dell’operazione, altrimenti siamo
pronti alla mobilitazione», ha annunciato. E il segretario Gigi Bonfanti: «Non vi è alcuna necessità
di una specifica richiesta all’Inps
da parte dei pensionati ai fini del
ricalcolo delle pensioni, poiché si
tratta di una sentenza automatica». I tre sindacati saranno oggi
in presidio a Bologna e Potenza.
Un faccia a faccia ieri mattina
tra il premier Matteo Renzi e il
Senza «solidarietà» blocco illegittimo
T
ecnici da una parte, giuristi
dall’altra. Conti pubblici
contro possibili ricorsi. Il decreto che il governo si appresta a
varare per far fronte alla sentenza
della Corte costituzionale sull’illegittimità del blocco della rivalutazione delle pensioni dovrebbe far
tremare i polsi di qualunque legislatore.
Se l’attenzione mediatica finora
si è concentrata sul problema del
rispetto del Def e del parametro europeo del 3 per cento fra deficit e
Pil, il rispetto della sentenza e i possibili - già ieri probabili - ricorsi
per un mancato rispetto della sentenza stessa potrebbero avere effetti molto più gravi e duraturi. Esattamente come quelli della riforma
Fornero. Perché la logica che muove il governo Renzi è la stessa che
mosse quello Monti: considerare
le pensioni semplicemente come
una spesa pubblica. Reiterando la
ratio che la Consulta ha sonoramente bocciato.
Dando per assodato che il decreto prevederà di rimborsare le rivalutazioni solo fino ad una determinata soglia, il governo - in tutte le
dichiarazioni fatte in questi giorni
- sostiene di rispettare la sentenza.
E nel farlo si cita il passaggio della
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certificato n. 7905
del 09-02-2015
chiuso in redazione ore 22.00
tiratura prevista 37.8699
sentenza in cui si ricorda il precedente del via libera al blocco della
rivalutazione «ai soli trattamenti
pensionistici eccedenti otto volte il
trattamento minimo Inps» nella
sentenza 316 del 2010.
Si tratta di un provvedimento
adottato dal governo Prodi nel
2007 che faceva parte del famoso
Protocollo sul welfare con le parti
sociali - l’ultimo esempio di concertazione - del 23 luglio.
La citazione fatta da chi propugna il blocco delle rivalutazioni è
infatti assai incompleta. E soprattutto non tiene conto delle motivazioni per cui fu decisa quella norma. Cosa che invece fa la Corte costituzionale nella sua sentenza. Il
blocco fu infatti deciso per finanziare il superamento del cosiddetto «scalone» introdotto da Maroni
- il colpo di mano con cui il governo Berlusconi modificò l’età minima per accedere alla pensione di
anzianità, spostandola di colpo da
57 a 60 anni dal 2008, a 61 dal 2010
e a 62 dal 2014.
La Corte più volte infatti sottolinea come «la ratio della norma»
contemperava «l’esigenza di reperire risorse necessarie a compensare
l’eliminazione dell’innalzamento
repentino a sessanta anni a decorrere dal 1° gennaio 2008 dell’età minima per l’accesso alla pensione di
anzianità», con «lo scopo dichiarato di contribuire al finanziamento
solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità». E ancora: «Si
trattava di una misura finalizzata a
concorrere solidaristicamente al finanziamento di interventi sulle
pensioni di anzianità».
Il concetto di «solidarietà» dunque è centrale per la Consulta. E si
esplica in maniera molto precisa: i
soldi recuperati con il blocco devono essere usati all’interno del sistema pensionistico per aiutare altre
categorie.
Sia nel caso della riforma Fornero sia nel probabile testo del decreto che il governo dovrebbe appro-
Fu usato per togliere lo
«scalone». Per la Corte
si può utilizzare solo
lasciando i proventi nel
sistema previdenziale
che abbia la stessa ratio della riforma Fornero spalancherebbe il fianco a ricorsi che, coerentemente
con la sentenza, sarebbero accolti.
Provocando un ulteriore buco nei
conti pubblici.
Perché la sentenza della Corte
va «letta, capita e interpretata», come dicono all’unisono gli esponenti dell’esecutivo. Ma va letta tutta.
Non solo nelle parti che sembrano
dare ragione al governo. m. fr.
Italia è fuori dalla recessione. L’annuncio è venuto ieri dall’Istat, che ha pubblicato i dati relativi alla crescita del
Pil nel primo trimestre del 2015: il
prodotto interno lordo è tornato a
crescere, segnando un aumento
dello 0,3% rispetto all’ultimo trimestre del 2014. Su base annua, invece, la variazione è nulla.
L’istituto di statistica ha spiegato
che la crescita registrata nei primi
tre mesi di quest’anno è la più alta
da inizio 2011: per ritrovare un aumento più significativo bisogna risalire al primo trimestre di 4 anni
fa, quando il Pil salì dello 0,4%.
Ma ieri sono stati pubblicati anche i dati europei, da Eurostat:
nell’Eurozona il Pil è in crescita dello 0,4% nel primo trimestre 2015,
in accelerazione dopo il +0,3% del
quarto trimestre 2014, il +0,2% del
terzo e il +0,1% del secondo. La
Germania segna +0,3% come l’Italia, +0,6% per la Francia e +0,9%
per la Spagna. Giù per il secondo
trimestre consecutivo il Pil in Grecia (-0,2% dopo il già pesante
-0,4% dell’ultimo quarto del 2014).
Molto positivo il commento del
ministro dell’Economia, Pier Carlo
Padoan: «Il dato sul Pil è superiore
alle nostre aspettative. È presto per
cantare vittoria, ma è il segnale della svolta impressa dalle politiche
del governo. Con il mix di riduzione di tasse, sostegno a consumi, stimolo a investimenti e riforme abbiamo creato le condizioni per cogliere la finestra di opportunità determinata dal Qe e dal calo del petrolio», dice. Questo dato, aggiungono all’Economia, «rende ancora
più a portata di mano il raggiungimento dell’obiettivo di crescita dello 0,7% nel 2015, indicato dal Def».
Critici i sindacati: «Il Pil avanza a
velocità di lumaca, siamo tornati
in deflazione e, mentre nell’area
Ocse si registra un calo della disoccupazione, in Italia la percentuale
sale al 13%», dice il segretario Uil
Carmelo Barbagallo.
Scettica anche Susanna Camusso, leader della Cgil: «Il quantitative easing e la dinamica del prezzo
del petrolio mi pare che da soli potrebbero determinare una crescita
del Paese anche superiore. La crisi
del sistema produttivo è ancora
molto impegnativa».
Il premier Matteo Renzi lega il
dato alla vertenza scuola: «I dati
Istat parlano di un +0,3 ma non serve a niente tornare a crescere se
non torniamo a crescere nelle scuole. L’Italia non sarà mai una superpotenza diplomatica, geografica,
demografica ma potrà tornare a essere una superpotenza culturale».
Per Beppe Grillo la ripresa «è solo una balla del governo», scettici
anche Adusbef e Federconsumatori («Segnale debole, niente entusiasmi»), ed è cauto anche Giorgio
Squinzi di Confindustria: «Positivo
ma non entusiasmante».
AMBIENTE · Il testo passa senza alcuna modifica. Da martedì in Aula
Ecoreati, al senato sì liscio come l’olio
la commissione approva senza air gun
Eleonora Martini
ROMA
È
andata liscia come l’olio (nero). Dribblati gli emendamenti che chiedevano le
reintroduzione del divieto di air
gun - soppresso all’ultimo minuto
alla Camera - e travasato il tutto in
un ordine del giorno che «impegna il governo» a monitorare l’impatto ambientale della tecnica usata dalle compagnie petrolifere (fotocopia di quello già approvato a
Montecitorio), il resto non ha trovato opposizione. «Testo #Ecoreati
passa in commissioni #Senato senza modifiche. Paese attende legge
da oltre 20 anni: ora in Aula ognuno si assuma responsabilità», twitta il ministro dell'Ambiente, Gian
Luca Galletti. E il riferimento è ai
senatori di Sel, ad alcuni ex grillini
del Gruppo misto e a Gal che hanno già promesso battaglia per mettere fuorilegge le esplosioni in mare usate per sondare il sottosuolo
alla ricerca di idrocarburi. Il provvedimento dovrebbe ora approdare
nell’Aula di Palazzo Madama già
martedì prossimo per il sì definitivo che il Pd vorrebbe incassare entro la settimana.
Ma se anche Legambiente e Libera, promotrici di una campagna
per l’introduzione degli ecoreati
nel codice penale, si dicono soddisfatte e chiedono che ora si arrivi
velocemente al traguardo finale,
c’è invece chi assicura che l’ultimo
passaggio «non sarà facile». Subito
dopo il voto delle commissioni Am-
biente e Giustizia, la senatrice Loredana De Petris è a dir poco contrariata e definisce «vergognoso» l’atteggiamento del governo, rappresentato da Galletti, in commissione: «Il ministro - riferisce - ha detto
che la questione dell’air gun verrà
affrontata in un decreto dedicato
alle piattaforme off shore (forse già
lunedì in Cdm, ndr), ma in realtà
non c'è niente di concreto e sappiamo che la posizione nel governo è
diversa». Per De Petris, che minaccia «emendamenti in Aula anche
da parte di Sel» sull’air gun, la cosa
grave «è che c’è un’azione deliberata a vantaggio delle compagnie
straniere - sono loro che usano
quella tecnica - che qui hanno trovato il Bengodi».
A fronte dell’entusiasmo con cui
Ermete Realacci, primo firmatario
del testo base, definisce il risultato
di ieri «una buona notizia per l'ambiente e la salute dei cittadini», si
registra poi una ulteriore divaricazione tra le posizioni del M5S che
rivendica di aver «dato un contributo decisivo per l’approvazione
della legge» che è «un punto importante del nostro programma elettorale», e i fuoriusciti che oggi gravitano nel Gruppo Misto. I quali definiscono l’escamotage dell’ordine del
giorno sull’air gun «un contentino
per noi e un grande regalo per i potenti. Il governo invece doveva sospendere le autorizzazioni in attesa delle direttive Ue».
Indietro tutta
Non è un paese
per innovatori
Vincenzo Vita
N
on è un paese per innovatori. Anzi. Per
quanto il Presidente-segretario dica e ridica
e “disintermedi” con i tweet, la realtà italiana - nella sua “pornografica” evidenza - è di un luogo arretrato e senza visione. Altro che futuro, siamo a un tuffo nel passato. Qualche esempio.
I giornalisti rischiano ancora il carcere per diffamazione, contro ogni indicazione europea. Numerose testate chiuderanno i battenti, se il Fondo per
l’editoria non viene almeno un po’ rimpinguato e
se non si governa la transizione dall’ambiente analogico a quello digitale. Il servizio pubblico radiotelevisivo - sulla base del disegno di legge del governo ora al Senato - torna a più di quarant’anni fa: come allora, sotto l’egida del potere esecutivo. Sembra il suggello della controriforma istituzionale in
corso d’opera: verso un autoritarismo fatto di personalizzazione della politica e di uso stabile della
cerimonia mediatica.
Ma riprendiamo il filo. E lasciamo stare per carità di patria il pasticcio dell’”Agenzia per l’Italia digitale” (Agid). Il “punto di catastrofe” è costituito dalla vicenda del Piano della banda larga e ultralarga.
Qui è in atto qualcosa di poco chiaro. Telecom, Metroweb, ora Enel (?). Perché una simile confusione?
Servirebbe un “compromesso positivo” tra i diversi
soggetti - nazionali e locali (e sì, la fibra richiede il
protagonismo dei territori) - con un indirizzo garantito dalla sfera pubblica: dalla “neutralità” della
rete all’accesso libero.
Così, è lecito chiedersi come mai non si investa
di più sulla produzione dei contenuti: la creatività
c’è, eccome, ma deve battagliare con tagli e burocrazie. La storia corre sul “filo” e su programmi,
film e audiovisivi. In un contesto crossmediale,
multipiattaforma, riunificato dai linguaggi digitali.
E’ in corso l”addomesticamento sociale” delle forme contemporanee di comunicazione: modi e stili
di consumo lontani dal piccolo mondo antico. Insomma, è in gioco un pezzo della democrazia.
Guai se all’evoluzione tecnica corrispondessero ulteriori pesanti divisioni: culturali e sociali.
Infine. La ministra Boschi ha rilanciato il tema inquietante per la storia italiana- del conflitto di interessi. Ci sono testi in Parlamento, tutti migliori
della fragilissima norma in vigore. Se ne estragga
uno a sorte e lo si approvi. A meno che la legge sia
solo una metafora.
Tendenze · On demand, una rivoluzione che seppellisce i partiti
Rai · Il verso non cambia, il governo se la canta e se la suona
Il futuro del servizio pubblico
Una riforma o una mossa tattica?
Carlo Freccero
Q
uale sarà il futuro del servizio pubblico
televisivo? E’ difficile prevedere il futuro.
In genere la cosa migliore è analizzare il
presente per coglierne le tendenze. E la tendenza in atto, a partire da Netflix, va in direzione di
una televisione on demand. L’on demand rappresenta una vera e propria rivoluzione del medium televisivo, perché sancisce la fine della tv
così come noi la conosciamo. E infatti le caratteristiche dell’on demand vanno in direzione opposta alle scelte generaliste. In primo luogo sparisce il palinsesto, che ha funzionato sino ad oggi come orologio sociale, scandendo la quotidianità delle nostre vite (h. 20 tg, h. 21 varietà, seconda serata talk show…).
L’effetto più drammatico della sparizione del
palinsesto è la perdita della sincronia e quindi
della condivisione. Condividere in un tempo comune un dibattito, crea uno spazio sociale,
un’agorà virtuale che contribuisce alla partecipazione diretta agli eventi politici e di costume.
Pensiamo all’importanza del talk show e della
televisione all’epoca di Mani Pulite: fu la televisione a traghettarci fuori dalla Prima Repubblica, a sostituire alla politica grigia e anonima dei
partiti, la politica del leader, a identificare il partito con la persona capace di dibattere in pubblico, di “caricare” l’elettorato. Tutto questo sta
sparendo o è già sparito. La crisi del talk show è
anche una crisi mediatica. L’on demand è per
la fiction (cinema, serie) o per lo sport. L’evento
informativo e il dibattito sono sempre più relegati sulle reti tematiche d’informazione.
Attualmente il dibattito sulla riforma della
Rai non riguarda tanto la missione del servizio
pubblico, quanto la sua occupazione da parte
dei partiti. Bene, una televisione on demand
non si presta a nessuna occupazione, perché
manca di spazi pubblici di discussione e di indottrinamento.
Però abbiamo esordito dicendo che si tratta
solo di tendenze. Non sappiamo in quanto
tempo si realizzeranno e se si realizzeranno totalmente. E’ probabile che la televisione generalista sopravviva, pur perdendo peso. In realtà la tv on demand ha un limite nell’essere un
servizio a pagamento, mente la televisione tematica richiede interessi e competenze specifiche. Resterà sempre un segmento del pubblico che farà riferimento alla generalista, ma sarà la fascia di pubblico più dequalificata.
Quando parliamo di servizio pubblico ci riferiamo dunque ad una televisione generalista sopravvissuta alle reti tematiche per mancanza,
da parte del suo pubblico, sia di capitale economico che culturale. E questa involuzione comincia a rendersi visibile. Nella sera di giovedì 23
aprile un programma come Il Segreto, telenovela spagnola costruita per un pubblico femminile e popolare, ha superato le tre reti Rai e ha raggiunto il 19,19% di share con 4.857.000 spettatori. Un programma di questo genere solo pochi
anni fa avrebbe raccolto un’audience marginale (in gergo si direbbe un’audience di controprogrammazione). E’ a partire da questa tv che si
pone oggi la domanda di come dovrebbe essere riformato il servizio pubblico televisivo.
CONTINUA |PAGINA IV
Roberto Zaccaria
U
na premessa innanzitutto. Il tema
della Rai e della sua riforma occupa
da tempo la scena politica. Un tempo fin troppo ampio, almeno per il decisionismo di questo governo. Si era detto che la
legge doveva essere fatta prima del rinnovo
del mandato del Cda. Si era ipotizzato il decreto, come ormai si fa per quasi ogni provvedimento, ma poi quest’ipotesi era stata
messa da parte, forse anche per qualche autorevole suggerimento. Il disegno di legge
viaggia però al rallentatore. Prima le indecisioni a Palazzo Chigi, poi il passaggio al Quirinale infine l’approdo al Senato.
Ma quanto tempo ci vorrà per arrivare
all’approvazione di un testo? Non mi pare
che una legge di questa natura possa impiegare meno di tre-quattro mesi in prima lettura e lo stesso tempo alla Camera. Sarebbe
già un record! Mi sembra difficile ormai il rispetto della scadenza massima della durata
del Consiglio e dei suoi vertici prevista per
il prossimo luglio. La legge non potrà essere
approvata, secondo le più rosee previsioni,
prima della fine dell’anno.
Lo scenario più realistico sembra dunque o quello di una proroga significativa
dell’attuale Consiglio (prassi verificatasi
spesso in passato, ma che non pare nelle
corde del premier) o il rinnovo con le regole della Gasparri. Questa seconda ipotesi,
più probabile, consentirebbe al governo di
ottenere risultati simili a quelli ipotizzati e
magari con qualche critica al parlamento
per i suoi ritardi.
Il ddl sulla Rai si muove sia tecnicamente che politicamente all’interno del disegno della legge Gasparri (2004) e del Testo
unico sulla radiotelevisione (2005), verso i
quali si procede con la pura tecnica
dell’emendamento. Tra l’altro questa tecnica ha provocato qualche incomprensione e qualche allarme, del tutto ingiustificato, come nel caso dei limiti alla pubblicità
della Rai. Qualche giornalista alla ricerca
di improbabili retroscena ha letto le disposizioni abrogate della legge Gasparri e ha
pensato alla solita furbizia di qualcuno
che voleva favorire la Rai. Ma la stessa materia abrogata era stata già trasferita
all’art.38 del TU della radiotelevisione che
continua ad essere in vigore. Se proprio si
fosse voluto innovare in questo campo dei
limiti alla pubblicità sarebbe stato
molto più incisivo un intervento
che finalmente ponesse fine alla sciagurata pratica degli sforamenti (rispetto ai limiti di
affollamento previsti per legge).
CONTINUA |PAGINA IV
Intervista · All’inseguimento del circo mediatico, con ogni «mezzo». Andrea Salerno racconta «Gazebo»
«Siamo gonzi
terribilmente seri»
Micaela Bongi
D
al 22 maggio i «gazebers» cronici dovranno restare a casa il venerdì all’ora di cena. Gazebo
(@welikechopin su twitter, perché il titolo allude alle elezioni primarie, ma
gli autori sono pur sempre ragazzi degli anni ’80), chiude la terza stagione
uscendo dalla «nicchia» per approdare, con cinque puntate settimanali, in
prima serata. Andrea Salerno, una delle firme del programma di Raitre, non
è preoccupato: «Abbiamo cambiato
spesso collocazione e durata. Ma è nella natura stessa di un Gazebo. Il Gazebo dove lo metti sta, si può spostare facilmente, non mette radici. Più seriamente è la voglia di continuare a sperimentare e di mettersi in discussione».
Come nasce Gazebo?
Nasce dopo un pranzo. Nasce dall’intuizione di Diego Bianchi di unire un
gruppo di persone che si conoscevano
poco, che a volte si erano sfiorate, con
percorsi differenti e esperienze professionali molto diverse: il sottoscritto,
Marco Damilano, Makkox, Antonio Sofi. L’idea era quella di provare a raccontare il nostro Paese usando linguaggi
nuovi, mischiando satira e giornalismo, il mondo reale e quello alterato
«Rompiamo le liturgie
della narrazione politica.
Il nostro è un programma
strano, espelle tutto quello
che non è gazebico»
dei social network. Alcuni di noi venivano dalla tv, altri dal web, altri dalla
carta stampata. Avevamo tutti lavorato
con Diego, ma separatamente e a progetti diversi. Ognuno aveva i suoi riferimenti. Obbiettivo che ci trovò subito
d’accordo: provare a frullare tutto, Te
lo do io il Brasile di Grillo, gli studi arboriani di prima generazione come Speciale per voi, la migliore informazione
visiva, musica dal vivo e altro ancora.
Al centro di tutto, la piccola telecamera di Diego, il suo terzo occhio, la grande capacità di riprendere e montare
con uno stile unico, la capacità di essere ‘autorevole’ perché presente. Una
tv-jazz, tutto live: Diego racconta e mostra video, Makkox disegna e la musica
suona. Questa la base di partenza. Altro non sapevamo, né di noi, né di
quello che avremmo fatto. Ci hanno
aiutato tre cose: l’affiatamento; l’attualità che per le prime dodici puntate ci
regalò eventi straordinari che ci fecero
da palestra, una rete (Raitre) che ci permise - cosa sempre più rara - una sorta
di libera sperimentazione in onda. Uniti solidi e capaci musicisti e un tassista
pazzo, preso per studio il retro del Teatro delle Vittorie dove viene registrato
Affari tuoi, il gioco è cominciato.
Quale fabbrica produttiva mette in
moto?
Gazebo è girato interamente con le telecamerine, con i telefoni, con Ipad, insomma con qualsiasi cosa sia estremamente duttile. Una trasmissione a basso budget, resa possibile dall’aver capito che a volte anche la ripresa di una diretta trasmessa su un monitor di computer è sufficiente a raccontare la realtà. Diego monta anche il suo
“grezzone”, tutto il resto viene supportato da un montaggio della Rai. Le riprese e tutto lo studio sono frutto della
grande professionalità della squadra
Rai del Delle Vittorie che da subito si è
divertita con il resto del gruppo e ha dato un grande apporto affinché un piccolo retro di uno studio avesse
un’anima e una riconoscibilità televisiva. La produzione è divisa tra Fandango Tv e Rai. Ma la
modalità
produttiva
principale di Gazebo è
che tutti possono trovarsi a partecipare
a tutti i livelli, dalle riprese all’essere protagonisti in video. La produzione di Gazebo stessa è diventata uno degli elementi di narrazione e probabilmente
anche una delle caratteristiche principali che la rendono una trasmissione unica nel suo genere. Spostamenti in moto, riunioni di redazione, tutto è rappresentato, tutto fa parte del racconto gazebico, del racconto di quel ‘circo mediatico’ che accompagna ormai ogni evento
di cronaca, lo condiziona, lo trasforma,
lo rende tale.
Tra autoreferenzialità ostentata e radicalità dei contenuti, anche il reportage, come quelli sull’immigrazione,
è trattato in modo nuovo.
L’occhio e la capacità di Diego di essere partecipe e coprotagonista del documentario che gira è la chiave di volta e
la caratteristica che permette di affrontare in modo diverso ogni argomento
che sia Sanremo o un drammatico
viaggio tra gli immigrati di Rosarno. Oltreoceano hanno inventato Vice e certo gonzo journalism, noi abbiamo Gazebo. E’ una questione di linguaggio,
sia visivo sia narrativo. Significa rompere le liturgie a cui il pubblico è abituato
e portare sul piccolo schermo modelli
che più frequentemente e stabilmente
si trovano su Youtube, sui social, in
quel mare che è la Rete dove non ci si
preoccupa della pulizia di un’inquadratura o dell’audio, anzi: in quella sporcatura e imperfezione il racconto sembra
ritrovare uno straccio di reale, di verità, e di credibilità. Quella credibilità
che potremmo perdere domattina, ma
che fino ad ora ci ha permesso di fare i
buffoni e i giornalisti senza danneggiare né i primi né i secondi.
Le partenze in vespa sono un omaggio morettiano?
Un omaggio morettiano sicuramente,
ma soprattutto più semplicemente una
soluzione pratica: è la mia Vespa, quella che uso tutti i giorni. Il parco “mezzi”
di Gazebo è composto anche di un’Harley di Pierfrancesco da Termoli e del taxi di Mirko, se per questo. La Vespa è
un modo per spostarsi velocemente,
rende bene l’idea dell’azione, e soprattutto ancora non mi spiego come Diego
riesca a fare a mano libera delle riprese
ferme che neanche su un camera car.
Nel momento della crisi dei generi televisivi, con i talk-show in depressione, Gazebo inventa un modo nuovo
di occuparsi di politica. E' la matrice
della rai "guglielmina" aggiornata
all’epoca dei social? Oppure?
Ma, questo bisognerebbe chiederlo a
Guglielmi. Di quella stagione straordinaria che nel bene e nel male ha contribuito alla decostruzione dei modelli
culturali che avevano accompagnato
la tv dalla sua nascita e il novecento e
la sinistra italiana fino alla caduta del
muro di Berlino, sicuramente ereditiamo la voglia di sperimentare e di mettere in discussione i linguaggi e le liturgie consolidate del piccolo schermo.
Più semplicemente proviamo a raccontare le cose che raccontano tutti da un
altro punto di vista. A volte ci riesce, a
volte meno. Ma ci proviamo sempre e
con grande rigore. Le nostre riunioni
di redazione del lunedì sono così serie
che a volte preoccupano pure noi.
Perché non avete ospiti in studio?
Non è una scelta definita. Spesso semplicemente non servono per costruire
il nostro racconto. Gazebo ha la capacità di espellere qualsiasi cosa non sia
“gazebica” da se stesso.
Cosa significa "gazebico”?
Ancora non l’abbiamo capito fino in
fondo. Per esempio al momento un politico in studio non siamo ancora riusciti a metterlo. Non è che lo si esclude
a priori, è il programma che al momento lo rifiuta in automatico.
Una delle vostre particolarità è il racconto variamente declinato. E’ questo il senso della graphic novel invece del vignettista classico?
Makkox con i suoi disegni live, i fumetti
animati e i tutorial fanno parte della sinfonia. Il senso è proprio questo, dove non
arrivano la telecamera, la musica o una
gag, lì arriva sicuramente una matita. E’
proprio una possibile declinazione del
racconto, di un racconto che dev’essere
principalmente visivo. Che poi è strano,
in un programma dove la parola di Diego si sovrappone ai filmati, dove lo spiegone di Damilano fissa alcuni chiodi,
dove la classifica dei social
è il trionfo del nuovo verbo, dove insomma le parole abbondano. Forse
è proprio questo Gazebo: parole che fanno
da chiodi per i fili
narrativi di reportage e disegni.
Ma domani sarò pronto a giurare che invece è l’esatto contrario.
La musica ha un
posto in prima fila. Come scegliete i gruppi?
Il primo criterio
è: decide Diego.
Il secondo: devono suonare
dal vivo ed essere molto
bravi.
Informazione · È qui che si misurano i rapporti di forza tra politica e tv. Ma la riforma Renzi se ne dimentica
La scatola nera del talk show
Christian Ruggiero
T
anto è ampio il dibattito attorno alla riforma della Rai, quanto sono scarni i documenti ufficiali attorno ai quali costruirsi un’opinione. Sul sito del Governo troviamo
un asciutto pdf di quattro pagine, un
documento programmatico intitolato
«La nuova Rai». Che dedica molta attenzione al settore dell’informazione,
dimenticandone però una parte importante: i programmi di approfondimento. I confini dell’offerta informativa della futura media company, «liberata» dalla politica e razionalizzata soprattutto nel settore informativo, si
fermano alle testate giornalistiche, lasciando fuori lo sconfinato territorio
dei talk show. Eppure proprio in
quest’ennesima «anomalia» dello sviluppo dell’offerta informativa del servizio pubblico sta quel passaggio «dalla Rai dei partiti alla Rai dei professionisti» che lo stesso documento evoca.
Un passaggio avvenuto già all’epoca
di Tangentopoli, quando i Lerner e i
Santoro costruivano le loro piazze virtuali per mettere in scena, proprio sul
palcoscenico della tv di Stato, il processo alla politica che già avveniva
nelle aule del Tribunale di Milano.
Sotto accusa era la politica che aveva
fatto della Rai l’esempio più concreto
della spartizione delle risorse materiali e immateriali secondo una lottizzazione che solo in Italia ha potuto essere elevata a metodo scientifico.
Nel successivo «ventennio», l’influenza della politica sul sistema informativo si è certo esercitata sui tg - ri-
cordiamo la campagna elettorale del
2008, l’attenzione spasmodica delle
prime due reti ai casi di cronaca nera riguardanti immigrati presunti clandestini, la scelta della terza rete di effettuare
un reportage nei piccoli centri del Nordest per verificare quanto la paura percepita passasse per la rappresentazione
della sicurezza nel piccolo schermo. I risultati sono stati magistralmente riassunti da Antonio Di Bella per una pubblicazione dell’Osservatorio Mediamonitor Politica intitolata «Perché la sinistra ha perso le elezioni»: «Lei perché
ha votato Lega?» «Per la sicurezza. Non
si è più sicuri» «Dunque lei ha subito
un’aggressione» «No» «Nel paese dove
lei vive accadono episodi violenti legati
agli immigrati» «No. Però si sente che
accadono delle brutte cose». Ma i risultati della ricerca mostrano anche molto altro: lo spazio della politica si è progressivamente sovrapposto a quello
della tv, e i rapporti di forza tra questi
due mondi sono visibili anzitutto
nell’arena del talk.
Osserviamo in un’ottica diacronica
gli «eventi mediali» che hanno visto
protagonista Berlusconi nelle elezioni
della Seconda Repubblica «realizzata», quella che nasce nello shock del
1994 e si consolida a partire dal 2001.
L’8 maggio di quell’anno Bruno Vespa trasforma il suo studio televisivo
in quello di un notaio, per accogliere
la firma, su una scrivania di ciliegio divenuta parte dell’immaginario politico italiano, il «Contratto con gli Italia-
ni». Due Governi Berlusconi dopo, ecco il Cavaliere dare una scossa alla
campagna sonnacchiosa del 2006 lanciando a Lucia Annunziata l’ultimatum del «mi alzo e me ne vado», creando un esempio da manuale della
mutazione genetica del neo-giornalista, che pur di rivendicare il suo ruolo
di professionista manda all’aria un’intervista con il presidente del consiglio. Due difficili anni di centrosinistra, ed ecco un’altra campagna elettorale, giocata su narrazioni che non
potevano che trovare la loro sede ideale nel talk: quella dell’equazione del
benessere rivista e corretta per salvare l’economia italiana che passava anzitutto per i destini dell’Alitalia contro
quella della bella politica che tratteggiava, con eccessivo anticipo, la fine
del bipolarismo.
Un nuovo scenario che solo oggi si
è realizzato, nel fragile tripolarismo
in cui si dibattono i «grillini» (passati
da una strategia ferocemente antitelevisiva per le politiche del 2013 all’innamoramento per il talk nelle Europee 2014) e in cui trova la sua dimensione televisiva e politica Matteo Renzi. Che non si esprime solo nelle comparsate all’interno dei talent della
«concorrenza», ma anche e soprattutto nella iper-presenza e nelle solide
performance del capo del governo
che porta avanti questa riforma. Che
si esprimono nelle arene più tradizionali come Porta a Porta, nei confronti con Lucia Annunziata In mezz’ora
e nelle pigre serate di Che tempo che
fa. Mentre la scatola nera del talk
continua a registrare ogni oscillazione nei rapporti tra tv e politica anche
nella tele-piazza ordinata di Ballarò
e in quella eterodossa di Virus, nel salotto iperconnesso di Agorà e in quello domenicale de L’Arena, dove il processo alla classe dirigente procede,
incurante del crinale tra «vecchio» e
«nuovo» su cui si gioca la dialettica
politica attuale.
Lo scontro tra generalista e pay · La tv non è più un servizio universale. Un’anomalia che va colmata
Vecchi vizi e nuove virtù
Francesco Devescovi
I
l sistema della comunicazione
sta attraversando una fase di
profondi cambiamenti che toccano gli snodi più rilevanti del sistema. Nuovi media, grazie a continue innovazioni tecnologiche, si affermano a vantaggio di altri più
vecchi, mentre il pubblico dimostra un’inaspettata capacità di selezione fra un’offerta sempre più ampia. Il rischio che si corre è che le
potenzialità del nuovo siano vanificate da scelte politiche che rallentino il processo d’innovazione. La
diffusione della banda larga, per
esempio, è stata bloccata da contradditorie scelte di politica industriale e ciò ha determinato che
la web-tv abbia avuto difficoltà ad affermarsi, secondo
quanto richiesto dal mercato. E così la televisione è
ancora incentrata sulla «vecchia» tv generalista, dalla quale molti si sono allontanati, passando alla tv a pagamento o all’astinenza vera e propria dalla televisione classica, con un servizio pubblico non ancora affrancato dalle vecchie logiche dell’occupazione da parte della politica, metodi che dovrebbero appartenere
ormai alla «storia».
Il nuovo ha difficoltà a subentrare
al vecchio. Il rischio è che la comunicazione, che avrebbe dovuto agevolare l’integrazione sociale, abbia accentuato ancor più le divisioni fra
chi si emancipa grazie all’utilizzo dei
nuovi media e chi ne è escluso, arrivando a una nuova «povertà».
Andiamo con ordine e analizziamo quanto sta avvenendo.
Marco Giusti
M
agari non è così vero. Ma mi piace pensare, un po’ per spirito di
polemica un po’ perché tutto
quello che può rivitalizzare il nostro cinema va tentato, che Gomorra - La serie e, in
parte, anche 1992, siano stati i migliori
film della stagione cinematografica che si
sta ora concludendo. Qualcosa, insomma,
che si eleva dalla definizione di «fiction»,
di solito attribuita ai prodotti seriali televisivi, e diventa «cinema».
In modo diverso, sia Gomorra che 1992
diventano cinema, anzi cinema come si faceva negli anni più eroici della nostra industria, proprio perché sono obbligati, dalla
formula di seriali “alti” di Sky Atlantic e
dalla vicinanza con serie molto amate e seguite come Games of Thrones o Boardwalk Empire o House of Cards,
a seguire in qualche modo le
stesse costruzioni narrative, le
stesse impostazioni di montaggio alternato che seguono più
personaggi, perfino analoghi
modi di iniziare e finire le singole puntate. Strutturate quindi
come seriali alti, da Hbo per interderci, obbligano sceneggiatori e registi, e qui penso soprattutto a Stefano Sollima e al suo
gruppo, composto da due bravi
registi come Francesca Comencini e Claudio Cupellini, a costruire al massimo livello la
messa in scena. Senza puntare
però né al cinema da 400 sale con quei dieci attori che vanno di moda che sei obbligato a prendere dai produttori, né alla regia del film da festival, altra malattia mortale della nostra industria. In qualche modo, Stefano Sollima, che è figlio di uno dei
più illustri registi di genere che abbiamo
avuto nel nostro paese, Sergio Sollima, autore di grandi spaghetti western, spy movies e avventurosi come Sandokan, non a
caso grande seriale tv, riesce a trasportare
nella fiction ricca di Sky sia la grande lezione del cinema di genere, qualcosa che abbiamo nel dna, sia a trascinare nel gioco
registi magari fino a oggi più interessati a
un cinema d’impegno, e penso a Francesca Comencini, altra figlia d’arte, che a sua
volta si libera di una certa zavorra di cinema d’autore e porta nel nuovo genere tutta la sua finezza intellettuale. E permette a
tutti di lavorare con attori meno noti, ma
più freschi, che avranno cento volte più voglia di rischiare delle solite star.
Anche nel caso di 1992, diretto da Giu-
Il digitale terrestre, introdotto pochi anni fa, ha sconvolto il sistema.
Attualmente ci sono circa novanta
reti a livello nazionale. Un’offerta
abbondante che ha consentito a
nuovi gruppi di affermarsi (vedi Discovery), e a scoprire diversi canali
tematici di valore. La crisi della tv
generalista ha ridimensionato il
predominio di Rai e Mediaset (insieme avevano il 90% di share nel
2000, poi sono scesi all’85% nel
2005, al 79% nel 2010 e ora sono arrivati al 71%), ma le quote perse
dalle reti generaliste sono state in
parte recuperate dai loro canali tematici. Nel frattempo la tv a pagamento (segmento nel quale la competizione è ristretta fra Sky e Mediaset) ha aumentato il parco degli abbonati, arrivando insieme a circa
sei milioni, il 24% delle famiglie.
Lo «scontro» fra la tv generalista e
la pay sta caratterizzando questa fase. La tv generalista perde continuamente ascoltatori, perché i suoi programmi sono troppo ripetitivi e sconfinano, spesso, nel trash e perché il
pubblico, o almeno una sua parte, è
diventato più selettivo. La crisi della
pubblicità (-25% negli ultimi dieci
anni; dopo che nel decennio
1990-2000 aveva fatto registrare
+47%) riduce inoltre gli investimenti
sui programmi e ciò causa un ulteriore scadimento della loro qualità,
mentre la tv a pagamento punta tutto sulla qualità e sull’esclusiva dei
grandi eventi. Pur avendo raggiunto
una quota significativa di abbonati,
la pay continua ad intercettare gli
spettatori delusi che «fuggono» dalla
generalista.
Una prima conseguenza di questo fenomeno è che la televisione
non è più un servizio universale, quale è sempre stato. Il servizio pubblico dovrebbe, come una forma moderna di welfare della comunicazione, colmare proprio quest’anomalia.
Nel 2014 il consumo medio giornaliero di televisione è stato pari a
255 minuti (4 ore e 25 minuti), ma
va segnalato un atteggiamento diversissimo fra i vari gruppi. Dal
pubblico-massa, si è passati a masse di pubblici, in cui vi sono i «bulimici» televisivi e gli «anoressici». I
primi sono gli anziani e persone di
livello economico e sociale basso,
mentre i secondi sono rappresentati dai giovani in particolare. Per essi, ancor più per i cosiddetti nativi
digitali, la tv è un medium vecchio
per definizione, che usano magari
solo per i grandi appuntamenti.
Nella storia della comunicazione,
c’è sempre un mezzo egemone,
quello attorno al quale ruotano gli
altri. Negli ultimi trent’anni è stata
la tv; ora sta lasciando il posto al
web, con velocità diverse fra i vari
paesi.
E il servizio pubblico come si pone in questa situazione di cambiamento?
Nella sua lunga storia vive oggi il
momento più delicato. La Rai è
identificata come un’eredità della
storia, seppur gloriosa, ma sulla
quale è impossibile investire per il
futuro per l’acclamata, così sostengono i critici, incapacità produttiva
e per una programmazione che
non si discosta da quella dei privati. Non a caso il canone è identificato come la tassa più «odiosa». Le ristrettezze delle risorse, il canone
che ha un’alta evasione e la pubblicità che attraversa una crisi struttu-
Serie · Da «Gomorra» a «1992», una liberazione per tanti registi
Il bel sogno della fiction italiana
è un tuffo nel cinema di genere
seppe Gagliardi, dove non c’è neppure il
legame con un forte film precedente come nel caso di Gomorra, si assiste a una liberazione della fiction tradizionale. Grazie, soprattutto, a un tema da cinema d’autore. O che il cinema d’autore avrebbe dovuto trattare, e non lo ha potuto fare per
ovvi motivi di vigliaccheria politica o di
moralismo da prima serata generalista. E’
vero, quindi, che 1992, magari, è una serie
meno rifinita narrativamente di Gomorra,
ma è anche molto più libera rispetto a
schemi prefissati, a cominciare dal peso
del gomorra movie, perché scrive qualcosa che né la nostra fiction né il nostro cinema hanno mai saputo e osato mettere in
scena.
E’ il tema, insomma, oltre alla già detta
vicinanza con le serie americane, a farne
una serie di culto immediato, ma anche a
spingerla verso una direzione inaspettata,
come quella del cinema di genere. Perché
anche qui, dovendo comunque fare cinema piuttosto che fiction da tv generalista,
ci si spinge nel mondo del film politico-scandalistico anni ’70, qualcosa che da
anni non bazzichiamo più. E, visto che si è
più liberi, si possono mettere in scena situazioni se non da pura commedia-sexy,
da commedia di satira sociale, come la ra-
gazza che per fare carriera in tv cede alle
lusinghe dei corrotti e dei potenti, la ricca
rampolla alto-borghese che non sa decidere se seguire le orme del padre o mettersi
col poliziotto. E’ il luogo, insomma, in questo caso Sky Atlantic, a spingere i nostri registi a un fortunato ritorno al cinema di genere grazie alle serie «alte». Non a caso si
parla di progetti come un Django seriale,
un Diabolik moderno, una serie da girare
in Almeria con cowboy contro zombi, oltre a quella, in lavorazione, sulle avventure del giovane Papa Bergoglio, The Young
Pope, affidata a Paolo Sorrentino, mentre
per altre si cercano di coinvolgere Sydney
Sibilia o Matteo Garrone. Lo stesso Garrone ha riconosciuto più che possibile trasformare il suo Il racconto dei racconti in
un seriale tv alla Games of Thrones. A ben
vedere, oggi, hanno molti più limiti, di narrazione, di temi e di messa in scena, certi
piccoli e grandi film d’arte che obbligano i
registi al modello sub-Dardenne con la
macchina da presa fissa sulla nuca della
giovane protagonista sfigata. O a una scrittura che non deve chiarire nulla nei primi
venti minuti di spettacolo, per cui neanche lo spettatore capisce nulla. Al punto
che diventa più “genere” il cinema d’autore del cinema di genere stesso. E sfrutta
meccanismi, spesso, importati dal cinema
internazionale e non sempre davvero sentiti. Meglio, allora, questo sano ritorno al
nostro Dna anni ’70 con l’avventuroso, la
commedia, il poliziesco. Per tanti registi
italiani, più o meno giovani, è davvero
una liberazione. E per tanta nostra fiction,
spesso modesta, mal scritta e mal diretta,
potrebbe davvero essere una svolta interessante. Anche perché può finire per coinvolgere nell’operazione di riscrittura dei
nostri codici cinematografici anche quanti si sono impegnati in questi anni nelle
web series, altra forma intelligente e i novativa di seriale che, grazie all’esplosione
del seriale televisivo, possono magari trovare una loro strada popolare.
rale, comprimono ancor più gli spazi di mercato. L’attenuarsi degli
effetti del conflitto d’interessi, a causa della parabola politica discendente
di Berlusconi, ha (stranamente) colpito negativamente proprio la Rai, che di
questo conflitto ha subito
danni per decenni.
Eppure mai come adesso,
in un clima da pensiero unico,
ci sarebbe bisogno di un vero
servizio pubblico. Non si dovrebbe dimenticare che il servizio
pubblico è un fondamentale anticorpo per la democrazia. Se si
prendesse atto di questa realtà,
sarebbe più facile individuare la
corretta riforma della Rai. E si dovrebbe costruire il suo futuro migliorando l’esistente.
Usa · Amazon, Netflix, la nuova generazione
Quando la cronaca
è una cosa serial
Giulia D’Agnolo Vallan
I
l discorso di apertura di Next, un programma del Marché di Cannes sul futuro dell’industria dello spettacolo, quest’anno è stato
affidato al responsabile dei contenuti di Netflix, Ted Sarandos.
Non ci sono serie televisive nel programma del festival ma la scelta di
Sarandos non è casuale: non solo Netflix ha appena realizzato il primo lungometraggio di sua produzione (Beasts of No Nation, diretto
dal regista di True Detective Cary Joji Fukunaga), l’intera strategia con
cui la piattaforma streaming sta contribuendo a rivoluzionare la fruizione e la circolazione di entertainment ha veramente decollato quando Sarandos ha cominciato a puntare su contenuti originali; sotto forma di serie di altissima qualità come House of Cards o Orange Is the
New Black.
Si parla frequentemente di un’odierna Golden Age, un’età dell’oro
della tv americana. Era definita così anche un’altra fase particolarmente creativa della sua storia, tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei
’60 quando a un pool di grandi scrittori (Gore Vidal, Paddy Chayefsky, Rod Serling, Horton Foote…) e registi (Arhtur Penn, John
Frankehneimer, Sidney Lumet, Robert Altman..) fu concesso di portare autorialità e sperimentazione a un mezzo nato da poco e che aveva bisogno di definirsi. Come allora, anche questo è un momento di evoluzione e di grandissima creatività - analogamente a
Hbo e alle altre reti cavo a pagamento, piattaforme come Netflix, Amazon tv o Hulu, non basano le loro scelte sui rating e
non dipendono dagli inserzionisti. In alcuni casi (Amazon, il
più clamoroso) lo spettacolo è
una parte minima del loro business. Il loro unico modo per attirare
pubblico è la qualità del prodotto (che sta alzando anche quella dei
network). Affidando le sue serie tv ad autori come Whit Stillmann,
Garry Trudeau, David Gordon Green, Roman Coppola, Alex Gibney e
persino Woody Allen, le produzioni originali di Amazon si sono per
esempio allineate con l’immaginario e l’estetica del cinema indipendente Usa, assorbendone molti degli autori e attori, che si dicono entusiasti dell’esperienza. L’altro grande asset di questa seconda Golden Age è la diversificazione del prodotto: liberata dalla schiavitù di
dover pensare a un pubblico di massa, come quello che si raccoglieva di fronte ai salotti e alle cucine delle sitcom, le nuove serie sono un
mosaico infinito di realtà diverse, che spazia tra i generi, le sottoculture, l’immaginario, la politica e la storia. Quasi una proposta alternativa di «documentario» , un puzzle che si offre come specchio e funzione critica delle realtà che ci circonda e uno spaccato sociologico degli
States in cui trovano posto bellissime (re) visioni del passato, come
Mad Men, Sopranos, Masters of Sex, o Man(h)attan (sul making of della bomba atomica), feroci satire sulla politica (House of Cards, Scandal, Veep...) un’imitazione di Dallas ambientata in Medio Oriente
(Tyrant, su Fx), una ambientata sullo sfondo dell’attuale boom del petrolio in North Dakota (Boom, su Abc) e un’altra a Key West (Bloodline, su Netflix), sanguinosi drammi di confine (The Border, su Fx) e la
storia di un architetto californiano sui 60 che decide di cambiare sesso e la cui realtà famigliare include una figlia etero che diventa gay,
almeno un aborto, allucinogeni vari, battute caustiche che non risparmiano l’Olocausto e flash back in un campeggio comunità anni ’70
per uomini che amano vestirsi da donna (è Transparent, su Amazon
Tv e che ricorda America oggi di Altman).
Porosissime e pensate sulla base di tempi di produzione più raipidi, le nuove serie sono in continua dialettica con l’attualità. In tempi
strettissimi, hanno già (ri) messo in scena il razzismo della polizia (The Good Wife), la tortura (Madame Secretary, Homeland, 24...) e l’accordo con l’Iran (di nuovo Madame Secretary), le nefandezze di un gruppo di senatori repubblicani
(Alpha House) e una donna alla Casa bianca (Veep).
Spesso con più intelligenza, acume politico, rispetto
per il pubblico e complessità di un tg.
Digital relationship · Il servizio pubblico arranca dietro Mediaset e Sky
La tv si fa smart,
ma non la Rai
Francesco Siliato
L
a televisione è il medium che
più di altri ha utilizzato la digitalizzazione per moltiplicarsi.
Mantiene così la propria centralità
su informazione e intrattenimento,
tra segmentazione di offerta e nuove
forme di visione. L’intero comparto
è mutato e lo sono i modelli di business. Molte trasformazioni sono gia
avvenute e tante altre sono in corso
d’opera. Il settore vive una crisi solo
apparente: forte dinamico e in crescita, la crisi riguarda gli editori che
non hanno pensato ad innovare in
tempo, immaginando l’immutabilità o anche solo di poter ritardare
quel che non ritarda. Invece non si
sono mai viste tante immagini, anche televisive, e non vi è mai stata
tanta pubblicità come da quando la
rete diffonde video, con anche frammenti di televisione, e comunicati
commerciali affollano siti e motori
di ricerca.
Tra il 2008 e il 2015 la visione di televisione da televisore è cresciuta da
9,9 a 11,4 milioni, ma la popolazione
è cresciuta ancora di più, in realtà
quindi il consumo è diminuito. E’ diminuito anche il numero di chi la
guarda per un solo minuto (48 milioni di persone secondo Auditel). Ma è
aumentato il tempo dedicato alla tv
da chi vi dedica tempo. Telespettatori e telespettatrici trascorrono cinque ore e quarantadue minuti esposti a suoni e parole provenienti da
un televisore. Ci sono delle ore in
cui la presenza di pubblici è molto
aumentata. Nell’ultimo decennio
tra le 15 e le 18 l’aumento è di oltre
due milioni di individui. Di oltre due
milioni è l’aumento di persone sedute davanti a un televisore anche tra
le ventiquattro e l’una della notte.
Vi sono però donne e uomini che
hanno smesso di alimentarsi di tv,
sono oltre un 1,4 milioni tra chi ha
età compresa tra i 25 ed i 34 anni. Il
modo di informarsi e intrattenersi è
mutato, ed è cambiata anche la modalità. Tanto da sospettare che la
perdita di ascolto sia solo in parte reale. Tra applicazioni, visioni da Pc,
Smartphone, Tablets non si esclude
che brani e frammenti di tv siano recuperati da device diversi dal televisore. Ma il televisore è sempre più
grande, con una sempre più nitida
Da 7 a 197 reti nazionali,
molte trasformazioni sono
in corso. Rischiano
gli editori fermi
alla contemplazione di sé
definizione, collegato ad apparati
che ne consentono registrazioni immediate e visioni differite. E i televisori stessi sono connessi a Internet,
offrendo visioni molto più spettacolari anche delle stesse pagine dei propri social media preferiti, ed è probabile che le Smart tv verranno utilizzate per essere insieme primo e secondo schermo, quello della visione e
quello del commento sui social media, Twitter per l’immediatezza e Facebook per una maggior permanenza delle proprie parole alla vista di
amiche e amici.
Le Smart tv sono già presenti e
hanno un grande futuro, in questo
momento sono lo strumento con le
maggiori potenzialità di crescita. In
Italia negli ultimi mesi le persone
che seguono la programmazione te-
DALLA PRIMA
Roberto Zaccaria
Riforma, la mossa
tattica del governo
Sforamenti che un tempo erano praticati sistematicamente dalle emittenti tv (anche se per piccoli importi
giornalieri) con un vantaggio che su base annua era decisamente rilevante (diciamo diversi milioni di euro?). Le “tecniche” di controllo dell’Agcom sono state sempre assai poco incisive e questo ha causato un danno
obiettivo ai volumi di pubblicità dei mezzi
non televisivi. Questo avrebbe potuto essere
un intervento importante, ma sembra che
non interessi a nessuno.
Veniamo ora al merito del provvedimento
che interessa la Rai. Non mi pare proprio che
si possa definire una riforma. Esso è caratterizzato più da una visione retrospettiva che
da uno sguardo rivolto al futuro. L’unico accenno ad una ridefinizione dei principi, non
fosse altro che per adeguarli ai tempi che
cambiano, è contenuto in una delega dai
contenuti estremamente generici.
Il concetto di indipendenza che costituisce uno dei cardini dei servizi pubblici europei è del tutto assente e infatti la governance
è fondata su un accresciuto ruolo dei partiti
e del governo. Nessuna rappresentanza, neppure simbolica è attribuita al pluralismo sociale (valore costituzionale). Si potevano inventare vari modi per rappresentare quel pluralismo, che costituisce l’ingrediente fondamentale dei servizi pubblici e invece si è tornati alla solita rappresentanza politica, tra
l’altro senza nessuna mediazione, nessun filtro derivante dal possesso di requisiti adeguati di professionalità, senza nessun paletto
neppure per le incompatibilità. Un bel salto
all’indietro rispetto alle numerose proposte
che giacciono in parlamento. La stessa idea
di mantenere in vita, per di più indebolita,
quella stessa commissione parlamentare
che molti avevano detto di voler superare, ha
un sapore decisamente anacronistico.
I punti critici del ddl sono numerosi e già
levisiva da un televisore connesso a
Internet sono cresciute di oltre il
15% e superano i 3 milioni e mezzo.
La distrazione data dal possesso
di una tv connessa a Internet influisce sul consumo di televisione, chi
dispone di Smart tv segue la programmazione proposta dai canali televisivi per 3 ore e 45 minuti, due ore
in meno della media. Due ore di televisione in meno al giorno valgono il
25% del consumo di programmi televisivi, parte di questo 25% è dedicato al televisore ma non alla televisione. Su tempo e modalità di visione
influisce infatti l’età. L’età media della popolazione televisiva Smart è di
41 anni, contro i 53 del popolo della
tv e i 56 anni di età media delle reti
generaliste.
Le due condizioni, tempi e modi,
sono collegate, più si è giovani meno si guarda la televisione più si cercano alternative, e va bene anche il
televisore connesso. Nell’85% dei casi il televisore connesso a Internet è
collocato in soggiorno, stanza dove
del resto è collocata la maggioranza
dei tv set superiori ai 40 pollici. Collocazione che implica maggior libertà
di movimento, spazi più ampi per
collegamenti a consolle, Home video e videogiochi.
L’editore più seguito dagli smart
consumatori connessi è Mediaset, al
secondo posto non troviamo la Rai,
ma la piattaforma Sky. Preoccupa il ritardo del servizio pubblico. Un servizio pubblico che ha da rigenerarsi e ricostituirsi su basi sociali ed economiche, che deve agire non più pensando a reti separate ma a piattaforme
interconnesse, che deve progettare il
suo essere pubblico ridisegnando il
proprio ruolo e sforzandosi di ridurre
la distanza che lo separa dai cittadini
abbondantemente individuati. In luogo della nuova missione della Rai e del prolungamento della durata della concessione (in scadenza nel maggio del 2016) viene mantenuta
la prospettiva equivoca della privatizzazione
e il carattere provvisorio dell’intero quadro
normativo (v art.12 ter, aggiunto alla legge
Gasparri). Il governo della Rai rimane saldamente nelle mani dell’esecutivo e della «sua»
maggioranza. Nessun barlume di indipendenza (valore costituzionale). Il Cda ha un solido nucleo di almeno 4 persone gradite alla
maggioranza di governo. Il presidente sarà
espressione di questa stessa maggioranza e
l’amministratore delegato dovrà essere concordato (su «proposta») con l’Assemblea (pure essa espressione del governo). Vedo che
c’è grande curiosità (molti si lasciano suggestionare dai dettagli) intorno al tema delle revoche. Non mi pare che ci siano rilevanti novità rispetto al passato e al codice civile.
Aspetti di comicità si rintracciano nell’accenno alle 3 mensilità di buonuscita dell’Ad!
Piuttosto l’Ad è potentissimo, un vero padrone dell’azienda. A quanto mi risulta una
figura simile non esiste in nessuna parte
d’Europa! Tutti i poteri sono nelle sue mani e
nessuno oserà disturbare il manovratore. Anche quella timida autonomia concessa in precedenza ai direttori delle strutture editoriali,
viene azzerata. Sarà ben difficile controllarlo
da parte di un consiglio che non possiede le
carte e a maggior ragione dal parlamento.
Le decisioni più significative di questo intervento legislativo, oltre a questa sulla governance di dubbia costituzionalità, sono rinviate a due deleghe legislative. Mi riferisco al finanziamento e alla riscrittura del TU della radiotelevisione. Una totale assenza di criteri e
di quei concetti di indipendenza, di pluralismo, di certezza di risorse che si ritrovano
nella giurisprudenza costituzionale.
La conclusione mi sembra una soltanto: visto che non si voleva il decreto, la legge verrà
probabilmente abbandonata nei suoi contenuti più discussi. Il nuovo Cda verrà rinnovato con la Gasparri, che il metodo Monti ha
già sufficientemente «addomesticato» alle
esigenze dell’esecutivo, e per le altre decisioni fondamentali il governo manterrà la delega senza «principi e criteri direttivi». Cioè se
la suonerà e se la canterà! Se questo accadesse, avremmo un bel risultato. Non vi pare?
e recuperare la credibilità smarrita.
Dieci anni fa Auditel monitorava
sette reti nazionali, oggi 197, l’offerta televisiva si è moltiplicata, ma si
sono moltiplicate soprattutto le alternative alla televisione, che difende e mantiene il suo ruolo centrale,
ma fa sempre più fatica a recuperare risorse dal mercato pubblicitario. Che davvero il capitalismo di relazione sia finito, o si avvii alla fine,
DALLA PRIMA
Carlo Freccero
La rivoluzione on demand
che seppellisce i partiti
Parlare di riforma del servizio pubblico televisivo può avere due opposti
significati: stabilire la vocazione del
servizio pubblico, il suo attuale significato,
oppure, semplicemente, disciplinare l’occupazione da parte della politica nei confronti
della televisione pubblica. In questa ultima
direzione va la riforma di
Renzi, come se cambiare
leggermente chi nomina
chi, potesse fare la differenza. D’altronde è comprensibile che il dibattito si sia
arenato qui. La Rai nasce
come una delle componenti dello stato sociale europeo. La sua funzione era
pedagogica. Ed era di fatto
considerata un complemento della pubblica istruzione. Da tempo questa
funzione pedagogica è stata cancellata.
In epoca recente, con
un mio piano di riforma
Rai presentato provocatoriamente in occasione di
una mia autocandidatura
a presidente, io suggerivo
di sostituire la vecchia concezione pedagogica, basata sulla valorizzazione della tradizione culturale europea, con una nuova funzione pedagogica, incentrata non tanto sul capitale culturale, quanto sul capitale intellettuale. In breve: lavorare sull’intelligenza anziché sulla cultura.
E’ evidente che, in un ciclo di smantellamento dello stato sociale, difficilmente la tesi della funzione pedagogica della tv può tro-
lo si nota anche dall’enorme crescita costante delle
nuove forme di pianificazione pubblicitaria, che sotto
il nome cornice di Programmatic offre possibilità di pianificazione in tempo reale e all’asta. Con il
Real Time Bidding,
l’investitore pubblicitario sa chi sta
comprando,
sta
comprando persone interessate alla tipologia di prodotto
che lui vende. Non
compra testate o reti televisive, compra chi nelle proprie navigazioni ha
digitato le parole
chiave che lo legheranno a chi quei prodotti
vende. Il digitale significa fine, o quasi, delle intermediazioni relazionali, sono le
macchine che
comprano,
vendono
e collocano i comunicati commerciali, c’è
solo da esercitare un
click per Ok il prezzo è giusto. Con
queste metodiche le relazioni storiche del mondo della pubblicità potrebbero svanire, e comunque certo
verranno ridotte e lo sono già. Il
mondo dell’informazione e dell’intrattenimento digitale è già video, è
già programmatic, la televisione come sistema non corre molti rischi, i
rischi li corrono gli editori fermi alla
contemplazione di sé.
vare accoglienza. Ma allora bisogna considerare l’ipotesi opposta.
Se la tv non alza il suo pubblico, è il pubblico che abbassa l’audience e di conseguenza
il dibattito politico.
I partiti si preoccupano di occupare la televisione per ampliare il proprio elettorato.
Ma c’è un ritorno dialettico che nessuno
sembra considerare. L’audience è un fenomeno di livellamento verso il basso. Se questo livellamento avviene su un campione già
selezionato come basso, perché residuale rispetto al consumo televisivo attivo, l’audience che ne scaturirà sarà sempre più elementare, rozza, aggressiva e la Politica non può
non tenerne conto dato che dipende dai sondaggi. I politici cercano nella televisione una
vetrina per indottrinare il
pubblico. Ma, a sua volta, il pubblico della tv seleziona i politici in base a
fattori di telegenicità, gradimento, e, appunto, audience. E, in una rete generalista residuale questi
fattori saranno necessariamente tendenti al basso in una spirale discendente.
Prendiamo un fenomeno come Salvini che, in
un breve tempo e senza
alcun monopolio o controllo del mezzo televisivo, ha portato la Lega nei
sondaggi a percentuali
superiori a Forza Italia.
Salvini funziona in televisione perché fa appello
agli istinti peggiori: egoismo, vendetta, chiusura verso l’altro.
In una televisione non pedagogica sono
sempre i valori più bassi a prevalere ed
è la televisione che li impone alla politica, non viceversa.
Una televisione generalista residuale può essere il brodo di coltura degli istinti peggiori e rischia di
far involvere il dibattito politico.
GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015
il manifesto
INTERNAZIONALE
pagina 7
VATICANO · Concordato alla vigilia della visita di Abu Mazen. Reazione di Israele: «Delusione»
Chiesa e Palestina, primo accordo
Michele Giorgio
GERUSALEMME
L
a notizia dell’accordo tra il
Vaticano e lo Stato di Palestina, una breaking rilanciata in pochi secondi da tutte le
agenzie del mondo, è arrivata ieri
mentre Benyamin Netanyahu
constatava con soddisfazione il
voto favorevole della Knesset
all’allargamento del numero dei
ministri che faranno parte del
prossimo governo.
Il premier israeliano annuncerà in tempi stretti la lista dei ministri ma l’esecutivo che mette insieme il suo partito Likud, gli ultranazionalisti e partiti religiosi ortodossi, dovrà gestire un quadro
internazionale poco favorevole,
almeno in apparenza, alle politiche di Israele nei Territori palestinesi occupati.
Non sorprende perciò che,
all’annuncio della Santa Sede,
Israele abbia replicato manifestando la sua forte «delusione»
per una decisione che, a parere
del ministero degli esteri, non
contribuirebbe «a riportare i palestinesi al tavolo delle trattative».
Il premier
israeliano
annuncerà
in tempi stretti la
lista dei ministri
Una reazione attesa dal Vaticano
che ha fatto con attenzione, e determinazione, le sue mosse ed è
andato avanti fino alla realizzazione una intesa tanto ampia ed articolata che i palestinesi non possono vantare neppure con i «fratelli» arabi.
Non è stato l’unico colpo ricevuto dal primo ministro israeliano perché, sempre ieri, importanti esponenti europei membri dello «European Eminent Person
Group» - che include fra gli altri
due ex ministri degli esteri francesi, Hubert Vedrine e Roland Dumas, gli ex primo ministri francese Michel Rocard e irlandese
John Bruton, e lo spagnolo Javier
Solana, un ex segretario generale
della Nato - hanno inviato una lettera all’Alto rappresentante della
politica estera dell’Ue, Federica
Mogherini, attesa la prossima settimana in Israele e Territori occupati, che si dicono delusi per i risultati conseguiti dalla mediazione Usa ed invocano un approccio
più deciso da parte dell’Ue nel
conflitto israelo-palestinese. Netanyahu, scrivono, «ha poca intenzione di negoziare seriamente
la soluzione dei Due Stati nel contesto del governo che sta costituendo».
«L’Europa – si legge nella lettera - non ha ancora trovato un modo efficace per rendere Israele responsabile del modo in cui mantiene l’occupazione. È tempo di
dimostrare seriamente alle due
parti quanto l’opinione pubblica
europea consideri le violazioni
della legge internazionale, la perpetuazione di atrocità e la nega-
PAKISTAN
Attentato, 47
vittime a Karachi
I Talebani pakistani hanno rivendicato l’attacco
sferrato ieri contro un
bus a Karachi sul quale
viaggiavano 60 esponenti
della comunità degli
ismaeliti. Lo riferiscono i
media locali, mentre è
salito ad almeno 47 morti e 27 feriti il bilancio
dell’attentato. Secondo
la ricostruzione, otto uomini dei Tehrik-e-Taliban
a bordo di motociclette
hanno avvicinato il bus e
hanno aperto il fuoco in
modo indiscriminato.
BURUNDI · Per Nkurunziza i militari «giocano»
«Colpo di Stato», ma non
per il presidente destituito
il tentativo di destituzione dichiarandolo fallito.
regnare in queste ore in Bu«Lo consideriamo un gioco e
rundi è il caos istituzionale
non un colpo di Stato militare» è
dopo la destituzione del Prestato il commento del collaboratosidente uscente Pierre Nkurunzire presidenziale Willy Niyamitwe.
za, annunciata dal generale ed ex
L’azione dei militari arriva dopo
capo dei servizi segreti Godefroid
settimane di violente proteste conNiyombare. Mentre scriviamo,
tro la decisione di Nkurunziza di
non è ancora chiaro se si sia trattacandidarsi per il terzo mandato
NELLA FOTO IL PAPA E ABU MAZEN, A DESTRA SCENE DELLE PROTESTE IN BURUNDI, SOTTO OBAMA /LAPRESSE
to di un colpo di stato riuscito o soquinquennale alle presidenziali
zione di diritti acquisiti». «Nascon«molto elaborato e dettagliato»,
ha accolto con favore il risultato
lo tentato. La destidel prossimo giudersi dietro la leadership americaspiegano al Vaticano. Ci sono poi
della votazione, inquadrata nei
tuzione di Nkurungno. Candidatura
20 le persone
na» è allo stesso tempo «poco proaltri capitoli su diversi aspetti deltentativi di dare una soluzione deziza è stata annundel tutto contraria
duttivo e poco edificante», conclula vita e dell’attività della Chiesa
finitiva, con il sostegno della cociata alla stampa
alle disposizioni
uccise durante
dono i firmatari, secondo i quali
nei Territori palestinesi sotto ocmunità internazionale, alla quedal
generale
della Costituzione
anche crisi «apparentemente più
cupazione israeliana.
stione già affrontata con la risoluNiyombare in una le proteste di piazza e degli accordi di
urgenti» come quelle in Siria, YeSenza dubbio l’accordo costituzione 181 del 29 novembre 1947
caserma della capipace di Arusha che
e più di 50.000
men, Iraq e Libia possono essere
isce un chiaro riconoscimento da
dell’Assemblea generale delle Natale Bujumbura e
posero fine a una
quelle fuggite
«una scusa», dato che «il contesto
parte vaticana allo Stato di Palestizioni Unite, la quale prevedeva la
trasmesso dalla raguerra civile (duradella Palestina è di 47 anni di ocna, in continuità con quanto la
creazione di due Stati, di cui finodio privata Insagata 12 anni tra i ribelcupazione militare».
Santa Sede aveva affermato già il
ra uno solo ha visto la luce.
niro: «Il presidente è stato rimosso
li della maggioranza etnica Hutu e
Il testo dell’accordo globale ieri
29 novembre 2012, al momento
Il passo compiuto dal Vaticano
dal suo incarico, il governo è scioll’esercito allora guidato dai Tutsi)
a Roma ha un preambolo e un pridella risoluzione Onu che riconofa capire mons. Camilleri, rappreto. È istituito un comitato temporache ha fatto circa 300 mila vittime.
mo capitolo sui principi e le norsceva la Palestina quale Stato ossenta perciò un forte richiamo al
neo per il ripristino dell’armonia
Il generale Niyombare, che è stame fondamentali della collaboraservatore non membro delle Narispetto del diritto internazionale
nazionale la cui missione, tra le alto anche ex ambasciatore in Kenzione tra Vaticano e Palestina. Si
zioni Unite. «Lo stesso giorno - rie delle risoluzioni dell’Onu sulla
tre, sarà quella di ripristinare l’uniya, starebbe già in contatto con i
esprime l’auspicio per una solucordava ieri sull’Osservatore Roquestione palestinese. Papa Frantà nazionale e la ripresa del procesgruppi della società civile, leader
zione del conflitto tra israeliani e
mano mons. Antoine Camilleri,
cesco riceverà sabato prossimo il
so elettorale in un clima pacifico e
religiosi e politici per la formaziopalestinesi nell’ambito del princisottosegretario vaticano per i Rappresidente dell’Anp Abu Mazen
giusto».
ne di un governo di transizione. Anpio dei Due Stati e delle risoluzioporti con gli Stati - la Santa Sede,
che assisterà anche alla canonizDa Dar er Salaam in Tanzania che se a questo riguardo, contattani della comunità internazionale.
che ha anch’essa lo status di oszazione per la prima volta di due
dove era in corso un summit regioto da Jeune Afrique, Pacifique NiniSegue un secondo capitolo sulla
servatore presso l’Onu, ha pubblisuore palestinesi, nate nell’Ottonale sulla crisi in Burundi - il presinahazwe - uno dei leader della
libertà religiosa e di coscienza,
cato una dichiarazione. Questa
cento.
dente Nkurunziza ha condannato
campagna anti-terzo mandato di
Pierre Nkurunziza - ha dichiarato
che «la società civile in Burundi
non ha ancora preso una posizioFILIPPINE
IRAQ
USA
ne ufficiale» sulla destituzione annunciata del presidente uscente:
«È molto presto» ha spiegato il presidente del Forum pour la conscience et le développement (Focode).
Sarebbero le scarse condizioni di
Abu Alaa al Afri, presunto numero
Non è altresì chiaro chi abbia il
sicurezza le principali cause della
due dello Stato islamico (Isis), sarebcontrollo della situazione.
morte di oltre trenta persone, arse
be stato ucciso in un raid nel nord
Testimoni riportano l’emittente
vive a seguito di un incendio scopdell’Iraq, stando alle notizie lasciate
di Stato circondata dall’esercito; alpiato in una fabbrica di ciabatte
trapelare dallo stato iracheno. Al Afri
cuni soldati avrebbero tentato l’irJ. G.
infradito in uno slum della periferia
avrebbe dovuto assumere la guida
ruzione all’interno, mentre altri
di Manila, capitale delle Filippine.
dell’Isis in caso di morte o incapaciiente «fast track» per Obama e i trattati commerciali con Asia
avrebbero fatto resistenza. SporadiLo ha riferito la Bbc, aggiungendo
tà del «califfo» Abu Bakr al Baghdaed Europa (Tpp e Ttip). Il senato americano, con il determinanca la presenza della polizia, consiche il bilancio potrebbe ulteriormendi. Iracheno, originario di una localite voto democratico, ha negato al presidente la possibilità di
derata fedele al partito di Nkurunzite salire dato che vi sono almeno
tà a sud di Mosul, Abderrahman Muprocedere rapidamente alle negoziazioni, intimando uno stop clamoza. Sarebbero più di 20 le persone
altri 30 dispersi. L’incendio avrebbe
stafa, meglio noto come Abu Alaa al
roso. Emerge così in piena luce la clamorosa battaglia interna al partirimaste uccise durante le proteste
avuto come causa la la scintilla di
Afri, è un qaedista della generazione
to, come non si vedeva da tempo. Gli accordi del Tpp e del Ttip sono
di piazza scoppiate più di due settiuna saldatrice che sarebbe venuta
di Baghdadi. Attivi in Afghanistan
sottoposti a critiche tanto da parte dei democratici, quanto di parlamane fa e più di 50.000 quelle fuga contatto con prodotti chimici
dalla metà degli anni 90. è tornato
menti e società civili europei. I repubblicani, al contrario, chiedono
gite nei paesi limitrofi. Secondo i
all’ingresso della fabbrica. Gran parin Iraq nei primi anni 2000 per conche le trattative procedano spedite, specie quelle asiatiche che, non a
dati del ministero degli affari interte delle vittime - stando alle prime
trastare l’occupazione anglo-americacaso, terrebbero fuori
ni della Tanzania, 11.000 rifugiati
ricostruzioni - sono morte soffocate
na, Afri aveva aderito all’ala qaedista
dall’accordo commerciale
burundesi, tra cui più di 8.000 dondal fumo acre che si è sprigionato
irachena nel 2004, diventandone sei
proprio la Cina.
ne e bambini, si sarebbero riversadalla plastica usata per le infradito.
anni dopo uno dei leader locali più
Il risultato dell’opposite nella Tanzania occidentale sconAlcuni hanno mandato richieste di
in vista. Secondo gli analisti, Afri nezione, realizzatosi nella
volgendo la capacità delle organizaiuto via sms ai familiari prima di
gli ultimi mesi sembrava aver assungiornata di martedì, ieri
zazioni umanitarie locali e internamorire. Ci sono volute più di cinque
to un ruolo di primo piano anche graha avuto altre ricadute.
zionali.
ore per domare l’incendio.
zie al suo forte carisma.
Non pochi hanno sottoliSi consideri che la Tanzania, seneato il silenzio della futude di una delle più grandi popolara candidata alla presidenzioni di rifugiati in Africa, accoglie
za, Hillary Clinton. Impecentinaia di migliaia di burundesi
gnata a guadagnare terree congolesi e ha in programma di
no con l’elettorato che seconcedere la cittadinanza a
condo i sondaggi avrebbe
200.000 rifugiati del Burundi. Sepermesso la vittoria a Obama, ovvero quello «liberal» - la candidata decondo
l’Alto
Commissariato
mocratica sta provando a tenere un basso profilo, senza sbilanciarsi a
dell’Onu per i rifugiati (Unchr) la
sostegno del presidente e di un accordo il cui negoziato è stato da lei
crisi odierna si starebbe indirizzanstessa avviato ai tempi in cui era segretario di Stato. Anche perché quel
do verso uno «scenario peggiore»
target di riferimento, non sembra particolarmente ispirato dalla sua
che potrebbe portare a ben
candidatura.
300.000 le persone in fuga. Intanto,
Tanto più – come scrivono le agenzie di stampa - che nella faida inl’Unione Africana e i donatori occiterna tra presidente e democratici - ad aggiudicarsi il primo round è
dentali, compresi Usa e Ue hanno
stata proprio Elizabeth Warren, l’economista anti-Wall Street ora senacriticato la decisione di Nkurunzitrice del Massachussets che molti vorrebbero avversaria di Hillary nelza di correre per il terzo mandato
le primarie. La sintonia politica tra Obama e la sua ex consigliera ecopresidenziale mentre il Belgio, ex
nomica, ispiratrice della riforma di Wall Street che impone restrizioni
potenza coloniale in Burundi, e
alle banche e maggiori protezioni per i consumatori, appare in questi
l’Ue hanno già dichiarato di voler
giorni una cosa lontana. «Su molte cose io e lei siamo profondamente
sospendere parte degli aiuti a caud’accordo, ma su questa, però, i suoi argomenti non reggono», ha detsa delle recenti ondate di violenze.
to Obama in una recente intervista, affermando poi che la Warren «si
Da Pretoria, il Ministero degli Estesbaglia». Da parte sua, la democratica continua ad apparire in tv per acri del Sudafrica ha reso noto di mocusare il presidente di non aver permesso ai senatori di leggere la boznitorare la situazione in Burundi
za dell'accordo prima di votare: «ci chiede di votare per velocizzare un
da vicino, ma che è ancora troppo
accordo che è stato in gran parte già negoziato, ma rimane segreto»
presto per stabilire se si tratti o no
di un colpo di stato.
Rita Plantera
A
Brucia una fabbrica,
oltre trenta morti
Il numero due dell’Isis
Al-Afri «è stato ucciso»
Stop democratico al Tpp
vince «l’anti Wall Street»
N
pagina 8
il manifesto
GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015
CULTURE
SALONE DEL LIBRO
SAGGI · «Nello sciame» di Byung-Chul Han
La povertà
dell’homo digitalis
Marco Dotti
F
che hanno finito col convergere verso
una sorta di pentecostalismo digitale
fondato sulla promessa di liberare l’uomo dal sé isolato, producendo uno spirito capace di intonarsi con il simulacro dell’altro (in realtà: solo una diversa declinazione dell’ «uguale) in uno
spazio comune di risonanza (il web).
Ciò che si è prodotto, dopo i primi
decenni di net-entusiasmo, è però
nient’altro che uno sciame acefalo,
una folla di tipo orizzontale l’avrebbe
chiamata Gustave Le Bon, in balia di
un messianismo della connessione integrale sempre di là da venire eppure
capace, già qui e ora, di dispiegare i
suoi effetti nefasti. Assistiamo così
all’erosione dello spazio pubblico, inteso come luogo del noi – un’erosione
condotta però proprio in nome del
«noi». L’Uguale risplende in una società interamente deprivata del suo «negativo», dove non solo ogni forma di opposizione, ma anche ogni azione è preventivamente eliminata e sostituita da
un’informazione. Informarsi equivale
a esserci. Comunicare equivale a essere. Questo il teorema di una società dove ogni interstizio e ogni chiaro-scuro
viene bruciato in nome del nuovo idolo: la trasparenza.
orse dovremmo tornare a servirci di una vecchia parola, da troppo tempo dismessa dalla cassetta degli attrezzi: alienazione. Marx parla per la prima volta di alienazione (Entfremdung) nella sua tesi di laurea.
Una tesi dedicata – come si sa - alle Differenze fra la filosofia della natura di
Democrito e quella di Epicuro. Qui, discutendo di atomismo, Marx nota come persino nell’atomo, nell’apparentemente unico e indiviso, vi sia contraddizione, ossia un movimento che scinde, divide.
A essere separati, in questa visione
delle cose e del mondo, sono esistenza
e essenza. La prima, alienata dalla seconda. Ecco perché nell’alienazione come avrebbe detto Adorno - «la vita
non vive». Sperimenta, ma non vive.
Non vive e non imprime quelle tracce
d’esperienza che siamo soliti chiamare
«il vissuto».
In tedesco, due parole indicano le
forme dell’ «esperienza»: Erlebnissen e
Erfahrungen. Con la prima, siamo nel
campo dell’episodico, di ciò che non si
concatena. Con la seconda forma di
esperienza, Erfahrungen, siamo nel
campo di ciò che lascia tracce, segni,
In nome della prestazione
porta a mutamenti, eppure marca
un’unità. Il fatto che, come scriveva
Domina, in questa società, la forma
Walter Benjamin, noi si sia entrati in
del «soggetto di prestazione». Un sogun’epoca ricca di esperienze episodigetto avvinto in pratiche di auto-ottiche e povera di Erfahrungen, è un dato
mizzazione dello sfruttamento di sé anautoevidente. Per ogni episodio, per
che quando non lavora, anche quando
ogni frammento esperienziale del prigioca, anche quando crea, anche quanmo tipo, cerchiamo marcatori esterni.
do si sente immerso in un flow che
Ma il «fuori» è precisamente ciò che ci
chiama «libertà». Ecco perché il soggetsfugge: il mondo, afferma Byung-Chul
to di cui parla Byung-Chul Han tutto è
Han, è diventato additivo, non narratifuorché un homo ludens. Assomiglia
vo. Sovrapponiamo frammento a frampiuttosto a quel homo festivus di cui
mento, sperando di «fare spessore».
parlava Philippe Muray: vivendo il carDalle vecchie fotografie e dai vecchi cinevale ogni giorno, finisce per sovvertimeli di viaggio, che ancora tentavano
re la sovversione, per lottare contro la
di «raccontare», siamo passati al marlotta e per resistere contro ogni resicatore instagram, al «mi piace», al «sostenza. Non sbatte i pugni sul tavolo,
no qui», alle mappe che si ridefinisconon agisce: gioca con le dita su una tano infinitamente perché infinitamente
stiera. Il reincanto del mondo passa
mobili e auto-organizzantisi attorno al
dal suo stordimento.
«puntino» che ci rappresenta su uno
La parola «digitale», ci ricorda non a
schermo. Alla messa in
caso Byung-Chul Han,
scena, con le funzioni
rimanda al digitus, al
Un’appassionata
«periscope» e le telecadito che conta. L’homo
analisi critica
mere connesse ventidigitalis conta, calcola,
quattro ore su venti- della comunicazione misura. Anche quando
quattro che verranno,
non lavora, anche
su Internet
si unisce il retro scena.
quando «crea» il suo
e delle nuove forme mondo è segnato dal
Povertà
calcolo e dalla prestadi alienazione
dell’esperienza
zione.
Passo dopo passo, ma dentro e fuori il web
L’homo digitalis non
sempre col passo del
gioca, non crea, tanto
gambero, l’alienazione dal mondo dimeno agisce. L’atrofia della mano per
venta, come Marx ci ha insegnato, alieeccesso di non lavoro porta a un’artronazione del mondo. Inutile negare che
si digitale delle dita, rendendo impossila potenza con cui questa doppia elica
bile al soggetto ogni esperienza, anche
alienante si torce ha subito e subisce
l’esperienza della sottrazione fondaun’accelerazione sempre più radicale.
mentale che lo riguarda.
Sull’assoluta povertà di esperienza (ErPiaccia o meno il tono quasi profetifahrungen), sulla simmetrica proliferaco di Byung-Chul Han, la sua diagnosi
zione di frammenti esperienziali e sulè spietata ma improntata al realismo:
la sovraesposizione pornografica del
dal digitale non è nata alcuna resistensé nella nostra postmodernità digitale
za materiale che si possa superare per
ha molto insistito Byung-Chul Han, fimezzo del lavoro. Al contrario, il lavolosofo tedesco di origine coreana, che
ro si è avvicinato – questo sì – al gioco,
sulla coda lunga della Scuola di Francoma nella sua dimensione digitale non
forte si è fatto conoscere anche dai letha dato vita ad alcun tempo dell’ozio.
tori italiani, grazie ai tre volumi editi
L’antropologia idealizzata della classe
da Nottetempo, La società della stancreativa avrebbe prodotto quindi solo
chezza, Eros in agonia e La società dell’ennesima alienazione. Anche la biola trasparenza oltre a un interessante
politica, nella visione di Byung-Chul
ebook edito da goWare pochi mesi fa:
Han, ha fatto il suo corso.
Razionalità digitale. La fine dell’agire
La società digitale è oramai postmorcomunicativo.
tale, postnatale, post-politica, ma anA questi lavori, si affianca ora Nello
che
post-panottica
–
avverte
sciame. Visioni del digitale (traduzione
Byung-Chul Han. Solo se gli atomi si
di Federica Buongionro, pp. 105, euro
connettono l’un l’altro, in una rete che
12) che in qualche modo li integra e ne
li isola nel momento stesso in cui li avviene integrato. Al cuore della riflessiovince questo sistema può reggere. I big
ne di Byung-Chul Han c’è una critica,
data, il data mining, la possibilità di
molto chiara e evidente, a una visione
controllare lo sciame partendo dalla
dell’uomo immerso e alienato in uno
previsione affettiva, emotiva, impulsipseudo ambiente digitale. È quella che
va dei suoi movimenti sembra aprire
l’autore chiama «antropologia idealizle porte a un tempo segnato da qualcozata dello sciame creativo». Un’antrosa che potremmo chiamare «psicopolipologia che si è declinata in forme di
tica digitale». Uscirne è la questione
spiritualismo, più o meno manifeste,
cruciale.
Il click che fa mov
Benedetto Vecchi
I
l Muro di Berlino è caduto
da pochi mesi e oltre le macerie del socialismo reale
ha lasciato sul campo i manuali di strategia militare usati tanto ad Est che ad ovest del vecchio continente. La pianificazione su come organizzare gli
eserciti della Nato o del Patto
di Varsavia sono ormai carta
straccia. In Cina qualche eccentrico generale comincia a definire nuove strategie per un
mondo unipolare dove Pechino punta a diventare una nuova superpotenza economica e
militare. Per questo, l’esercito
popolare deve riorganizzarsi,
partendo da una situazione di
svantaggio tecnologico, ma
con una carta vincente che gli
Stati Uniti non hanno: la conoscenza del territorio e un saldo
legame con la realtà sociale. Pechino immagina scenari di resistenza a una possibile invasione nemica, ma la teoria della
«guerra simmetrica» è, nel tempo, diventata una sorta di bibbia per gli eserciti regolari del
ventunesimo secolo.
I robot in azione
Dall’altra parte del Pacifico, gli
Stati Uniti hanno un problema
da risolvere: gestire una politica imperiale che prevede la
possibilità di spostare in tempi
rapidi le truppe ai quattro angoli del pianeta. L’esercito è visto come una forza di intervento poliziesco anche per fronteggiare insurrezioni popolari. Ed
è in questa cornice che i think
tank legati al Pentagono cominciano a sfornare studi su
come
organizzare
unità
dell’esercito a stelle e strisce
per assolvere funzioni sia militari che di polizia. Il testo, che
farà scuola, della organizzazione non governativa e conserva-
trice Rand Corporation analizza a fondo non tanto come debba essere organizzato un esercito, ma come si muovono i «movimenti insurrezionali».
Con straordinaria capacità
analitica, la Rand Corporation
parla dei movimenti sociali «insorgenti» come «sciami» che si
formano, colpiscono per poi
dissolversi. Il testo, reperibile
in rete (www.rand.org/pub s / d o c u m e n t e d _ b r i e f i ngs/DB311.html) e firmato da
John Arquilla e David Ronfeldt,
anche se datato è ancora illuminante per la la chiarezza
nell’esporre il punto di vista
dell’esercito statunitense come
forza di polizia internazionale,
ma anche per la capacità di rappresentare il conflitto sociale
nelle società contemporanee: i
movimenti sociali sono caotici,
eterogenei, senza una organizzazione centrale di coordinamento, ma quando agiscono
appaiono come uno sciame, dove ogni partecipante si muove
come se tutto sia stato attentamente organizzato.
Nello stesso arco di tempo, fisici, matematici, filosofi e programmatori di computer sono
alle prese con gli sconfortanti
fallimenti dei progetti di intelligenza artificiale. Le speranze
di costruire una macchina
«pensante» sono, allora, archiviate come un sogno troppo
bello per essere vero. Qualcuno, però, tira fuori un esperimento di Alan Turing – ma alcuni storici della scienza dicono che è da attribuire ad altri –
in base al quale se un umano
«dialoga» con una macchina
che fornisce risposte dotate di
senso, sarebbe legittimo parlare di intelligenza. Se prendiamo un numero più o meno
esteso di macchine informatiche o di robot che «comunicano» possono produrre com-
Dalle strategie militari
all’intelligenza artificiale,
all’analisi della realtà
contemporanea. La fortuna
accademica dello «sciame»
portamenti che a un osservatore esterno appaiono «intelligenti». I soliti informati qualificherebbero i ricercatori che organizzano in questa maniera
il software, la comunicazione
e le modalità di reazioni di
macchine informatiche o robot come «connessionisti»;
Più prosaicamente qualcuno
a cominciato a parlare di «sciami intelligenti».
Stucchevole naturalismo
La convergenza tra strateghi
militare e ricercatori di computer science nell’uso del termine sciame non deve meravigliare. Il mondo animale è stato infatti spesso usato per parlare
del funzionamento della società o della politica – La favola
delle api di Bernard de Mandeville o il Leviatano di Thomas
Hobbes -, anche per ratificare
il fatto che anche gli umani sono una specie animale, seppur
particolare. Gli sciami costituiscono, se osservati dall’esterno, una forma di sofisticata e
precisa organizzazione, dove
ogni componente svolge
un’azione sincronizzata a quelle dei suoi simili. Ciò che è
amorfo, annotavano gli studiosi della Rand Corporation, appare invece come una perfetta
organizzazione. Lo sciame può
dunque essere presentato come una forma di organizzazio-
ne finalizzata a uno scopo che
può essere sciolta ogni volta
che l’obiettivo è stato raggiunto. Una prospettiva analitica
che pecca di «naturalismo» e
che nulla spiega del come lo
sciame si forma e di come viene definito l’obiettivo. In altri
termini è una rappresentazione che funziona come una fotografia, o un video che ha bisogno di una distanza ed esternità da quanto accade. Eppure lo sciame è usato per spiegare le modalità della comunicazione in Rete, per descrivere le
azioni dei movimenti sociali
dentro uno spazio definito –
quasi sempre una metropoli -,
quasi riuscisse a cogliere un
nucleo di realtà altrimenti inafferrabile.
Lo stile povero del web
Il filosofo tedesco di origini coreane Han Byung-Chul utilizza
lo sciame per descrivere le modalità della comunicazione nella Rete, assegnando ai social
media e ai social network la responsabilità di una comunicazione povera dovuta ai «format» imposti agli utenti, sia a
causa della limitazione fisiche
– con Twitter non si possono
usare più di 140 caratteri – che
allo spirito gregario che favoriscono (i Like di Facebook). Sugli esempi di alienazione, impoverimento e conformismo
GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015
il manifesto
CULTURE
LA NEGAZIONE
Si intitola «La negazione» il pamphlet-manifesto di Flore
Murard-Yovanovitch, scrittrice, blogger e giornalista freelance nata
in Francia, che verrà presentato venerdì 15 maggio alle 21 alla
Libreria Comunardi (via G. B. Bogino, 2b) a Torino dal frontman
degli Africa Unite, Bunna. «È in corso una rivoluzione migrante scrivono da Stampa alternativa che distribuisce il titolo . Non meri
’sbarchi’” ma una possibilità di trasformazione. Non dialettizzare
con questo nuovo soggetto storico migrante, negargli
l’uguaglianza, detenerlo, farlo sopravvivere ai margini o lasciarlo
pagina 9
morire nel Mediterraneo, palesa la cieca psicopatologia
dell’Europa. La negazione anti-migrante rischia di aver un esito
politico regressivo per il progetto europeo: il fascismo della
frontiera. Il Manifesto «La Negazione» vuole rendere pubblica la
verità»
NARRATIVA · «La scomparsa di Philip S.» di Ulrike Edschmid per e/o
La riscoperta di un’epoca passata
dove le scelte erano estreme
post-belliche a partire dalla vita di
una donna. Gli amanti della madre
servono quindi a Ulrike per nominare momenti di passaggio necessari e di trasformazione. Nella stessa ansia di conoscere è da leggersi
il lungo epistolario Wir wollen nicht mehr darüber reden (Luchterhand, 1999) tra Erna Pinner e Kasimir Edschmid.
Alessandra Pigliaru
C
TORRE UMANA A TARRAGONA
imento
che l’autore propone non c’è
molto da obiettare. È esperienza diffusa che tanto più è veloce lo scambio di informazione,
più è facile deviare da quanto
stabilisce la maggioranza.
Nella riflessione di Han
Byung-Chul lo sciame perde
dunque i caratteri perturbanti
messi in evidenza dalla Rand
Corporation e dai «connessionisti» per assumere il profilo di
un forma di azione sociale e comunicativa omologata allo spirito dominante nella società.
Lo sciame digitale divine folla
e a farle da padrone sono quei
sentimenti, modalità di relazione gregaria che escludono
ogni possibilità di trasformare
l’esistente.
La fusione oscurata
La realtà è tuttavia più contraddittoria, ambivalente di quella
definita dal filosofo coreano.
Certo, l’azione di bullshit (la denigrazione attraverso l’insulto
gratuito e violento, il bullismo
in Rete) assume proporzioni
difficilmente controllabili da
qualsiasi «moderatore» o censore della comunicazione on line, ma il mail bombing è anche una forma di protesta contro il comportamento di una
impresa nei confronti dei lavoratori, o della polizia o di una
istituzione statale. Ciò che appare
povero
a
Han
Byung-Chul è, in questo caso,
denso della ricchezza delle relazioni sociale nella definizione
dell’obiettivo da raggiungere.
La categoria dello sciame
perde quindi la sua capacità
analitica nel descrivere comportamenti sociali. In altri termini, funziona solo come una
fotografia scattata dall’esterno.
Più che il movimento definisce
la staticità di una situazione. E
nulla dice delle dinamiche
all’interno dello sciame-movi-
mento e tra questo e il contesto sociale «esterno». In altri
termini, nulla dice dei processi
di formazione delle soggettività, delle procedure attraverso
le quali vengono prese le decisioni sulla modifica dei comportamenti dello sciame in
azione.
Lo sciame, anche quello assunto dal filosofo coreano, riduce l’azione e i conflitti sociali a fenomeni etologici che cancellano quella consumata fusione tra natura e cultura che
caratterizza lo stare in società e
nel mondo. Il saggio di Han
Byung-Chul è tuttavia rilevante per comprendere il legame
tra comunicazione e movimenti sociali, anche se in forma diversa da quanto prospettato
nel saggio Nello sciame. La condivisione di un progetto e di
un obiettivo segue logiche che
possono essere ricostruire sempre a posteriori. Per comprendere il perché si forma uno sciame – che è immagine potente
nella sua rappresentazione –
occorre seguire altri sentieri,
confrontarsi con la costituzione materiale che precede e talvolta viene modificata dallo
sciame.
Oltre i legami deboli
Il nodo da sciogliere è quella
semplicità difficile a farsi che è
l’elaborazione di un Politico
adeguato all’eclissi dei processi di formazione delle identità
collettive del passato. Ma per
questo non servono scorciatoie. Neppure quelle di mimetizzarsi per rendersi visibili e tornare anonimi e dunque invisibili nel momento in cui svaniscono i legami «deboli» dello
sciame. Come insegna la giornata del primo maggio a Milano, esempio di uno sciame autocompiaciuto della sua rappresentazione ipermediatica.
osa spinge a raccontare dopo quarant’anni la vita di
una persona con cui si è trascorso del tempo, avendo per giunta pochissimi dati a disposizione e
una cronaca assai controversa con
cui misurarsi? È un desiderio di
riappropriarsi di parti di sé o piuttosto un tarlo della mente che non
vuole proprio abbandonare la dimora?
La scomparsa di Philip S. (e/o,
pp. 160, euro 16 – traduzione a cura di Monica Pesetti) è il primo libro di Ulrike Edschmid a essere tradotto in italiano e l’ultimo pubblicato dalla scrittrice tedesca. Quando in Germania esce Der Verschwinden
des
Philip
S.
(Suhrkamp, 2013) lei ha 73 anni e
ha all’attivo alcuni volumi, tutti
complessi perché si intrecciano
con una storia politica e sociale
che è quella tra la fine degli anni
Sessanta e gli anni Settanta.
La vicenda è raccontata già dal titolo, in luogo della scomparsa di
un tale Philip S. che la scrittrice ha
conosciuto e amato. Alla storia della relazione tra Ulrike Edschmid e
Philip Werner Sauber, svizzero di
buona famiglia che arriva a Berlino
ventenne nel 1967 per frequentare
l’Accademia del cinema, fanno da
sfondo gli anni delle rivolte studentesche, dell’antagonismo e della
lotta armata.
Realtà e omissioni
Ulrike, ventisettenne e con un figlio piccolo, incontra Philip S. proprio all’Accademia, per caso la aiuta a fare un trasloco e poi resta a vivere con lei. Sono anni di conflitti
sociali durissimi che Edschmid
non racconta con l’algidità della
cronaca dei giornali ma di chi ha
vissuto dall’interno le radicalizzazioni studentesche fino alla decisione di non sottrarsi allo scontro. È il
mutamento del tragitto politico di
La sofferta e avvincente
vita di una generazione
tedesca ribelle.
Il libro sarà presentato
al Salone del libro
Philip S. dentro il Movimento 2 giugno, la latitanza e la morte dopo
una sparatoria in un parcheggio di
Colonia il 9 maggio del 1975. Aveva ventotto anni. Proprio su questa
che Edschmid descrive come una
«morte pubblica», come pubblica
seppure con ben altra risonanza è
stata quella dello studente Benno
Ohnesorg in quel 2 giugno del
1967, si apre il romanzo autobiografico in cui ben poche sono le invenzioni per chi conosce lo stato
delle cose, anche rispetto a una ricostruzione storica che nonostante alcune omissioni si può ricondurre agli eventi accaduti in quegli
anni e non solo in Germania.
Alla scrittrice non sembra interessi riabilitare qualche memoria
soggettiva, compresa la propria, né
tantomeno restituire un’immagine
falsata della crudeltà dolorosa e
spesso vissuta, anche da lei in prima persona. Allora cosa le interessa? Difficile stabilirlo una volta per
tutte. Il ritorno di questo fantasma
che sostanzialmente è Philip S. raramente acquisisce un corpo e per
questo lo si può da subito immaginare come chi ha scelto la clandestinità molto prima di abbracciarla
deliberatamente. Del resto anche
l’insistenza di nominarlo Philip S.
dà la misura di quanto sia sorvegliata la narrazione di Edschmid
che non ha avuto certo intenzione
Il nemico assoluto
di cedere a romanticismi né a sentimenti, nonostante i due abbiano
condiviso tutto per quattro anni.
Le scelte culturali, politiche e di posizionamento, dapprima la scommessa del cinema e della fotografia come modo di registrare fedelmente la realtà, farne qualcosa
all’altezza della politica. Poi le prime riunioni, la scoperta di un nuovo lessico, l’asilo anti-autoritario
secondo il modello di Sommerhill.
L’ingiustizia di un mondo che stava andando in pezzi, e poi qualcosa che sfugge dalle maglie e non
viene mai detto per intero.
Due anni fa, in un’intervista radiofonica rilasciata a Liane von Billerbeck, alla domanda su cosa le
sia rimasto di un’esperienza simile, Edschmid risponde di aver mantenuto «un certo anarchismo» e
che vive provando a essere consapevole ma in un «fuorigioco critico». C’è da considerare l’ipotesi
che lei sia stata sempre da un’altra
parte e che questo libro sia il modo
per esplicitare la libertà di uno
smarrimento essenziale, anche davanti a chi preferirebbe un posizionamento più netto. Proprio per
questo degli altri suoi libri, per il
momento solo in lingua tedesca,
sarebbe utile conoscerne almeno i
tratti salienti per inquadrarla in ciò
che è la sua storia biografica e letteraria. Per esempio Diesseits des
Schreibtischs. Lebensgeschichten
von Frauen schreibender Männer
(Luchterhand) che rappresenta alcune conversazioni con sette donne (Pia Kipphardt, Anna Ditzen, Hildegard e Renate Bronnen, Liselotte Zoff, Katharina Leithäuser e Irene Kreuder) dove al racconto biografico si intrecciano alcune discussioni e analisi politiche tra donne.
Oppure le due storie femminili di
Verletzte Grenzen. Zwei Frauen,
zwei Lebensgeschichten (Luchterhand, 1992) o Die Liebhaber meiner Mutter (Insel, 2006) in cui attraverso la ricostruzione della vita
amorosa della propria madre riconosce le tappe dell’infanzia e delle
fisionomie politiche e sociali
Tra il 1971 e il 1972, e in particolare
nel periodo trascorso in carcere,
qualcosa cambia, un’incompatibilità che non è più valicabile tra lei e
chi le sta accanto: «Lui adesso traccia una linea netta tra sé e quelli
che considera suoi nemici. Io non
riesco a vivere nell’ostilità, benché
siano molte le cose che percepisco
come ostili. Lui ha giurato di non
farsi più mettere dentro. Io ho giurato di non farmi più mettere dentro per qualcosa di cui non sono responsabile. Lui è convinto di poter
sfuggire alla prigione solo diventando qualcun altro. Io sono convinta
che posso resistere solo restando
me stessa. Lui è uscito per andarsene. Io sono tornata alla mia vita».
All’orlo dell’impossibilità Ulrike Edschmid interroga una distanza, cerca di capacitarsi dell’ineluttabilità,
e infatti ammette: «non c’era nulla
che avrei potuto mettere sul piatto
della bilancia se non l’incredibile
varietà dell’esistenza e la convinzione che possa esistere una vita
giusta in un mondo sbagliato».
Alla fine della lettura il senso di
interrogazione dell’autrice si somma al breve lucore di una scomparsa, che in mezzo a tanto buio e a
molte domande brilla unicamente
in quel vialetto frontale alla finestra da cui proprio Ulrike guarda
l’allontanarsi di una figura. È un ragazzo ora di spalle, nella forma di
un congedo. Non ha mai desiderato fare ritorno, forse lo si può davvero lasciare andare.
NOIR · «L’intransigenza» di Paolo Calabò per Prato editore
La soave lievità del «male radicale»
Riccardo Mazzeo
E
siste un annoso dibattito rispetto alla possibilità e
all’opportunità di trasmettere contenuti filosofici o politici o
sociologici attraverso il genere letterario più amato e diffuso, il romanzo. Il romanzo, come ricorda
Zygmunt Bauman ne La scienza
della libertà, è l’architrave
dell’esperienza soggettiva di cui
ha un disperato bisogno l’esperienza oggettiva per non lasciare
fuori dalla scena lo spazio incandescente che alberga in ciascuno
di noi e che sarebbe dissennato oltreché ingiusto estromettere dalle
narrazioni. Poi, va da sé, le grandi
narrazioni riescono a gettare luce
non solo sulle sensazioni, le emozioni e le vicende private descritte
nei romanzi ma, facendo leva sul
fatto il più delle volte oscurato
che i problemi delle singole persone gravano su una moltitudine di
altre persone, che si tratta di problemi condivisi, in un romanzo sarà possibile ritrovare non solo lo
specchio incarnato di se stessi ma
anche le iatture, le delizie o le trasformazioni del mondo che ci circonda.
Si pensi ai Buddenbrook: la frattura che racconta il romanzo di
Thomas Mann, l’implosione del
mondo che Lacan definirebbe
«del padrone» (un padrone mani-
festo anzi ostentato, da Etica nicomachea aristotelica, che avrebbe
in seguito assunto nuove vesti e
nuovi mascheramenti), sarebbe
impensabile oggigiorno, eppure
quando venne scritto valeva per
la comprensione umana più di
cento trattati. O a L’uomo senza
qualità, in cui il “matematico” Robert Musil dimostra in duemila
pagine l’inanità di qualunque sforzo, foss’anche da parte di un genio come lui, di descrivere oggettivamente i sentimenti, persino dei
due gemelli Ulrich e Agathe che
tentano il triplo salto mortale della uno-duità nel secondo volume:
niente da fare, l’opera resta incompiuta come la loro unione e il
messaggio è che la scienza e la tecnica sono destinate ad arenarsi di
fronte all’insondabile ambivalenza umana creatrice e insieme distruttrice.
Sono questi gli aspetti del romanzo che emergono nel noir di
Paolo Calabrò L’intransigenza
(Prato editore, pp. 208, euro 10)
sebbene il brio e l’umorismo che
lo percorrono dall’inizio alla fine
siano agli antipodi della pesantezza quasi consustanziale alla filosofia: la narrazione è lieve e dolce come una gita in barca a vela in una
bella giornata di maggio, eppure
dopo essersi affezionati all’io narrante Nico Baselice, vigile casertano laureato in psicologia, e al deu-
teragonista Maurizio Auriemma,
arrivato non si sa perché da Napoli, che veglia solo di notte e lo coadiuva nell’indagine che obtorto
collo si trovano a dover effettuare,
si arriva alla fine e si è costretti a
fare i conti con il «Dio perverso»
di Maurice Bellet a cui l’autore,
poliedrico laureato in informatica
e in filosofia, ha dedicato uno dei
suoi saggi.
La «intransigenza» del titolo è
uno dei frutti avvelenati del «radicale stravolgimento della figura di
Dio sviluppatosi nei secoli
dell’esperienza cristiana». Dio,
all’inizio padre benefico, «diventa
un Dio sadico e crudele che condanna il piacere dell’uomo e ne
apprezza la mortificazione» e può
richiedergli il compimento di azioni criminali come le «guerre giuste» e «la tolleranza della pena di
morte e della tortura».
Nel corso della soavità del romanzo vengono alla luce azioni
perverse che mai ci si sarebbe
aspettato da personaggi incasellati in ruoli virtuosi, e in effetti se «i
seguaci del Dio perverso possono
essere i peggiori criminali» e la serie a cui dà inizio questo titolo si
chiama «I gialli del Dio perverso»,
credo che ne vedremo (ne leggeremo) delle belle.
L’autore presenterà la sua opera al
Salone del Libro di Torino il 15 maggio alle 17,30 nella Sala Avorio.
pagina 10
il manifesto
Cannes
Cristina Piccino
CANNES
N
ell’ultima inquadratura Malony, il protagonista, si lascia
alle spalle (forse) per sempre
il palazzo di giustizia che è stato la
sua vera casa, e una vita che in appena sedici anni si è già affollata di file
giudiziari, processi, tribunali, giudici
e avvocati. Non è andato a scuola, sa
scrivere appena, le sue esplosioni furiose di sentimenti negati lo hanno
sempre mandato fuori controllo.Ma
ora è accaduto qualcosa di importante, come una Madonna Malony avanza sulla «retta via» stringendo tra le
braccia un neonato, suo figlio, quella
responsabilità di padre, genitore che
all’improvviso cancella la sua violenza, i furti, la passione insana per le automobili che ruba e lancia a velocità
massima.
La colpa del destino di Malony è come sempre e come per tutti sua madre, puttana e tossica la sua (Sara Forestier) molto «alla» Ellroy, che a sei anni
lo ha buttato in una casa famiglia dandogli un pizzicotto sul naso perché
non sopportava la sua vivacità distruttiva. E poi ha sempre mischiato amore, bisogno, egoismo, rifiuto inseguendo i suoi uomini per i quali quei figli ne ha anche uno più piccolino - sono
un peso da scrollarsi di dosso secondo
le necessità. Per fortuna c’era il giudice
minorile, Catherine Deneuve molto
dentro la parte, che ha fatto da madre
a Malony, lo ha visto crescere, lo ha seguito, messo di fronte alle sue scelte,
dentro e fuori dagli istituti per minorenni per insegnargli a placare le esplosioni di rabbia, il furore cieco.
Poi c’è quella ragazza, è la figlia di
una delle educatrici della casa di pena
per minori, ha la stessa sua rabbia, anche lei contro sua madre, box e capelli
cortissimi da ragazzo, ma quando lo
bacia è con tenerezza. Fanno l’amore
e lei rimane incinta, il 23 dicembre, Gesù redentore di una vita predestinata
allo sfascio, la serenità che a Malony fa
sconfiggere i fantasmi.
Per inaugurare l’edizione 68 del Festival di Cannes Thierry Frémeaux ha
scelto un film francese di realtà sociale, periferia e adolescenze critiche
contro le paillettes degli anni passati,
LA GIURIA
Guillermo Del Toro:
«Non emettiamo sentenze»
Consueto photo-call per la giuria della sessantottesima edizione - guidata dai fratelli
Joel e Ethan Coen - e qualche battuta dei
giurati, come il regista messicano Guillermo del Toro che ha assicurato: «La nostra
missione come giurati è quella di «dare
delle linee guida, non tanto di emettere
sentenze». «Non siamo qui per dire chi è
buono e chi è cattivo», ha sottolineato. Del
Toro fa parte della giuria internazionale
che il 24 maggio deciderà quale, tra i 19
film in concorso, merita la Palma d’Oro, e
ha partecipato al concorso del festival francese nel 2006 con uno dei suoi lavori più
acclamati da pubblico e critica, «Il labirinto del fauno». Ha aggiunto poi come Cannes ha cambiato la sua vita, con la vittoria
della Seimane de la Critique con il film
«Cronos». «Prendiamo molto seriamente ha aggiunto - il nostro ruolo di giurati. Perché chi accetta di competere merita di essere preso sul serio». Nei prossimi dieci
giorni, Del Toro, ha detto di aspettarsi di
«apprendere ed arricchirsi sull’arte cinematografica». Accanto al regista messicano,
in giuria troviamo gli attori Jake Gyllenhaal
(Usa), Sienna Miller (Uk), Rossy de Palma
(Spagna) e Sophie Marceau (Francia), la
musicista Rokia Traore (Mali), l’attore e
regista Xavier Dolan (Canada).
GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015
VISIONI
68
• Adolescenza tormentata in «La Téte Haute», deludente apertura
fuori concorso di Emmanuelle Bercot con la diva Catherine Deneuve
Film che celebra
il sentimento
reazionario della
Francia post
Hebdo, quella
delle unità
nazionali e della
compattezza
morale
DUE SCENE DA
«LE TETE
HAUTE» DI
EMMANUELLE
BERCOT, SOPRA
A SINISTRA LA
GIURIA SULLA
CROISETTE/FOT
O REUTERS,
SOTTO «OUR
LITTLE SISTER»
DI KORE-EDA
Malony «salvato»
da patria e istituzioni
i Grande Gatsby o Grace di Monaco.
Ma soprattutto La Tete haute - A testa alta - firmato dalla regista, sceneggiatrice e attrice (è anche protagonista del film di Maïwenn in gara,
Mon roi) Emmanuelle Bercot è un
film che celebra al meglio i valori della Francia repubblicana, giustizia,
educazione, responsabilità occuparsi dei propri giovani in senso lato per
evitare di trovarsi all’improvviso dei
delinquenti o dei potenziali terroristi
(non a caso nei molti istituti correzionali a cui Malony viene assegnato è
spesso l’unico «francese» non nero o
arabo e per questo accusato dagli altri di beneficiare di maggiori indulgenze).
Diciamo il sentimento (reazionario) «giusto» che chiede la Francia
post-attentato Charlie Hebdo, quella
delle unità nazionali e del bisogno di
ritrovare una compattezza «morale»di valori per fronteggiare l’insicurezza dilagata ovunque. Perciò polizia, prigione che a piccole dosi fa anche bene per imparare i veri valori
della vita. E famiglia naturalmente
compreso un violento attacco
all’aborto che i figli fanno solo bene
pure se non hai lavoro e hai ancora
molti problemi aperti.
Il film ci crede «davvero» anche perché nonostante il riferimento esplicito al cinema dei fratelli Dardenne,
Bercot non lavora come i due registi
belgi sulle nuance ma illustra la sceneggiatura in modo piuttosto meccanico e artificioso, senza aprire nella
sua narrazione alcun margine di ambiguità. E non respira neppure della
critica alla Loach a proposito di madri borderline e istituzioni. Siamo più
dalle parti di certa fiction tv italiana
(ugualmente reazionaria), nei Dardenne c’è la tragedia, qui con Bach dispiegato a profusione in ogni scena
madre i personaggi vengono utilizzati
come dimostrazioni di una tesi: da
una parte l’ambiente borderline del
ragazzo Malony - attore intenso, il giovanissimo Rod Paradot - quella mamma inadeguata e fuori di testa, dall’al-
tra le istituzioni comprensive, illuminate, che vanno in crisi quando sbagliano anche se, ovviamente, il solo
a picchiare Malony sarà il suo tutore - Benoit Magimel - il quale lo sappiamo subito viene dallo stesso
mondo, redento a sua volta da giudici e carcere.
Tutto è molto chiaro, netto, esattamente come ci si aspetta, rassicurante nel celebrare (con molta convinzione) la fiducia alle istituzioni e a una loro immagine di cui c’è, appunto, molto bisogno. Che poi ci sia altro, che
poi i figli come dice il personaggio di
Magimel non possono essere una soluzione né un progetto, che tutti sono
buonissimi dalla parte delle istituzioni - salvo una preside che non prende
Malony a scuola e il procuratore che
spinge per la prigione ma forse aveva
ragione lui visto che al ragazzo giova non conta. Il film non interroga, da soluzioni pronte, celebra l’orgoglio nazionale e la sua generosità. «Quando
ha preso il mio film per l’apertura del
Festival, Thierry Frémeaux ha detto
che voleva un film universale ma non
consensuale, che riuscisse a toccare il
pubblico parlando di un argomento
che oggi è estremamente importante
come quello dell’educazione» ha dichiarato la regista. E questa parabola
«educativa» è perfetta allo scopo.
L’istituzione ci salverà. Evviva.
In gara/IL GIAPPONESE «OUR LITTLE SISTER» DI HIROKAZU KORE-EDA
Memorie e silenzi, il diario
intimo delle quattro sorelle
C.Pi.
CANNES
I
l primo film del concorso parla giapponese. Di per sè non è una notizia visto
che il regista, Hirokazu Kore-Eda è tra
i protagonisti della generazione di cineasti
cresciuta negli anni Novanta in Giappone.
E invece in questa Cannes 2015 «rischia»
di diventarlo. La polemica dell’apertura
nel «Cannes party» infatti è proprio quella
della lingua. La Croisette parla inglese, o
meglio «globish» sottolineano i media nazionali, con riferimento ai molti film in
concorso che sfoggiano cast internazionali di star, e una lingua che non corrisponde a quella del regista. L’elenco è lungo, e
tra questi vi sono ovviamente anche Il racconto dei racconti di Matteo Garrone - oggi in proiezione ufficiale - Youth- La giovinezza di Sorrentino, e poi Lanthimos, Villeneuve, Trier, il messicano Michel Franco.
Effetto spettacolare Pierre Lescure, ex direttore generale du Canal Plus che ha preso il posto di Gilles Jacob alla presidenza
del Festival? Non credo che l’impronta
d’autore sia solo una questione lessicale,
quello che piuttosto emerge è la mancanza (o quasi) in gara di un cinema indipendente e fuori dallo star system, e da qualche parte si fa notare che per Frémaux i
magri incassi della Palma d’oro dello scorso anno - il film di Ceylant Winter Sleep sono stati decisivi nelle scelte divistiche.
Torniamo a Kore-Eda, che adatta sullo
schermo un manga «familiare» di grande
successo scritto da Akimi Yoshida, girato
nella cittadina balneare di Kamakura, in
cui ritrova sentimenti e atmosfere del suo
universo poetico - pensiamo al precedente Tale padre, tale figlio. In questo nuovo
Our little Sister ci sono tre sorelle, la maggiore ha cresciuto le due più piccole quando la madre le ha abbandonate, appena
adolescenti, nella vecchia casa di famiglia,
dopo che il padre era andato via con un’altra donna.
Al funerale dell’uomo le tre ragazze conoscono la sorellina, una ragazzina di tredici
anni, Suzu, che la maggiore decide di portare con loro riconoscendo in lei la sua stessa
dolorosa sofferenza alla sua età, quel sentirsi responsabili per tutto e per tutti che, come le dice l’uomo con cui ha una relazione, le ha tolto il piacere dell’infanzia. Ma la
presenza di Suzu cambierà anche i rapporti tra le sorelle portandole dolcemente a riflettere su sè stesse e sulle scelte reciproche.
Siamo in mondo declinato interamente
al femminile, le sorelle, la anziana pro zia,
la madre delle tre ragazze, la piccola Suzu,
che condividono il fantasma paterno, quella figura per le tre fantasmatica, per Suzu
concreta intorno alla quale continuano a
fluttuare ricordi, rancori, delusioni, rimpianti. La memoria soffusa e delicata
dell’infanzia, anche nel dolore, per una delle ragazze è l’odore della nonna, per un’altra i kimoni dell’estate, per Suzu le giornate
col padre a pesca, per la sorella maggiore
l’ostinazione a mantenere le tradizioni, come il liquore di prugna, e per quella appena più giovane, e molto fashion, lo smalto
per le unghie che la madre le ha regalato
quando aveva solo sei anni.
Il Diario narra lo scorrere di queste
giornate, il rito sospeso del tempo quotidiano in cui nulla sembra accadere, i
passaggi dell’esistenza, gli incontri e gli
addii, le lente scoperte di sè, la crescita dei desideri,
la necessità di lasciarsi alle spalle
l’infanzia mondo
dell’infanzia ... Oltre i bordi delle immagini balena il
Giappone in crisi
delle piccole imprese oppresse dai
debiti e dalle banche, di un’irrequietezza giovane, di
sogni lasciati a metà. Non è facile
mantenere
teso
questo filo dell’emozione, e renderlo immagine. Kore-Eda guarda al cinema classico del Sol levante, alle sfumature emozionali impalpabili di Ozu, e non solo
per i fiori di pesco, nella delicatezza con
cui costruisce la sua messinscena, il movimento delle esistenze tra conflitti, silenzi, ferite anche involontarie, sorrisi,
umorismo che disegna questa geometria narrativa: le sorelle e la sorellina, il
paesaggio, la memoria e i cambiamenti
intimi del presente.Un film «piccolo»,
senza proclami, che trasforma la vita, e
lo scorrere delle stagioni in immagine,
luce, tempo del cinema.
GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015
il manifesto
VISIONI
BERENICE BEJO
L’attrice francese nominata agli Oscar per «The Artist» sarà tra i protagonisti del
prossimo film di Marco Bellocchio «Fai bei sogni», tratto dal best seller
autobiografico di Massimo Gramellini. Nel cast del film anche Valerio
Mastandrea, Fabrizio Gifuni, Guido Caprino e Barbara Ronchi.
MAX MANFREDI
E UN DETTAGLIO
DELLA COPERTINA
DEL DISCO,
IN BASSO
PINO MARINO
INCONTRI · Max Manfredi pubblica una nuova raccolta «Dremong»
Canzoni per orsi solitari
nella macchina del tempo
Guido Festinese
I
l Dremong, orso tibetano di piccola taglia, è diventato famoso
suo malgrado. Quasi un animale totemico, ma cacciato e torturato per estrarne bile (ritenuta curativa nella medicina tradizionale cinese), balzato alle cronache per intervento di diverse associazioni animaliste che sono riuscite a interrompere quasi totalmente la crudele pratica. Max Manfredi da Genova con il suo carattere franco e schivo, malinconicamente allegro come tanti cresciuti e svezzati nelle
ombre dei carruggi s’è identificato
nel Dremong. E ne ha fatto titolo e
quasi motivo conduttore per il suo
nuovo, disco di «canzoni d’autore»,
realizzato anche grazie alla raccolta di fondi collettivi. Confermando
ancora una volta che nella pattuglia dell’eccellenza dei cantautori
italiani lui è nella prima rosa.
Dremong si presenta con una policroma copertina con un orso dipinto da Ugo Nespolo, una chiazza
di colori forti che non lasciano indifferenti. Come le canzoni del disco. Ma quanto è «orso» Max Manfredi? «Gli orsi fanno una vita piuttosto difficile. Io sono, come loro,
letargico, conviviale e insieme scontroso. Ma penso che qui finiscano
le similitudini. Però fin da bambi-
no, l’orso è stato il mio animale totemico. Mi piace molto anche il lupo, però. E i gatti, onnipresenti. Anche se, per dirla col poeta, «sono venuto come un maestro solitario a
celebrare i sorci». Penso che gli uomini siano sopportabili quando
adottano certe strategie animali
simpatiche.»
Dremong è un disco molto «suonato» in cui risuonano note dal Mediterraneo e dal mondo. Ma che tipo di viaggiatore è Manfredi?
«Guarda, è strano: quando vado in
una città, di solito poi non la descrivo in una canzone. Le mie canzoni
provengono da sedimentazioni
mnemoniche, oppure da «invasio-
ni». A volte mi ’invadono’ scene e
strade di città dove non sono mai
stato. Le storie del porto di Atene mi
venne in mente nella stazione di
Asti, ad esempio. Allora mi documento un po’ e le descrivo. Non è
sempre così. Non sono un viaggiatore accanito, ma naturalmente nella vita sono stato in diversi posti
del mondo, sia per suonare, sia per
il piacere di visitarli. Eppure spesso
nelle canzoni descrivo le città dove
non sono stato. E chi c’è stato, o ci
vive, stranamente le riconosce. Le
cose mi piace viverle, ma non sempre c’è il passaggio fra quel che si vive e quel che si scrive».
Piogge, in Dremong è una «can-
UMBRIA JAZZ · Lady Gaga e Tony Bennett il 15 luglio
Caleidoscopio di stili a dispetto del titolo - Umbria jazz - per l’edizione 2015
(10-19 luglio). Duecentocinquanta appuntamenti in dieci giorni distribuiti in sei
stage: musica nel centro storico di Perugia da mezzogiorno a tarda notte, a pagamento e gratuita. L’evento clou è la data esclusiva che vede insieme Tony Bennett e Lady Gaga (15) ma nel cartellone tanti altri nomi di riguardo: Chick Corea
con Herbie Hancock, Caetano Veloso con Gilberto Gil, Paolo Conte, Brad Mehldau, Subsonica, Cassandra Wilson, Charles Lloyd, Dianne Reeves, Bill Frisell, Enrico Rava, Stefano Bollani, Paolo Fresu, Danilo Rea. Anteprima della kermesse il 9
luglio in piazza IV Novembre, dedicata ai trent'anni di collaborazione tra UJ e il
Berklee College of Music di Boston, con il concerto della Faculty Band di Larry
Monroe e Donna McElroy e di Alissia Benveniste & The Funketeers. L’autore del
manifesto della nuova edizione è il maestro Alberto Burri.
JENNIFER LOPEZ
Un tempo era «il cimitero» artisticamente parlando, ora un contratto a Las Vegas
è ambito da ogni artista. Come nel caso di Jennifer Lopez. La diva latina ha
infatti annunciato che dal 20 gennaio e almeno fino a tutto giugno sarà
impegnata in uno «show» al Planet Hollywood nella capitale del divertimento.
zone enumerativa», come la canzone dei mesi di Guccini. Un modo
per rapportarsi alla tradizione popolare oppure un esercizio di stile
nel senso migliore del termine.
«Tutto questo, penso agli affreschi
e alle miniature che raffiguravano i
mesi e le stagioni nel Medioevo e
nei palazzi rinascimentali. Oppure
certi più modesti calendarietti -cartolina. Però la mia canzone è anche una sequenza di impressioni liriche piuttosto accorate, e accurate. Non un esercizio di stile, a meno che non si contempli nell’esercizio anche l’emozione. La canzone
di Guccini, precedente la mia ma
di poco - Piogge risale agli anni Ottanta - è anch’essa servita da modello, e proprio comparando le due
canzoni si può avvertire la grande
differenza, e anche eventuali somiglianze del sentire e del dire in musica. Diciamo che mentre Francesco, cantando la rosa, il fiore dei poeti, confidava di pensare a Cenne
della Chitarra e Folgore di San Gimignano, io ho preso le mosse anche un po’ da lui. Il modello musicale dell’arpeggio continuo, invece, l’ho mediato da certe canzoni
di Leonard Cohen».
C’è molto folk nelle passioni personali dell’artista ligure. «Ascolto
un po’ di tutto. Quasi tutto è «folk»,
«I miei pezzi a volte
provengono da
sedimentazioni
mnemoniche o da
invasioni repentine»
ci sono tracce di musica popolare e
tradizionale anche nelle composizioni classiche. Le musiche più scalfite e attraversate nelle mie canzoni, e specialmente in Dremong, sono quelle greche e klezmer, insomma, musiche ambulanti, viaggianti,
migranti, non stanziali».
Chiude Dremong una canzone di
resistenza e di anarchia ispirata a
un racconto di Mario Mantovani…
«Lui era un mago che s’inventava
case di campagna, giornate ai laghi, caselli ferroviari dismessi, fiumi di prosecco e malvasia, cene e
fumate intorno al fuoco, nelle colline e pianure lombarde. Ho voluto
ricordarlo con una canzone cui ho
dato il titolo di un suo racconto.
Non so se gli sarebbe piaciuta, desolata com’è, ma spero di sì. Ho anche cantato una sua canzone, perché Mario scriveva anche belle canzoni, in un disco dell’amico Giorgio Cordini, che deve ancora uscire. E a questo proposito, delle cose
nel cassetto: la priorità dovrebbe
averla il lavoro che stiamo tenendo
in frigo con il musicista torinese
Giorgio Licalzi. Lì finalmente sono
autore di testi e cantante, e lascio
fare a lui per quanto riguarda le melodie o, almeno, gli arrangiamenti.
Ne viene fuori qualcosa di inedito
ma familiare. Le parole sono asciugate, calibrate, taglienti. Le musiche affascinanti, ritmiche e piene,
come si dice, di «groove».
PINO MARINO · L’esperienza con il Collettivo Angelo Mai e ora il ritorno da «solista»
Il vero «Capolavoro»? Nasce in comune
Stefano Crippa
C
apolavoro, proprio così con la o nera a sporcare la parola in rosso in copertina, per dare il giusto risalto al
significato del titolo del nuovo lavoro di Pino Marino, il quarto a suo nome che arriva dopo dieci anni di «latitanza» solista.
Ma in mezzo sono successe molte altre cose. Capolavoro dicevamo: «Che non è altro – spiega il quarantottenne artista romano – se non mettere a capo il lavoro di nuovo. Se non mettiamo il lavoro a capo delle
nostre cose non ne veniamo fuori, anche
l’arte non può più compiere il suo capolavoro se prima non torna a essere lavoro.
Soltanto generando lavoro anche nell’arte
si ottiene il processo di capolavoro». Uno
scioglilingua assai efficace con cui Marino
pagina 11
prova a spiegare come il mestiere dell’artista - per dirla alla Ciampi - sia un processo, lungo faticoso ma soprattutto deve essere «collettivo».
Pino ci prova da tempo, prima portando negli ottanta la sua musica nei locali capitolini, partendo dallo storico Folkstudio
e approdando anche a collaborazioni decisamente pop insieme a Maurizio Fabrizio.
E arrivano anche i lavori da solo, il primo
album Dispari (2000) con il quale ottiene
il Premio Ciampi, tre anni dopo Non bastano i fiori e nel 2005 Acqua e luce e gas. Poi
smette il nome in ditta, come si dice in gergo, e si dedica a una quantità di innumerevole progetti. «Mi sono occupato negli ultimi sette anni di molte cose, soprattutto
spettacoli che ho scritto per me e per altri.
E questo mi ha permesso di andare in giro
–
FemmineFolli
Joan Jonas e il maleficio
in una Venezia da sogno
–
Fabiana Sargentini
S
ono quasi 15 anni che non
torno alla più grande esposizione d’arte contemporanea e, appena approdo a Giardini, subito mi torna alla mente
che qui tutto è una vetrina. C’è
il sole, sono tutti eleganti, mi
fanno un po’ ridere ma so che
presto mi adeguerò a loro, mi
metterò in tiro, sarò anch’io parte dello spettacolo.
Sono stata concepita a Venezia, al Danieli, alla Biennale del
’68, quella della contestazione.
Questo luogo, ogni volta che ci
metto piede, qualcosa mi dona
ma sempre, in cambio, qualcosa mi toglie. A 8 anni furono le 2
Holly Hobbie tanto amate, a 17
l’oggetto transizionale (ancora?
sì ancora!), a 25 la perla
dell’anello materno, a 35 il libro
culto edizione introvabile... Stavolta cosa? Sto in guardia, Venezia, stavolta non mi coglierai impreparata.
Comincio il giro en passant,
trangugio 2 prosecchini alle 4
del pomeriggio che, da astemia,
mi salgono subito in testa. Mi
guardo intorno, cose sgradevoli
e cose piacevoli, nulla che colpisca il mio cuore né il mio cervello. Poi finalmente arrivo al padiglione degli Stati Uniti, unica artista invitata: Joan Jonas. Mi
metto in riga attendendo pazientemente il mio turno. Entro
e sono felice.
Api alveari bambini si disegnano a memoria su tele circolari posizionate davanti al viso su
cui vengono proiettate altre immagini di api in una circolarità
labirintica ourobotica ombelicale. Il pesce giurassico segna i
contorni in bianco e nero di
una bambina a cavallo di uno
stallone nell’acqua, di un fiume? di un lago? dello stesso mare dove, da uno scoglio, Joan
adulta si tuffa? Sovrapposizioni,
dissolvenze, simultaneità, doppia esposizione che confonde la
e incontrare persone, a prescindere da
ogni attività promozionale. Cito quello
con Daniele Silvestri – E l’inizio arrivò in
coda, uno spettacolo classico ma con una
meccanica coinvolgente in cui credo siamo riusciti insieme ad abbattere un po’ gli
argini del meccanismo della musica leggera, un po’ stantio».
Capolavoro (Altipiani/distr. Audioglobe), undici canzoni di pura poesia acustica appena contaminata da qualche elemento di elettronica: «Oggi è cambiato tutto e l’oggetto disco è diventato di fatto una
particella dell’intero settore, come una fotografia che fissa un particolare momento
artistico e prepara al passo successivo».
Compositore, autore, regista, pianista e
chitarrista, Marino è personalità dalle mille sfaccettature. I pezzi dell’album sono –
parole dell’artista che per l’occasione si fa
poeta: «Una rassegna di tuffi, una raccolta
di briciole in cui ciascuna trattiene in sé
l’intero. Alla forma compiuta da cui provengono, capita spesso la sorte di un capoverso. Dimenticare il pane è un guasto, saperlo fare è un privilegio, come l’amore
mente, fa ruotare gli occhi di
qua e di là come un danzatore
di katakali impazzito, un fantasma dalla maschera bianca vaga tra gli alberi, si affaccia a metà schermo, si riflette, sparisce,
tutto nasce tutto muore tutto
torna, uguale o diverso mentre
le api rigurgitano il nettare che
diverrà miele, overlapping Altmaniano prima e dopo Altman.
I bambini giocano leggono vestiti di bianco indossano cappelli
cilindrici di cartone assumono
le sembianze di messaggeri della luna, su di loro, diventati monitor, scorrono pupazzi di cartapesta multicolori, piccoli cani,
cerchi di balsa, la voce parla di
memoria, di madri e di padri, di
relazioni, di miti, di vita.
Un flusso di emozioni ricordi
rimpianti voci silenzi bui dentro
cui sprofondare onde perdersi e
ritrovarsi correre avere il fiatone
scalare cime sondare abissi sfondare mura abbracciare il mondo come Amma ricondurre tutto a casa senza limiti senza paure senza sbattere le palpebre così al volo fluttuando leggeri e
pulsanti come lancette di un
orologio che non si fermerà
mai.
Ho guadagnato molto attraverso la visione del lavoro «They
come to us without a word» di
Joan Jonas. Sono arricchita, piena, consapevole, paga. Mi sento
cambiata nell’aspetto tramite
una mutazione involontaria e,
forse, inevitabile. Che strano,
che follia, che bello!
Ma, oddio, possibile che stavolta non ci sia un prezzo da pagare, che Joan abbia infranto il
maleficio, che io sia finalmente
libera di venire qui senza rinunciare a qualcosa di importante?
No, accidenti, ho capito, anche stavolta Venezia ha vinto. Si
è presa la mia giovinezza.
Fabianasargentini@alice.it
non basta a se stesso, va diviso al pasto e
mangiato in tempo». Già, la condivisione i
dieci anni che intercorrono fra gli ultimi
due album di Pino lo hanno visto tra i fondatori del romano Collettivo Angelo Mai e
del Collettivo del Pane. «Ma prima c’è stata l’esperienza importante con l’Orchestra
di piazza Vittorio. Nata da un’urgenza,
quella di trattenere musicisti, fargli un contratto per evitare che venissero espulsi».
L’importanza del confronto con altri artisti è fondamentale: «Il processo del collettivo regala a chi lo vuole la possibilità di retrocedere di qualche metro con il proprio
nome per avanzare di parecchi metri con
un progetto comune». Sono esperienze
che ha vissuto a Roma: «Una città strangolata da vincoli, da poteri palazzinari e economici che di fatto impedisce a chiunque
di poterla amministrare correttamente».
Il tour di sostegno a Capolavoro è costruito a più livelli: «Ho previsto diverse situazioni, da solo, in duo fino a otto musicisti.
Ma sarà scritto sempre in maniera diversa, in modo che possa funzionare dal piccolo spazio all’Arcimboldi di Milano...».
pagina 12
il manifesto
GIOVEDÌ 14 MAGGIO 2015
L’ULTIMA
Arriva
reloaded
IL NUOVO SITO
gettato un nuovo sistema di archiviazione che potrà farvi trovare qualsiasi
firma e qualsiasi categoria/sezione in
un istante. La funzione archivio, inoltre, è rafforzata e si trova in tutte le
nuove «copertine di sezione» (politica,
cultura, internazionale, etc.), in modo
che si possa sempre trovare di tutto di
più. Anche il nuovo store, finalmente,
consente di poter gestire la vendita di
tutti i vari prodotti in modo semplice e
immediato sia nel backend (noi) che
nel frontend (voi).
ilmanifesto.info entra in una nuova
fase. In anteprima il senso
e le novità di un progetto editoriale
dalla parte dei lettori, unico
nel panorama digitale italiano
Matteo Bartocci
U
n sito in cui il contenuto è sovrano e i lettori sono protagonisti. Questo volevamo quando
abbiamo lanciato il nuovo manifesto
digitale un anno e mezzo fa e questo resta il nostro «piano editoriale». Semplice è bello. Il meno è il più (less is more).
Niente pubblicità on line, tutti i contenuti gratis da subito dietro un paywall
(l’offerta a pagamento oltre una certa
soglia ai propri contenuti su Internet),
un’unica redazione integrata carta/web/app, uso di sistemi open source o quasi, licenza creative commons e
ricerca della massima leggerezza possibile in tutte le soluzioni tecniche.
Il tempo e i numeri dicono che
l’esperimento è riuscito. Ora il progetto editoriale immaginato dalla nuova
cooperativa del manifesto, con la preziosa consulenza di thePrintLabs, fa
un altro passo avanti. Il nuovo sito su ilmanifesto.info e le nuove app per smartphone e tablet (tra qualche giorno)
renderanno la vostra esperienza di lettura ancora più coinvolgente, senza rinunciare alla sobrietà e alla qualità radicale dell’informazione. Nuove «copertine di sezione» che possono
“settimanalizzare” la vostra lettura, homepage ridisegnata con temi curati e
selezionati, innovazione grafica, nuova barra di navigazione centrata solo
sui contenuti, un velocissimo archivio,
nuovo store, nuove font, possibilità di
aggiornamenti quotidiani e notizie ultimora a prescindere dall’edizione digitale della sera. Non sono piccole cose
quando si vogliono tenere sotto controllo i costi e offrire un servizio comparabile a quello di testate più grandi.
Livelli di pubblicazione più flessibili
Finora il nostro obiettivo editoriale è
stato replicare su web e app l’edizione
quotidiana del manifesto. Perciò un sito anomalo, con un unico grande aggiornamento attorno alla mezzanotte.
Abbiamo cercato il privilegio del tempo lento dove tutto attorno invece è
istantaneo e le notizie si leggono e si dimenticano dopo pochi clic.
Adesso introduciamo elementi di
flessibilità in più, che consentiranno a
noi e a voi di modulare l’informazione
secondo il ritmo più adatto, dalla breaking news di una riga fino a dossier tematici e curati che restano nel tempo,
veri «mini magazine» che consentono
di approfondire al di là dello spunto
quotidiano. Il manifesto di carta e le
edizioni sulle app in larga parte continueranno a coincidere. Il sito non più,
si «sgancia» per navigare in modo più
autonomo.
Dall’homepage alla frontpage
L’80% dei navigatori non visita la nostra homepage. Perciò, senza estremismi da nativi digitali o pessimismo cosmico, il cuore del sito è l'articolo singolo. La pagina dell’articolo è il «mattone» di cui è composto il manifesto digitale. Il pubblico si allarga – basti pensare ai social network – e la vera porta
d’accesso al nostro sito è l’articolo. Per
questo l’abbiamo ridisegnato donan-
dogli profondità, freschezza, velocità,
focus esclusivo sul contenuto, facilità
di commento e condivisione.
È l’articolo singolo l’unica frontpage
che molti di voi vedono del manifesto.
È quello l’inizio (o la fine) della vostra
esplorazione nel nostro mondo. In modi sottili che speriamo apprezzerete, a
partire da lì vi offriamo più spunti di
lettura: articoli in evidenza (quelli che
secondo noi dovreste proprio leggere),
articoli collegati a quello che state leggendo, articoli che in quel momento altri lettori trovano interessanti e stanno
commentando, l’edizione giornaliera
in cui quell’articolo è pubblicato. Testo e contesto non solo per informarsi
ma per poter approfondire secondo il
proprio ritmo di vita e piacere personale.
Questo non vuol dire che l’homepage passerà in secondo piano. È la nostra momentanea impronta di bit nel
mondo. Tutto il sito del manifesto è responsive, cioè progettato per re-impaginarsi automaticamente su qualsiasi
schermo, dal telefonino al desktop.
Perciò abbiamo ridisegnato la barra
di navigazione dedicandola solo ai contenuti, aggiornato la gerarchia delle varie sezioni/categorie, introdotto elementi importanti come le notizie ultimora, articoli in evidenza e articoli più
letti negli ultimi tre giorni. Abbiamo
rotto la gabbia grafica con una citazione e soprattutto con una raccolta curata di articoli che può variare a piacimento e che «accompagna» la nostra
copertina. Un ulteriore livello di lettura sul fatto del giorno o della settimana.
La scelta del Whitney
Questa «rottura morbida» con il giornale in edicola è simbolizzata anche
dalla nuova webfont scelta per i titoli e
gli occhielli, il Whitney Condensed.
Pagare per il web si può (e si deve)
Quando con thePrintLabs abbiamo iniziato a valutare le nuove font da utilizzare sul sito, il Whitney ci è sembrata
la soluzione. Una famiglia di caratteri
«senza grazie», compatta e molto leggibile anche in piccole dimensioni, che è
stata progettata originariamente per indicazioni, didascalie e cataloghi del
Whitney Museum di New York (da qui
il nome). È una webfont che senza essere protagonista spicca in pagine affollate e incoraggia la lettura.
Per ridurre il peso del download e
mantenere la leggerezza grafica, inoltre, abbiamo scelto di mantenere il Georgia per il testo degli articoli, visto che
ILLUSTRAZIONE
DI KLAUS
ASMANN
TRATTA DA
200 BEST
ILLUSTRATORS
è una font di base universale.
Nuovo archivio e nuovo store
Una delle lacune più gravi di wordpress (il sistema di impaginazione del
nostro sito) è l’arretratezza delle funzioni di ricerca. Ricerca e archivio sono croce e delizia degli editori di tutto
il mondo. Rendere disponibile tutto
quanto si è prodotto negli anni è fondamentale per noi e per i nostri lettori. Se
il giornale di carta dura un giorno, Internet conserva la memoria per sempre. Perciò accanto alla funzione normale di ricerca personalizzata (la lente
in alto a destra), thePrintLabs ha pro-
Il sito del manifesto non cerca «traffico» da vendere in pubblicità. Vende abbonamenti. Forme e contenuti che i
lettori devono essere disposti a pagare.
Perciò abbiamo il dovere di offrire un
prodotto ben fatto, onesto e trasparente. Dove ciò che leggi è scelto da noi
per voi e non in base alle statistiche di
traffico o i «mi piace» sui social
network. Non abbiamo alcun bisogno
di piegare la nostra offerta in base ai
clic. Ci interessano le persone, non i
mouse: «Se non sei interessato a pagare allora dobbiamo ancora convincerti
(e lo faremo). Intanto registrati e leggi
gratis 15 articoli ogni due settimane».
Degli 88mila lettori registrati sul sito
solo il 3,5% è abbonato. È chiaro che
se vogliamo convertire lettori in abbonati dobbiamo migliorare, e voi potete
davvero aiutarci, scrivendoci e raccontando che cosa volete o pensate (lettere@ilmanifesto.it).
Con una certa sorpresa, infatti, siamo ancora soli nella strada tracciata
l'anno scorso. Nonostante vari annunci, nessun editore italiano ha ancora
adottato un paywall, cioè l’offerta a pagamento oltre una certa soglia di articoli su Internet. A tutt’oggi in Italia lo
fa solo il manifesto (all’estero è quasi la
norma). Una caratteristica che forse ci
penalizza nei numeri ma che siamo
convinti sia l’unica strada (l’altra, i video e i banner pubblicitari, si sta rivelando un vicolo cieco) per rendere il digitale utile per un quotidiano che trova
nell’edicola la sua forma principale di
pubblicazione e ricavi.
Il futuro è infinito
A breve partiranno anche le nuove
app, fin dall’inizio parte integrante di
questo progetto. Mentre per l’edizione
italiana di Le Monde Diplomatique
stiamo sperimentando un nuovo sistema che potrebbe consentirci uno sviluppo digitale serio e coerente anche
per questo prestigioso mensile.
Alcune iniziative editoriali sono ancora in fase di progettazione. Perché
non fare un manifesto anche in altre
lingue, per esempio?
LO SVILUPPO · I fondatori di thePrintLabs raccontano la passione di un lungo lavoro comune
Nel caos dell’editoria il contenuto è il cuore di tutto
Stefano Garavelli
Nicola Pernice
Q
uando il manifesto ci ha
chiesto di raccontare
con le nostre parole la
storia dell’aggiornamento che
troverete online su ilmanifesto.info, qui a thePrintLabs abbiamo provato a raccogliere le
idee sulle soluzioni tecniche, i
ragionamenti che hanno portato alle varie scelte, e l’esperienza di utilizzo che avremmo voluto creare per i lettori del manifesto digitale. L’articolo qui sopra
esprime già pienamente le riflessioni e le scelte che abbiamo affrontato insieme sul senso e la
sostanza dell’ultimo aggiornamento.
Invece gli aspetti su cui desi-
deriamo soffermarci - il valore e
la storia che vogliamo raccontare -, riguardano interamente la
qualità del lavoro e la passione
per ciò che facciamo, unita alla
qualità dei rapporti professionali e personali.
Da due anni siamo partner
del manifesto per i canali digitali, una storia costruita giorno dopo giorno affrontando ogni ostacolo con il costante confronto,
per trovare insieme le soluzioni
migliori, condividendo pregi e
difetti di ogni scelta, soppesandone i rischi e le opportunità.
Grazie a questo atteggiamento siamo stati in grado di imparare dagli errori e migliorare le
nostre capacità di risoluzione e i
prodotti finali.
A partire dal 2013 insieme al
manifesto abbiamo affrontato
prima lo sviluppo di una app
per iPad che consentisse di raggiungere i lettori con un approccio esclusivamente basato su
un’esperienza di lettura e di collezione delle edizioni efficiente
e funzionale. Un ambiente privo di distrazioni, il download veloce, poche funzionalità ma pienamente utilizzabili. Una redazione unica per la carta e per il
digitale al lavoro su un workflow semplice ed efficiente.
Attorno a questo abbiamo poi
sviluppato la versione per iPhone, una nuova app per i sistemi
Android, la nuova presenza sul
Web e i sistemi di gestione degli
abbonamenti, del paywall e di
e-commerce.
Adesso il nuovo manifesto su
Web, e tra pochi giorni anche su
app, arriva alla seconda release,
di cui abbiamo iniziato a parlare già un anno fa con una collaborazione continua, condivisione delle analisi, delle prospettive, dei risultati e delle difficoltà
fin qui sperimentate.
L’ultimo aggiornamento web
che sarà on line ultimati i test è
un sottile redesign che ha coinvolto centinaia di piccole componenti grafiche e introduce alcune nuove funzionalità che
non consideriamo «rivoluzionarie» ma semplicemente frutto
del ragionamento sulla fruizione delle informazioni da parte
del pubblico del manifesto.
Il valore, anche in questo caso, risiede nell’essere stati in grado, condividendo con la redazio-
ne il merito per i successi e la
colpa per gli errori, di stabilire
un obiettivo e dirigere ogni sforzo esclusivamente verso di esso.
Presentare i contenuti nella loro forma migliore per agevolarne la fruizione e permettere al
contenitore di sparire, lasciando lo spazio alle parole e alle immagini che raccontano storie e
opinioni.
In un panorama editoriale ormai intossicato da articoli click-baiting, banner pubblicitari e
advertorial, se il manifesto digitale sarà l’anomalia che riuscirà
a farsi strada con un’offerta limpida e una forma coerente sui
vari canali, questa bella storia
potrà anche essere chiamata un
successo.
* thePrintLabs